Freud, Psicopatologia della vita quotidiana. Una recensione di G. Ottaviani

Sigmund Freud fotografato con la madre

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Perché un testo ha successo? Spesso perché il lettore si riconosce in quello che viene raccontato, identifica situazioni, si immedesima nei personaggi, come se i sentimenti descritti fossero davvero i suoi, come se anche a lui realmente fosse capitato di provarli. Una storia diventa di successo quando a ognuno dei tanti che la leggono sembra la propria, la sua storia, o almeno una delle varie storie che gli sono occorse da quando ha memoria. La lettura di “Psicopatologia della vita quotidiana”, anche grazie alla vivace scrittura del padre della psicoanalisi (oramai questo è l’epiteto per eccellenza di Freud, come “piè veloce” per Achille), è una rara soddisfazione, perché svela un livello più intimo di comprensione di avvenimenti che a tutti – anche a Freud – sono capitati, di cui tutti  percepiamo, più o meno, l’importanza, non capendo bene però il perché. Come ha scritto l’autorevolissimo Umberto Galimberti, “ci racconta che la nostra vita non ha solo il senso che noi le riconosciamo con la nostra ragione. Ci racconta che il nostro io non è padrone in casa propria, che la casa di psiche ha molti abitanti, spesso tra loro litigiosi. Ci racconta che nelle cantine della nostra anima si agitano demoni e dèi, di cui abbiamo dimenticato il nome da quando […] abbiamo chiamato il potere, l’amore, l’aggressività, l’odio, “istanze psichiche” non sempre manifestabili nella vita sociale, ma vive e animate nel sottofondo della nostra anima, che talvolta riescono a manifestarsi a noi e agli altri suscitando, dopo un po’ di disagio, l’ilarità che sempre accompagna un’insincerità smascherata”. Addirittura Galimberti arriva poi a dire che questo è un libro “cattivo” di Freud, perché “non ci lascia nell’innocenza della distrazione, della dimenticanza, della sbadataggine, della stanchezza, dello stress, e perciò dà ragione alla donna innamorata che, anche se non sa nulla di psicoanalisi, sospetta, nella dimenticanza di un appuntamento, che l’amato forse non la ama più”.

 Come mai la mente percorre quei sentieri inaspettati? Come mai pensiamo una parola e ne diciamo un’altra? Come mai a un numero ne segue uno e non un altro, magari quello immediatamente successivo, o precedente? Come mai quella canzone, quella frase, quel nome ci restano in testa persino per giorni e non se ne vanno? Come mai, invece, certe parole, pur avendo chiarissima dentro di noi l’immagine che esse rappresentano, non ci sovvengono nel momento in cui dovremmo pronunciarle? Come mai un preciso vocabolo – o una parte di esso, una sillaba, presumibilmente in comune quindi con molti altri lemmi – ce ne fa subito pensare un altro, e poi un altro ancora, e da lì avanti fino a ritrovarci laddove non avremmo mai pensato di essere, per analogia o per contrasto di ambiti o contesti, o per commistione con esperienze e reminiscenze personali? Freud lo dice, togliendoci qualche alibi di troppo – ma non bisogna eccedere nemmeno verso una direzione esageratamente introspettiva – e analizza varie eventualità, attraverso moltissimi esempi (tanto che la definitiva versione dell’opera, quella del 1924, è la decima, assai più ampia di quella iniziale del 1901), veri, vividi, semplici, chiari ed efficaci, che fanno letteralmente “spalancare gli occhi”: la dimenticanza di nomi propri, quella di parole straniere (si può facilmente capire come le barriere linguistiche e culturali siano rilevanti), quella di nomi e di sequenze di parole, i ricordi d’infanzia e di copertura, che si palesano in apparenza improvvisi e che spesso velano realtà scomode da accettare, i lapsus verbali (“Talvolta il lapsus sostituisce una lunga descrizione di un carattere. Una giovane signora (era lei che comandava in casa) mi narra del marito sofferente che era stato dal medico per chiedere quale dieta da seguire, ma il medico aveva detto che non occorreva dieta. Dunque, lei dice: “Può mangiare e bere quel che voglio”), i lapsus di lettura e di scrittura, le dimenticanze concernenti impressioni e propositi, le sbadataggini, le azioni sintomatiche e casuali, quei gesti che ci pare di fare “meccanicamente”, gli errori e gli atti mancati combinati, fino poi ad analizzare vari punti di vista in merito al determinismo, alla credenza nel caso e alla superstizione, che talvolta condiziona in maniera anche decisa numerosi comportamenti.

Per non parlare delle chiavi, spesso al centro di piccole “disavventure” quotidiane: due pazienti di Freud ci spiegano perché questo può succedere. Il primo: “Se sono disturbato nel mezzo di qualche lavoro che mi assorbe a casa mia, perché devo recarmi all’ospedale per un lavoro di routine, facilmente mi capita di sorprendermi a voler aprire la porta del mio laboratorio con la chiave della mia scrivania a casa, pur essendo le due chiavi ben diverse. Lo sbaglio inconsciamente dice dove io preferirei essere in quel momento”. L’altro: “Alcuni anni fa lavoravo in posizione subordinata presso un certo istituto il cui portone era tenuto chiuso a chiave, cosicché era necessario suonare per essere ammessi. Varie volte mi colsi sul fatto mentre facevo seri tentativi per aprire la porta con la chiave di casa mia. Ciascuno dei membri permanenti di quell’istituto era provvisto di una chiave per evitare la seccatura di dover aspettare alla porta. Io aspiravo alla posizione di membro permanente e i miei sbagli quindi esprimevano il mio desiderio di essere trattato alla pari e di essere di casa in quel luogo”.

Un ulteriore esempio riguarda invece i nomi; Freud sostiene che: “Uno psicologo al quale si chiedesse come mai tanto spesso non venga in mente un nome che pur si è certi di conoscere, si accontenterebbe di rispondere che i nomi propri vanno soggetti a dimenticanza più facilmente di qualunque altro contenuto mnemonico. Addurrebbe motivi plausibili per tale privilegio dei nomi propri, ma non supporrebbe che esistano altre condizioni perché ciò avvenga. Per me, lo spunto a occuparmi a fondo del fenomeno della dimenticanza temporanea dei nomi è venuto dall’osservazione di certe particolarità che si possono riconoscere abbastanza chiaramente non in tutti, ma in certuni casi. In tali casi infatti non solo si ha dimenticanza, ma anche falso ricordo: cioè colui che si sforza di ricordare il nome dimenticato vede affacciarsi alla propria coscienza altri nomi, nomi sostitutivi, che subito riconosce sbagliati ma che si impongono sempre di nuovo alla mente con grande insistenza. Il processo destinato a riprodurre il nome cercato si è per così dire spostato, portando dunque a una sostituzione erronea. Ora, io presumo che questo spostamento non sia lasciato a un arbitrio psichico ma segua tracciati governati da leggi e prevedibili. In altre parole, presumo che il nome o i nomi sostitutivi stiano col nome cercato in una certa connessione, e spero, se riuscirò a dimostrarla, di poter poi far luce sul fenomeno stesso della dimenticanza dei nomi”.

Oppure: “Sto per preparare il caso clinico di una delle mie pazienti per la pubblicazione e mi trovo a dover scegliere un nome da darle nel lavoro. Il campo per la scelta appare vastissimo; […] ci sarebbe da aspettarsi, e io stesso me lo aspetto, che tutta una serie di nomi femminili mi si presenti alla mente. Invece se ne presenta uno solo, non accompagnato da nessun altro: il nome di Dora. Mi domando come sia determinato. Chi altri dunque si chiama Dora? Incredulo vorrei respingere la prima cosa che mi viene in mente, cioè che si chiama così la bambinaia di mia sorella. Ma […] mi viene subito in mente un fatterello della sera precedente, che porta la determinazione cercata. Ho visto sul tavolo della sala da pranzo di mia sorella una lettera indirizzata: “Alla signorina Rosa W”. Chiesi meravigliato chi si chiamasse così, e mi sento rispondere che la presunta Dora in verità si chiama Rosa, e al momento di prender servizio aveva dovuto rinunciare all’uso di questo suo nome perché mia sorella sentendo chiamare “Rosa” avrebbe potuto ritenersi chiamata lei stessa. […] Quando poi il giorno seguente stavo cercando un nome per una persona che non poteva conservare il proprio, non mi venne in mente altro che “Dora”. […] Questo modesto fatto ebbe un seguito inaspettato anni dopo. Una volta che ebbi a discutere in una lezione il caso clinico già da gran tempo pubblicato della ragazza ora chiamata Dora, mi rammentai che una delle due persone di sesso femminile tra i miei uditori portava lo stesso nome Dora, che tante volte avrei dovuto pronunciare nei nessi più svariati. Mi rivolsi alla giovane collega, da me conosciuta anche personalmente, scusandomi di non aver pensato affatto che anche lei si chiamava così, e dicendomi disposto a sostituire il nome con un altro da usare nella lezione. Dovevo ora scegliere rapidamente un altro nome, e riflettei che avevo solo da non cadere sul nome dell’altra uditrice, dando così un cattivo esempio ai colleghi già edotti di psicoanalisi. Fui dunque molto soddisfatto che in sostituzione del nome Dora mi venisse in mente Erna, nome di cui infatti mi servii. Dopo la lezione mi domandai donde fosse potuto venire questo nome di Erna, e non potetti trattenermi dal ridere quando mi accorsi che l’eventualità temuta si era nonostante tutto imposta nella scelta del nome sostitutivo, almeno in parte. Il cognome dell’altra uditrice era Lucerna, di cui Erna è una parte”. Luce sul mistero, dunque, ma altri enigmi all’orizzonte, e nessuna perdita di fascino. Soprattutto, anche quasi un secolo dopo la pubblicazione del libro di Freud, nessuna risposta definitiva, perché, come ora va di moda dire, “la psicanalisi non è una scienza”.

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