Umberto Eco, Storia della bruttezza. Una recensione

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Romanzo di Esopo I (I-II secolo d.C). "Esopo, il grande benefattore dell’umanità (...) repellente, schifoso, pancione, con la testa sporgente, camuso, gibboso, storto, labbrone..."

Che cosa è il brutto? Che cosa è brutto? Solitamente si definisce il brutto in opposizione al bello; ma essendo il bello piuttosto soggettivo, anche la nozione di brutto non può essere univoca. Il bello e il brutto sono relativi a tempi diversi, a culture diverse, anche se nei secoli si è cercato più volte di definire dei modelli per definire cosa fosse bello e cosa non lo fosse (ne è uno dei massimi esempi il Canone di Policleto, una statua nella quale aveva racchiuso tutte le regole per le proporzioni ideali).Nella Storia della bruttezza a cura di Umberto Eco, viene presentata, partendo dal mondo classico sino ad arrivare al giorno d’oggi, la nozione di bruttezza, accompagnata da una lunga serie di opere d’arte che possono far comprendere tali concetti. Il testo comincia cercando di sfatare uno dei miti più diffusi legato al mondo classico: non era sicuramente un mondo dominato dal bello come molti credono. “L’ideale greco della perfezione era rappresentato dalla kalokagathia, termine che nasce dall’unione di kalos (genericamente tradotto come “bello”) e agathos (tradotto come “buono”).” Potremmo tradurre il concetto con il termine anglosassone gentlemen, persona di aspetto dignitoso, composta, ma che nello stesso tempo presenta un temperamento, un carattere fiero, coraggioso, dagli alti valori morali. Proprio alla luce di questo ideale, il mondo greco ha elaborato una vasta letteratura sul rapporto tra bruttezza fisica e bruttezza morale. La bruttezza e la malvagità erano aspetti molto indagati dai greci: osservate gli innumerevoli cortei di Bacco, con i sileni ebbri e ripugnanti, che a volte fanno sorridere tanto comicamente vengono rappresentati. La malvagità però non è sempre legata all’aspetto: l’orribile sileno per eccellenza è Socrate, maestro di saggezza. E non è sempre legata all’individuo maschile: ci sono figure come le sirene che la mitologia ha spesso rappresentato come uccellacci rapaci dalla coda di pesce. La loro malvagità sta nella voce, come ricorda l’Odissea: “Chiunque i lidi incautamente afferra- delle Sirene, e n’ode il canto, a lui- né la sposa fedel, né i cari figli- verranno incontro su le soglie in festa-“. Un fascino pericoloso e distruttivo.

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Martin Hengel, Ebrei, Greci e Barbari. Una recensione

Tempio di Oropos (Attica). Di qui proviene l'iscrizione del più antico ebreo ellenizzato della storia: "Mosco, figlio di Moschione, giudeo, in seguito a un sogno su ordine del dio Anfiarao e di Igea"

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Ebrei, greci e barbari. Aspetti dell’ellenizzazione del giudaismo in epoca precristiana (Studi biblici)

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Il presente studio, editato dall’autore nel 1981, è la meta a cui egli è arrivato dopo anni di intense ricerche compiute sulla storia giudaica; ricerche che hanno trovato forma di espressione nella rivista che da anni accoglie i più importanti studi sul versante storico del giudaismo, la Cambridge History of Judaism. Tale opera dunque non è altro che la riproposizione in forma più vasta, aggiornata e compita dei precedenti contributi che egli pubblicò su tale rivista. Erudito in discipline storiche e filosofiche, l’autore riprende un tema tanto caro nella sua precedente produzione letteraria: l’incontro-scontro culturale del giudaismo con l’ellenismo con particolare riferimento alla Palestina fino alla seconda metà del II sec. a.C. L’autore stesso afferma: “questo lavoro rappresenta in molti punti una continuazione della ricerca svoltavi. I nuovi reperti archeologici che continuano a venire alla luce, come pure i continui progressi della ricerca, forniscono un ricco materiale a questo scopo”. Il presente contributo si colloca perciò nella stessa prospettiva dei precedenti: il tema preso costantemente in questione dall’autore è “l’incontro tra il giudaismo e la cultura ellenistica” in tutti i suoi aspetti, anche filosofici. L’autore, professore di N.T. all’Università di Tubinga, tratta questo argomento con l’intento di chiarire questo tema limitatamente a “quel periodo della storia giudaica tuttora oscuro per la precarietà delle fonti, in quanto egualmente lontano per gli studiosi dell’Antico Testamento come per quelli del Nuovo“, dal momento che proprio in tale periodo “vennero posti i fondamenti decisivi per l’autocoscienza del popolo giudaico dell’«epoca neotestamentaria» e non solo della diaspora nell’area di lingua greca, ma anche della madrepatria, la Palestina”.

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Vittorio Lanternari, Festa, carisma, apocalisse. Una recensione

Pieter Van der Heyden, La festa dei folli, 1559

Con questo libro Lanternari arricchisce le visioni del mondo dell’ uomo occidentale  rendendole più profonde ed umane. Proietta il nostro sguardo sugli aspetti religiosi delle “culture primitive” e sull’ urto culturale tra la civiltà europea e le culture indigene dei Paesi coloniali, dal quale sono scaturite nuove formazioni religiose sincretiste. Ma in queste pagine ritroviamo anche  il fascino ed il significato della cultura contadina dell’ Italia meridionale. In sostanza Lanternari indirizza la sua attenzione verso il concetto di “religione popolare” e lo studia nell’ ambito del proprio contesto storico-sociale di appartenenza. E l’espressione “religione popolare” assume valore e importanza storica  mettendola in relazione ad un altro concetto, complementare e dialetticamente opposto cioè quello di “religione ufficiale”. A livello teorico e metodologico, Lanternari adotta un approccio storico-antropologico; tuttavia è esplicita la sua intenzione di confrontare tra loro  culture diverse. I primi capitoli sono attraversati dall’ assunto generale della funzionalità della festa per il sostentamento dell’ identità dei gruppi sociali, a prescindere dalle loro collocazioni di tempo e luogo.

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Sartre, L’angelo del morboso. Una recensione

Altweiser in una cartolina del 1968

Era un altopiano dei Vosgi dai fianchi irsuti. I monti circostanti si elevavano o discendevano come montagne russe, tutti ombreggiati dalla loro chioma d’abete, ora zazzera scossa dai venti, ora pettinata con cura, tosata sui lati, che rivelava agli occhi riposati l’oasi di un prato verde o di una casa rossa. Quei tetti lontani, fabbricati a mattoni, dovevano alla foresta che li circondava l’abbellimento di un contrasto: erano diventati la meta delle passeggiate, per il piacere di incontrare degli uomini dopo la traversata di un luogo solitario; rappresentavano la vita umana, poveri sostituti che implicavano tuttavia una quantità di idee mondane e lussuose radicatesi là misteriosamente, probabilmente col favore della distanza. Sull’altopiano era spuntato un villaggio, Altweier, accuratamente diviso, come tutti quelli dell’Alto Reno, in due parti: la frazione cattolica e la frazione protestante. Ciascuna aveva la sua chiesa e le case si raggruppavano, sottomesse, attorno ai due campanili. Il partito cattolico si era impossessato della cima: più modesto o venuto tardi, il partito protestante si era installato un po’ più in basso, annodato dalle tortuosità della strada. Il calzolaio, carattere forte, s’era sistemato ancora più in basso per far vedere che faceva gruppo a parte. Certi alberghi ermafroditi servivano da tramite, da intermediari. In uno di essi (che si era chiamato Hôtel di Sedan dal 1870 al 1918, e che prese dopo l’armistizio il nome di Hôtel della Marna, senza del resto cambiare proprietario), Louis Gaillard andava a villeggiare, durante i tre mesi di vacanza che l’università accorda ai suoi professori. Arrivò, caricato di una valigia, vestito con l’indispensabile gabardine e l’aria imbronciata che è il suo correlativo abituale. Aveva caldo e sete, aveva litigato, senza averla vinta, col conducente della corriera; e il disgusto, la nausea di fine viaggio che rivolta i nostri poveri corpicini sedentari, pesavano su di lui. Era un mediocre, smarrito dalle cattive compagnie: come è dannoso per un giovane povero vivere nella scia di ragazzi ricchi, così può nuocere il commercio di persone più intelligenti di sé”.

Inizia in questo modo il breve, asciutto e intenso racconto che nel 1922, presumibilmente d’autunno, scrive, con voce adulta e sicura (anche se il timbro appare, soprattutto nelle prime righe, molto più lirico di quello a cui di norma si è abituati, e con uno stile davvero personale e ironico, nonché particolarmente ricco di colti riferimenti letterari, spesso tutt’altro che ostentati) un ragazzo, già diplomato, e iscritto in una classe letteraria di preparazione al concorso della Scuola Normale Superiore, ma di soli diciassette anni d’età: quel ragazzo è Jean-Paul Sartre. Questa è la sua prima pubblicazione.

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Freud, Psicopatologia della vita quotidiana. Una recensione di G. Ottaviani

Sigmund Freud fotografato con la madre

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Perché un testo ha successo? Spesso perché il lettore si riconosce in quello che viene raccontato, identifica situazioni, si immedesima nei personaggi, come se i sentimenti descritti fossero davvero i suoi, come se anche a lui realmente fosse capitato di provarli. Una storia diventa di successo quando a ognuno dei tanti che la leggono sembra la propria, la sua storia, o almeno una delle varie storie che gli sono occorse da quando ha memoria. La lettura di “Psicopatologia della vita quotidiana”, anche grazie alla vivace scrittura del padre della psicoanalisi (oramai questo è l’epiteto per eccellenza di Freud, come “piè veloce” per Achille), è una rara soddisfazione, perché svela un livello più intimo di comprensione di avvenimenti che a tutti – anche a Freud – sono capitati, di cui tutti  percepiamo, più o meno, l’importanza, non capendo bene però il perché. Come ha scritto l’autorevolissimo Umberto Galimberti, “ci racconta che la nostra vita non ha solo il senso che noi le riconosciamo con la nostra ragione. Ci racconta che il nostro io non è padrone in casa propria, che la casa di psiche ha molti abitanti, spesso tra loro litigiosi. Ci racconta che nelle cantine della nostra anima si agitano demoni e dèi, di cui abbiamo dimenticato il nome da quando […] abbiamo chiamato il potere, l’amore, l’aggressività, l’odio, “istanze psichiche” non sempre manifestabili nella vita sociale, ma vive e animate nel sottofondo della nostra anima, che talvolta riescono a manifestarsi a noi e agli altri suscitando, dopo un po’ di disagio, l’ilarità che sempre accompagna un’insincerità smascherata”. Addirittura Galimberti arriva poi a dire che questo è un libro “cattivo” di Freud, perché “non ci lascia nell’innocenza della distrazione, della dimenticanza, della sbadataggine, della stanchezza, dello stress, e perciò dà ragione alla donna innamorata che, anche se non sa nulla di psicoanalisi, sospetta, nella dimenticanza di un appuntamento, che l’amato forse non la ama più”.
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Arthur Nock, La conversione. Società e religione nel mondo antico. Una recensione

Michelangelo, Conversione di san Paolo (1543 circa)

Il primo, a nostra conoscenza, che abbia orientato la filosofia lungo le strade dell’azione pratica ed abbia raggruppato attorno a sé dei discepoli per trascinarli ad una vita austera, è Pitagora di Samo” (Gustave Bardy)

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Il titolo che Nock dà al suo libro rivela non tanto un argomento psicologico quanto storico. Infatti il fenomeno psicosociale della “conversione”, sia ad una filosofia greca che ad una religione (Nock accomuna e cerca di distinguere le due cose nel capitolo XI del libro), diventa per lui un fatto storico, a motivo del quale si è avuta una vera e propria trasformazione della vita spirituale  all’interno del mondo antico ed ellenistico. Afferma: “Se risolvere il mistero di una conversione individuale spetta in ultima analisi allo psicologo, comprendere invece il fenomeno singolare della conversione di un’epoca, della trasformazione di una cultura, è il compito più arduo ed insieme più affascinante che possa toccare allo storico – quando egli è veramente degno di questo appellativo.” L’autore conduce questo studio avvalendosi di più discipline, come la sociologia, la storiografia e la filologia, tutte quelle che concorrono a dare della società e della religione nel mondo antico informazioni più precise e dettagliate. Nel libro s’incontrano anche discipline quali la storia delle religioni classiche e storia del cristianesimo delle origini, la storia della cultura e della società ellenistico-romana e la storia della religiosità e dei culti orientali: vasti ed autonomi campi di ricerca, che tuttavia si fondono in una visione unitaria e coerente dello svolgimento spirituale del mondo antico. Nock eredita la grande tradizione di ricerca risalente a Droysen, ma ha anche presenti i filoni di studi inaugurati da Franz Cumont e di Adolph von Harnack per questa sua peculiarità interdisciplinare. Trattando il periodo storico che va da Alessandro Magno fino ad Agostino, affronta un’epoca cruciale in cui ci fu un vero e proprio incontro tra paganesimo e cristianesimo, nonché la penetrazione in Occidente di una mentalità più mistica e perennemente alla ricerca della “salvezza”; si propone perciò di guardare il processo dall’altro punto di vista, da quello dei convertiti; per usare le sue stesse parole: “Quando il cristianesimo apparve nell’impero romano, attrasse molte persone che conservavano l’atteggiamento tradizionale nei confronti dei fattori ignoti ed invisibili dell’esistenza. Questo processo di attrazione è stato per lo più studiato dal punto di vista cristiano. In questo libro ho invece cercato di considerarlo dall’esterno”. Il punto di vista tradizionale ha infatti relegato l’intera società pagana con le sue forme e i suoi miti a semplice elemento secondario. Nock si propone di fare il contrario: la promessa di perdono dei peccati, colpe ed errori, e di rinascita spirituale, la ricerca della verità e salvezza è un punto centrale di tutte le religioni diffusesi nel periodo ellenistico (“pagane” e non), ma che avvicina la conversione religiosa alla conversione filosofica, un problema significativo affrontato all’interno del libro che ci riporta alla filosofia come stile di vita e come disciplina, un “abbraccio totale” che non coinvolge solo l’intelletto, ma la volontà e i sentimenti.

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Jacques Derrida, Dello spirito. Una recensione di Kinglizard

Heidegger e Derrida

Se ordini il libro tramite il nostro link, hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Dello spirito: Heidegger e la questione (Testi e documenti)

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Dello spirito è una sorta di monografia tematica che analizza e ricostruisce l’evoluzione dell’uso di un concetto, quello di spirito appunto, nella grandiosa opera di Martin Heidegger. Eppure, contemporaneamente, Dello spirito è anche un’opera di Jacques Derrida, un’opera cioè in cui sono evidenti sia l’impronta stilistica, mai priva essa stessa di significati suoi propri, del filosofo francese, sia il suo particolare modo di procedere nell’esposizione dei concetti. Se quindi da un lato si ha a che fare con una ricostruzione, non solo filosofica e concettuale ma anche filologica, che vuole essere il più vicina possibile all’esattezza storica, dall’altro lato, leggendo il testo, ci si imbatte in scelte peculiari nel modo di affrontare il tema centrale, scelte che, come accade spesso nei testi derridiani, sembrano non abbordare mai direttamente l’oggetto di cui si vuole parlare e che, quasi accostandosi ad esso obliquamente, seguendo sentieri secondari, apparentemente marginali, non ancora battuti, ne fanno emergere quel surplus di senso che soltanto i grandi interpreti sanno produrre.

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Adorno, Minima Moralia. Una recensione di Gabriele Ottaviani

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (Einaudi tascabili. Saggi)

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Meditazioni della vita offesa”: il sottotitolo già dice tutto. Centocinquantatre aforismi (per quanto decisamente meno sintetici di quanto si sia portati a considerarli avendo una conoscenza generica di quelli più consueti, che arrivano quasi a essere solo brevi sentenze, motti, detti proverbiali), non uno di più, non uno di meno, scritti tra il 1944 e il 1947 ed editi per la prima volta nel 1951, che in apparenza possono sembrare quasi un puro e semplice esercizio di stile, un’esclusiva e disincantata divagazione pressoché senza meta;  in realtà costituiscono i fotogrammi della pellicola del film, girato da Adorno  (1903-1969) in vesti forse più di operatore che non di regista o sceneggiatore, dell’uomo occidentale, che si muove lungo un orizzonte che interessa l’ambito sociale, quello culturale, la dimensione politica, e a cui il filosofo, sociologo e musicologo che abbandonò per gli Stati Uniti la sua terra natia, la Germania (quando questa si vide invasa dall’orrore del Nazismo) non rinuncia mai di concedere la possibilità del riscatto.

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Marcuse, L’uomo a una dimensione. Una recensione di Stefano Lechiara

Un fotogramma di Metropolis (1927), di Fritz Lang

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): L’uomo a una dimensione (Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie)

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Antesignano di idee rivoluzionarie, “Maestro della nuova sinistra”, “apologeta del Dio Marx” ed oracolo di una società costruita ex novo sul presupposto di una liberazione totale dell’umanità, oppure marxista eretico” e visionario, nonché “irrazionalista di sinistra” e precursore di ideologia oscurantista? La vasta produzione di Herbert Marcuse, poliedrica figura di intellettuale germano-statunitense ed eminente rappresentante della Scuola di Francoforte, risulta aliena da un’interpretazione sostanzialmente condivisa in senso plurilaterale. Parimenti la sua vita, ricca di avvenimenti biobibliograficamente significativi, pare dividere gli studiosi. Essa ha suscitato la disapprovazione da parte di coloro che si presero la briga di evidenziarne la relazione (apparentemente antinomica) con la sua opera scritta (vedi la “Pravda”, organo di stampa dell’URSS) sì da giungere ad un’alacre condanna che ha il sapore di una scomunica. Nondimeno Marcuse, nell’ambito del ribellismo sessantottino che infuriava su scala globale, riscosse un successo e un’approvazione che sfiorarono la mitizzazione fanatica. In tal periodo difatti, si era quasi dappertutto gridato nei cortei e scritto sui muri: “Mao, Marx, Marcuse”. La prerogativa di Herbert Marcuse (che contraddistingue i più grandi) è quella di dividere così come inaugurare prospettive innovative e comprensibili, con ogni probabilità, in epoche piuttosto lontane. Il filosofo sembra quindi interessare non soltanto come interprete di fenomeni sociali ma, in primis, in quanto esso stesso fenomeno sociale da interpretare. Il pomo della discordia è costituito dalla sua opera più celebre “L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata” (1964), edita a Boston nel momento in cui egli era poco più che un professore settuagenario e conosciuto per lo più negli Stati Uniti (ove si era stanziato negli anni della seconda guerra mondiale a causa della persecuzione nazista imperversante nella sua Germania).

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Krishnananda, A tu per tu con la paura. Una recensione

Thomas Trobe e la compagna, Gitte Demant

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Fra Oriente e Occidente, fra psicanalisi e meditazione

A tu per tu con la paura, di Krishnananda (pseudonimo di Thomas Trobe ) è un viaggio all’interno dell’essere umano, alla scoperta delle sue paure, delle sue difficoltà , delle ferite sepolte che agiscono fattivamente sul presente con tutte le inevitabili conseguenze. Trobe, psichiatra, cresce nello studio antropologico e sociologico del genere umano, seguendo come allievo la guida spirituale di Osho. Da lui impara l’ arte della meditazione e come questa pratica debba diventare esercizio fondamentale e necessario per chiunque voglia superare la superficie per entrare nell’interiore, in quello che considera il vero essere. Questo privilegiare la pratica meditativa lo avvicina ad un noto concetto espresso dal suo maestro: “il centro della tua vita, il tuo essere, è la tua connessione con il cosmo. Da questa porta puoi entrare nel cosmo e diventare tutt’uno con l’ esistenza. Ma anche quando sei nel centro del tuo essere…troverai grande splendore e mistero. Questo stato viene chiamato il buddha, il risvegliato. In questo momento tutti voi siete dei buddha. Potete anche dimenticarlo, ma non importa. Prima o poi ve ne ricorderete di nuovo.”

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John Stuart Mill, Saggio sulla libertà. Una recensione di Gabriele Ottaviani

John Stuart Mill

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John Stuart Mill, nato nel 1806, il venti di maggio, a Pentonville, un distretto di Londra (laddove nel 1902 risiederanno anche Lenin e la moglie) e morto ad Avignone sessantasette anni dopo è senza dubbio una delle voci più interessanti, chiare e autorevoli della filosofia e dell’economia del Diciannovesimo secolo, il secolo che precedette quello “breve” per eccellenza; un pensatore di levatura francamente straordinaria, che ha influenzato molte delle opinioni che sono venute a palesarsi e a formarsi negli anni, nei decenni e nei secoli successivi, portando parecchi intellettuali a schierarsi più o meno apertamente in due contrapposte fazioni, tra chi condivide, sia pur mutatis mutandis, le sue tesi, e chi invece le contesta, benché possa non di rado in effetti trovare, nell’approfondita analisi della speculazione di Mill, punti di contatto con le proprie personali convinzioni.

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Dodds, pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Una recensione

Apollonio di Tiana, una sorta di Cristo pagano. Le fonti (specie Filostrato) gli attribuiscono poteri, miracoli e vaticini.

Profondo conoscitore delle fonti classiche, l’autore riprende in questo testo edito originariamente nel 1965 un topos caro alla sua precedente produzione letteraria: il cosiddetto “irrazionale” si identifica fortemente col modello greco-ellenistico inteso come esperienza del mistico e dell’esoterico (1). L’autore, in quest’opera, pur essendo un fervente razionalista di larghe vedute, presenta il mondo delle paure e delle stravaganze del periodo tardo romano: si avvertono in filigrana determinati stati modificati di coscienza, di esperienze esoteriche e mistiche, nonché nuovi modi di pensare e di vivere. Nel periodo cruciale che va dall’ascesa al trono di Marco Aurelio alla conversione di Costantino, rileva i principali aspetti dell’esperienza religiosa; è periodo in cui il mondo precipita nella decadenza materiale, in cui fioriscono i nuovi e più intensi sentimenti religiosi e in cui si assiste a un mutamento di prospettiva intellettuale. È una vera e propria epoca di angoscia, perché ciò che conta per l’uomo di quel tempo non sono più i valori materiali e morali, ma l’idea di infinito e di salvezza; cristiani e pagani, secondo una nota tesi storiografica, sono impegnati a pensare più a se stessi che alla realtà esteriore: “gli uomini stavano cessando di osservare il mondo esterno e di cercare di capirlo, utilizzarlo o migliorarlo: essi erano portati a pensare a se stessi…L’idea della bellezza dei cieli e del mondo passò di moda, e fu sostituita da quella dell’infinito”. L’autore tratta questo argomento con l’intento di poter essere di interesse specialmente a chiunque non abbia ancora “una conoscenza specifica del pensiero antico o della teologia cristiana”.

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