Platone e Derrida discutono di padri, figli e figliastri

a cura di Elisa Scirocchi

Platone parla, Socrate scrive. Forse è realmente un sogno...

Sto facendo un sogno.
Platone e Jacques Derrida seduti sotto l’ombra di un albero che sfuggono alla calura del cocente sole ateniese. Passato e futuro sono coesi in un dialogo che continua nei secoli. Platone decide di sottoporre a Jacques alcune questioni cui si è dedicato durante la scrittura di un nuovo dialogo che sta per pubblicare: Fedro. Numerosi sono i temi sui quali Platone e Jacques potrebbero discorrere a lungo. L’inesauribile densità di significati del mito della biga alata, la forza dell’esaltante mania amorosa, il viaggio prenatale nella pianura della Verità e la folle caduta delle anime nella tomba del corpo, la teoria della conoscenza come reminescenza, e il soave rapporto degli uomini con la musica espresso nel mito delle cicale. Ma una questione in particolare li colpisce: che sia meglio il discorso parlato o quello scritto? Platone, figlio intellettuale di Padre Socrate e Madre Oralità, si mostra sicuro nel dire che il solo discorso che ci conduce alla Verità è quello parlato. A tal proposito racconta una storia che viene da terre lontane: “Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi, e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’alto Egitto che i greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone”. Platone continua poi il suo racconto con lo scopo di capire insieme a Jacques se sia opportuno scrivere, e se sì, quando è giusto farlo. Il mito, infatti, racconta che il dio Theuth giunse al cospetto del re e gli mostrò tutto ciò che aveva inventato. Arrivato al momento di illustrare la scrittura disse al re Thamus che questa avrebbe reso gli egiziani più sapienti, poiché avrebbe arricchito la loro memoria. “Dunque”, dice Platone, “tale invenzione sarebbe stata un rimedio sicuro!” (O forse disse un veleno?).
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Jacques Derrida, Dello spirito. Una recensione di Kinglizard

Heidegger e Derrida

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Dello spirito è una sorta di monografia tematica che analizza e ricostruisce l’evoluzione dell’uso di un concetto, quello di spirito appunto, nella grandiosa opera di Martin Heidegger. Eppure, contemporaneamente, Dello spirito è anche un’opera di Jacques Derrida, un’opera cioè in cui sono evidenti sia l’impronta stilistica, mai priva essa stessa di significati suoi propri, del filosofo francese, sia il suo particolare modo di procedere nell’esposizione dei concetti. Se quindi da un lato si ha a che fare con una ricostruzione, non solo filosofica e concettuale ma anche filologica, che vuole essere il più vicina possibile all’esattezza storica, dall’altro lato, leggendo il testo, ci si imbatte in scelte peculiari nel modo di affrontare il tema centrale, scelte che, come accade spesso nei testi derridiani, sembrano non abbordare mai direttamente l’oggetto di cui si vuole parlare e che, quasi accostandosi ad esso obliquamente, seguendo sentieri secondari, apparentemente marginali, non ancora battuti, ne fanno emergere quel surplus di senso che soltanto i grandi interpreti sanno produrre.

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