Il Dune di Villeneuve tra religione e nuove sacralizzazioni

Paul Atreides contempla il luogo della sua morte e resurrezione rituale

Non si può certo dire che l’immaginazione mitica sia scomparsa; è ancora con noi, avendo solo adattato il suo funzionamento al materiale ora a nostra disposizione” (Mircea Eliade)

Il fanatismo è cioè l’unica «forza della volontà» che possono conquistare anche i deboli e gli incerti, quasi una specie d’ipnosi di tutto il sistema sensitivo intellettuale a beneficio del nutrimento eccessivo (d’un’ipertrofia) d’un punto unico di visione e di sentimento; il cristiano la chiama la sua fede” (Friedrich Nietzsche)

Il secondo capitolo cinematografico della saga di Dune diretto da Denis Villeneuve e tratto dal primo libro di Frank Herbert è un lungo e maestoso saggio visivo sul modernissimo problema teologico-politico dei rapporti tra sacro e potere. E di come il vero destino dell’umanità, nel male come nel bene, sia nella vittoria del Sacro, una forza che distruggerà qualsiasi resistenza,  che si chiami Impero, Scienza o Capitale (il controllo della preziosissima Spezia). Lo spaventoso destino messianico del Sacro è creare un deserto, come il pianeta Arrakis, perché il sacro è una forza incredibilmente più pervasiva, coinvolgente e invasiva di tutte le altre che popolano il mondo umano. Ci si può alleare con esso? Lo si può controllare? (nello stile machiavellico dell’ordine religioso delle Bene Gesserit). Lo si può soggiogare ai propri fini?  Ci si possono fare cauti passi di liberazione insieme? Oppure nella sua spaventosa forza, il Sacro (e le nuove sacralizzazioni) si dimostra alla fine della storia come il vero nemico? Sono tutti temi che emergono scenograficamente nel film-colossal di Villeneuve. 

Il genere fantascientifico pullula di mondi dominati da un progresso tecnologico oltre i nostri sogni (e incubi) più sfrenati. In questi mondi, spesso, la componente religiosa viaggia in sordina rispetto a quella politica e scientifico-tecnologica. Il primissimo “Star Trek“, probabilmente la saga di fantascienza più popolare di tutti i tempi, aveva forti sfumature antireligiose che riflettevano le idee neoilluministe e laiche del creatore, Gene Rodemberry. Nei romanzi di uno dei creatori della fantascienza del Novecento, Isaac Asimov, l’elemento religioso è semmai uno stadio culturale provvisorio nell’attesa dell’evoluzione futura dell’umanità e del razionalismo. Tuttavia, parallelo a queste creazioni narrative neopositiviste,  c’è un mondo di fantascienza utopico (o distopico?) che si immerge nella spiritualità e nella religiosità e afferma il potere che queste forze hanno sulla società anche di fronte a un così vasto sviluppo scientifico: è il caso del ciclo di  “Dune” di Frank Herbert.

I Fremen, gli abitanti del pianeta desertico Arrakis, seguono una religione messianica che ruota attorno a dei misteriosi grandi vermi del deserto e alla promessa di una figura che trasformerà il deserto in acqua e libererà i Fremen dagli oppressori. Uno dei temi principali del libro è la lotta dei personaggi principali per il dominio delle spezie di Arrakis, i quali spesso si confrontano con le credenze religiose dei Fremen, viste spesso come primitive, insulse, o diffuse ad arte dal gruppo femminile sacerdotale Bene Gesserit per poter controllare meglio questa strana e rude popolazione; alla fine, sono proprio le credenze dei Fremen che permettono al personaggio principale, Paul Atredies, di trionfare e compiere il suo destino. Non ci sono in Dune tecnologie troppo distanti dal nostro mondo (come arma definitiva ci sono ancora le nostre care testate atomiche). E non esistono più robot intelligenti e IA, poiché centinaia di anni prima dell’inizio delle vicende del libro una guerra contro di loro le ha sterminate tutte. Una vera e propria rivolta futura contro la tecnologia.  

Frank Herbert, e di qui la (abbastanza) fedele trasposizione scenografica del regista Villeneuve, non sta sottolineando il trionfo della religione sulla scienza, né sta condannando esplicitamente la religione. Herbert rimane splendidamente ambiguo riguardo al prendere una decisione su questa annosa e un po’ striminzita dicotomia, come rimane grigio e nebuloso, a ben guardare, lo stesso Paul Atriedes. Eroe incerto per buona parte del film, Paul non crede a nessuna delle profezie che possono riguardarlo, esattamente come la sua compagna Fremen, Chani, quasi una cooprotagonista, che non cambierà mai idea sulla sua avversione al fanatismo religioso. E lo stesso Herbert non ci viene mai in soccorso:  non abbiamo indizi per capire se questo universo religioso in cui tutti sono immersi sia misticamente vero o falso, o se solo qualcuna di queste profezie sia vera; Herbert si assicura di farci sapere che diversi personaggi sono scettici, ma nonostante ciò, gli stessi personaggi che fanno parte di questa storia si sforzano di realizzare queste profezie. Lo stesso Paul e sua madre, l’inquietante sacerdotessa Jessica,  sono ambigui fino alle ultime scene del film. La tensione tra la verità della profezia, il suo uso come instrumentum regni e il desiderio di realizzarla è molto potente nell’opera di Frank Herbert come nel film, e spiega qualcosa di profondamente vero  sul potere della religione come forza che influenza il comportamento degli esseri umani. Il potere della religione, nel mondo di Herbert, non corre perciò il pericolo di essere sostituito da quello razionale-scientifico; i due poteri non si trovano mai davvero in campi dicotomici in lotta fra di loro. Sono più che altro strumenti, che si ibridano, trasformano e che rimangono in agguato, oggi, come ieri, come fra ventimila anni.

Dunque, il futuro di Herbert ha una profonda continuità col presente: non solo i termini religiosi e antropologici dell’universo di Herbert sono presi dall’arabo, dal persiano e dal turco dei nostri giorni (a titolo d’esempio, basti pensare solo ai termini “jihad”, molto presente nel film,  “mahdi”,  “Shai Hulud”). Di più, Herbert studia la recente ri-sacralizzazione del mondo e la applica al futuro. Rifiuta perciò  la contemporanea e nicciana “morte di Dio”, sostenendo che anche nel futuro più lontano, gli esseri umani saranno non solo religiosi, ma strapieni di Verità e narrazioni forti, di trasformazioni del Sacro. Dove poteva (e doveva) esserci il trionfo della ragione, oppure, in maniera più postmoderna, del liquido “non-senso”, assistiamo al trionfo di tribalismo, verità forti inconciliabili, universi veritativi incomunicabili. Quasi citando Nietzsche, che scriveva ne La gaia scienza: “dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna – un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno ancora forse per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi – noi dobbiamo anche vincere la sua ombra!

L’inquietante madre di Paul, Lady Jessica

Tutta la modernità aveva dato per morta le Religione ed il Sacro. La fine della storia era vista come una potente ed inesauribile onda di globalizzazione, che avrebbe portato l’uniformità di idee (si presupponevano laiche, democratico-repubblicane) assieme a quella dello stile di vita e dei consumi. Non è andata così. Le magnifiche sorti progressive occidentali sono state in buona parte sconfitte. Le religioni ed il sacro hanno rappresentato negli ultimi anni come nello scorso secolo, con i loro infiniti camuffamenti e trasformazioni, un calderone di identità emergenti, tribalismi, organizzazioni statuali e parastatali, formali e informali, armate e non, esplosive e invasive, pronte a rovesciare ogni piano neoilluminista o neoimperialista. Il dibattito sulla modernità e sui suoi rapporti con la sfera del mito e del religioso è estremamente fecondo. È importante infatti mettere in luce le maniere con le quali la modernità abbia potuto (secondo alcuni aspetti) sacralizzare quasi tutte le sfere dell’umano, dalla politica, alla scienza, alla identità. Mentre decostruiva tutta una serie di fenomeni religiosi tradizionali, ha nel contempo destoricizzato quello che era il mondo “profano”, laico, proprio quel mondo cha andava purificando dal mito e dalle religioni tradizionali, spesso edificando altre strutture metastoriche e fissiste (surrogato di quelle tradizionali), strutture come la Storia, la Natura, lo Stato, la Nazione e la Scienza. La modernità, esattamente come la religione ed il mito, si è in effetti caratterizzata come una via maestra per dare “legittimità, ordine, coerenza ai significati socialmente condivisi” (la definizione è di Giovanni Filoramo per il termine “religione”). Tutta la modernità e la post-modernità può essere inquadrata (compreso il problema attualissimo tra Islam e Occidente; ma come non pensare anche alla promessa messianica della terra per gli Ebrei? O alla radicalizzazione e comparsa di Hamas? ) anche in questa sacralizzazione dell’ethos, dell’identità etnica e nazionale, conservando idealismi metastorici anche sotto forma di politica e scienza. Per gli storici delle religioni la nuova tappa più significativa di tale processo moderno e post-moderno si è ripresentata con tutta la sua carica significativa durante la decolonizzazione, ma anche dopo il crollo del Muro e l’11 settembre. Nell’età contemporanea, come durante la modernità, i nuovi scenari ideologici, anche i più insospettabili, sono l’esito di quel tipico lavorio destrutturante, che, mentre secolarizzava le varie sfere dell’esistenza umana, creava nel contempo al loro stesso interno l’esigenza di nuovi processi di senso e di sacralizzazione.

Il totalitarismo degli Harkonnen. Nuove trasformazioni del Sacro

Ma il film di Villeneuve, pure con qualche inquietante accenno ad altre sacralizzazioni (la casata Harkonnen sembra aver costituito una spietata dittatura militare con annesso culto della personalità) presenta su Arrakis il Sacro nella sua spregiudicata e ambigua ascesa in funzione anticoloniale e antimperialista, fenomeno molto studiato negli studi post-coloniali. L’etnologo e storico delle religioni Vittorio Lanternari (nel campo di studi, omologo italiano dell’antropologo francese Georges Balandier),  scuola sull’asse fecondissimo inaugurato in Italia da Ernesto de Martino, accantonando per un attimo l’idea marxiana un po’ sempliciotta di intendere la religione solamente come un “oppio dei popoli“, ha potuto studiare i legami inscindibili fra decolonizzazioni, incontro-scontro dei popoli e creazioni religiose, fra dominio coloniale e bisogno di libertà dei popoli oppressi. Il riferimento all’Islam nella space opera di Herbert è chiarissimo. L’Islam di Herbert, in parte, è legato al ruolo del sacro come ambigua fonte messianica e liberatrice (in una scena Villeneuve gioca pure col Cristianesimo, inscenando la resurrezione del messia-Atreides come inizio del nuovo culto). Da scrittore di fantascienza Herbert capì quello che il nostro etnologo Lanternari studiò sul campo: e cioè che le religioni cambiano, ora lentamente ora rapidamente, o nascono ex novo, in risposta alle nuove sfide sociopolitiche del tempo e del luogo. E non importa che le religioni possano essere uno stadio pre-politico di lotta, resistenza, riscatto o dominio. Sono infinitamente più efficaci del politico. Fra migliaia di anni, se sopravviveremo a noi stessi, l’intero universo sarà pieno di Islam e Cristianesimi, religioni messianiche, culti, chiese e sette simili ma anche diverse da quelle del presente e del passato. 

Alessandro Stella

Perchè i colori non suonano? di Kevin O’Regan

Recensione di Stefano Comito

Kevin O’Reagan in questo libro propone la sua teoria rivoluzionaria della coscienza e della percezione visiva. La sua concezione è definita da lui stesso: teoria sensorimotoria ed appartiene all’ala deviazionistica della scienza cognitiva. Oggi, nelle scienze cognitive prevale la tesi che, secondo alcuni “dissenzienti” ed “eterodossi” è diventata un’ideologia, prevede che ogni processo cognitivo e percettivo sia possibile grazie alla capacità del cervello di elaborare l’informazione e costruire la rappresentazione tridimensionale e stabile del mondo esterno, come nel caso della visione (di cui parlerò); inoltre, sempre secondo questa ideologia, il cervello è necessario e sufficiente per spiegare l’esperienza conscia, basta semplicemente cercare i correlati neurali della coscienza fenomenica che il nostro psicologo definisce con il termine di pura sensazione.

Nella prima parte del libro O’Reagan tratta il problema della percezione visiva (cap. 1-5), mentre nella seconda parte elabora la sua teoria radicale della coscienza (cap.6-15). Secondo la psicologia cognitiva classica, il cervello elabora l’informazione che proviene dall’occhio, generando una rappresentazione tridimensionale stabile e dettagliata del mondo esterno. Questa teoria, detta anche del “riempimento”, è stata accettata a partire dal fatto che, in realtà, l’occhio è imperfetto, come dimostra il fatto che nel campo visivo in particolari condizioni di illuminazione e angolazione, si produce quella che è definita: “macchia cieca”, cioè, una particolare zona del campo visivo dove non è possibile effettivamente vedere. Altra particolare caratteristica dell’occhio è nella parte posteriore della retina dove è prodotta l’immagine del mondo esterno (la cosiddetta “immagine retinica”) già scoperta da Keplero e Cartesio. Il problema è che l’immagine è capovolta, bidimensionale e povera nei dettagli: come facciamo, allora, a percepire la realtà in maniera sorprendentemente ricca e dettagliata? La scienza cognitiva assume, ancora una volta, che il cervello corregga questa povertà di informazione grazie alla sua capacità di elaborarla e produrre una rappresentazione interna del mondo esterno. Ecco, allora, il primo problema rilevato da O’Reagan: se la mente elabora la rappresentazione del mondo, deve esserci qualcuno all’interno, un occhio della mente, che scruta questa rappresentazione o immagine pittorica. È la cosiddetta “fallacia dell’omuncolo” che nel teatro cartesiano della nostra mente osserva l’immagine del mondo esterno e ci porta sul crinale pericoloso di un regresso all’infinito (chi guarda l’immagine nella mente dell’omuncolo? e così via…). Preso atto del “disastro dell’occhio” (pag.3), O’Reagan teorizza che la visione nasca dall’interazione con il mondo esterno, meglio, dalla qualità dell’interazione con esso sulla base di una concezione sensorimotoria alla percezione visiva. L’occhio ha capacità esplorative e, molto importante, l’informazione non è elaborata dal cervello, ma direttamente estratta dal mondo da parte del sistema visivo. La visione nasce dal rapporto dinamico tra il movimento dell’animale e l’input sensoriale, quest’ultimo, si modifica a seconda dell’interazione dell’agente cognitivo con esso. Questa teoria si basa sull’approccio ecologico dello psicologo americano J.J. Gibson che nel suo L’approccio ecologico alla percezione visiva (1979), parlava in maniera diretta della capacità da parte dell’organismo di estrarre l’informazione dall’ambiente esterno in maniera dinamica, attiva ed esplorativa, in quanto viviamo in un mare di informazioni acustiche, visive, tattili, uditive, olfattive. Anche il filosofo Alva Noe in Perché non siamo il nostro cervello, assume che il cervello non riassume in sé tutta la storia relativa alla percezione e che molto da dire rimane sulla relazione dinamica tra il cervello, il corpo, l’ambiente: non siamo “cervelli in una vasca” come sosteneva, invece, il filosofo Hilary Putnam e come è raccontato nel celebre film di fantascienza, The Matrix. Niente paura, il mondo non è un’illusione prodotta dall’attività del cervello, ma è la nostra casa.

O’Reagan durante una conferenza Talk

Dopo avere fatto propria la distinzione di Ned Block tra coscienza d’accesso e coscienza fenomenica, nella seconda parte del libro O’Reagan applica la teoria sensorimotoria alla spiegazione di quest’ultima, l’hard problem dei filosofi, che O’Reagan definisce con il termine di “pura sensazione”. La “pura sensazione è qualsiasi cosa le persone riferiscono quando parlano dei più fondamentali aspetti della loro esperienza…quello che i filosofi chiamano qualia, la qualità fondamentale dell’esperienza o “ciò che si prova in essa” (pag. 142). L’approccio dominante ritiene che si debbano cercare i correlati neurali della coscienza fenomenica. Invece, per O’Reagan, non è possibile trovare i neurotrasmettitori fondamentali dell’esperienza perché è incommensurabile il divario tra i meccanismi cerebrali e le pure sensazioni; anche postulare i sensatomi (atomi di sensazione), cioè, i mattoni fondamentali della coscienza fenomenica (il corrispettivo della massa, del peso e della gravità nelle scienze fisiche) renderebbe necessario spiegare perché proprio quei meccanismi neurali generano quel particolare tipo di fenomenicità e non un altro: “Ci sono centinaia di articoli nella letteratura sulla coscienza che propongono meccanismi altisonanti come “la riverberazione cortico-talamica”, le “oscillazioni sincroniche” diffuse, “i fenomeni di gravità quantistica nei microtubuli neurali…ognuno di quei meccanismi, non importa quanto altisonante sia, lascerà sempre aperta un’altra questione: perché il meccanismo produce questa sensazione piuttosto che un’altra?” (pag.150). O’Reagan teorizza che anche la coscienza fenomenica nasca sulla base della qualità della nostra interazione con il mondo esterno, cioè, delle differenti cose che facciamo quando entriamo in relazione con l’ambiente sulla base di astratte leggi sensorimotorie; di conseguenza la fenomenicità non è generata dal nostro cervello, anche se questo è necessario per interagire in maniera efficiente con il mondo. Per O’Reagan i qualia non sono ineffabili e non sono più un mistero, anzi, c’è un senso per cui non esistono nemmeno (come sostiene Dennett), ma dobbiamo in qualche modo rendere giustizia del sentire comune che teorizza l’esistenza dell’esperienza della pura sensazione e il nostro psicologo lo fa all’interno di una cornice che in futuro potrà essere scientifica.

L’approccio sensorimotorio alla coscienza e alla percezione si colloca all’interno del contesto più generale della teoria della scienza cognitiva incorporata (embodied), situata (embedded) che si concludono con la riscoperta del corpo e dell’ambiente. Queste posizioni ritengono si debba dare una svolta decisiva alle scienze cognitive, perché il cervello non è il luogo giusto dove collocare l’esperienza conscia e si spingono più in là teorizzando l’estensione delle nostre facoltà cognitive al di là della frontiera costituita dalla nostra pelle, il loro potenziamento e la diffusione nell’ambiente esterno, anche a scapito dell’immagine tradizionale dell’essere umano.

Il resto di niente. La storia di Eleonora Pimentel Fonseca

Più elevato il sogno,  più fiera la sofferenza

E’ quanto afferma nel romanzo Il resto di Niente Cirillo, uno tra gli eroi della repubblica napoletana, instaurata nel gennaio 1799 sulla scia della campagna napoleonica in Italia, rivolgendosi ad Eleonora Pimentel Fonseca, tra le principali  protagoniste di quella fase storica, la realizzazione di un sogno di libertà che ebbe vita breve e portò via la vita di molti patrioti.

Eleonora Pimentel Fonseca, intellettuale e scrittrice, fu una rivoluzionaria e fu impiccata nell’agosto del 1799, quando a Napoli si instaurarono nuovamente i Borboni e i repubblicani furono condannati a morte. Tra gli ultimi pensieri, prima di essere impiccata: “Servirà un giorno ricordare tutto questo?”.

Eleonora, però, non era nata a Napoli ma era portoghese. Arrivata a Napoli bambina con la sua famiglia, decise di appartenere a quella città, a Castel Sant’Elmo, a Toledo e ai vicoli straripanti di gente, al mare scintillante e al Vesuvio tanto bello quanto indifferente. Alla grandezza e alla povertà di quella capitale del Regno dei Borboni, già alla fine del Settecento centro di una struggente bellezza.

Lo scrittore Enzo Striano (1927-1987) tratteggia Eleonora Pimentel Fonseca in modo delicato e mai retorico, tra storia e letteratura. Enzo Striano accompagna la piccola Lènor nel suo arrivo a Napoli durante la feste della Piedigrotta: «Fu terrorizzata. Non aveva mai visto tanto e così vario clamore, né visto simile folle. La carrozza faticava a muoversi […] Un urlìo continuo, ritmato incessantemente dallo scuotere secco di mille tamburelli a sonaglia, dal soffiare di mille fischietti, dal frenetico strofinio di mille pentole […] Vide un uomo con sudicio berretto bianco e grembiule di cuoio che bolliva maccheroni su un fornello quasi in mezzo alla via. Rimase incantata per la velocità con la quale colui toglieva dal fuoco uno dei pentoloni che vi fumavano, ne rovesciava l’acqua, appiccicosa, biancastra, senza far cadere neppure un filo della pasta, che poi serviva, con rapidità impressionante, nei piatti di stagno degli avventori che allungavano il braccio nella ressa».

Fin da bambina Lènor mostra una propensione e un interesse per gli studi umanistici e scientifici; arrivata all’adolescenza inizia a comporre poesie che legge nei salotti dell’aristocrazia di Napoli e a Corte, al cospetto dei sovrani Ferdinando IV e Maria Carolina.

Enzo Striano, attraverso la descrizione della vita di Lènor negli ambienti vicini alla Corte, elabora un affresco della Napoli di fine Settecento dove avevano iniziato a diffondersi largamente idee e principi di matrice illuminista.

Eleonora Pimentel Fonseca studia Genovesi, Filangeri e segue le notizie che provengono dal resto del mondo: la rivoluzione americana e la pubblicazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, gli avvenimenti in Francia dove il nuovo re Luigi XVI stava per essere travolto (e ghigliottinato) dalla Rivoluzione del 1789.

Lènor si allontana sempre più dalla Corte: fiorisce in lei una visione del mondo che si oppone ad un potere che sfrutta l’ignoranza e la debolezza della maggioranza del popolo e abbraccia un progetto che avrebbe dovuto coinvolgere gli intellettuali illuminati nella missione di liberare il popolo. Ma Eleonora si accorge che non è così semplice e che spesso è proprio quel popolo da liberare che si trasforma nel nemico più violento.

Nelle pagine del romanzo, la Grande Storia si intreccia alla vicenda privata di Lènor che, rimasta senza la mamma e in condizioni economiche precarie, decide di sposarsi con un esponente della piccola nobiltà napoletana. Fu un’esperienza agghiacciante per la sensibile e colta protagonista, segnata dalla violenza domestica e drammaticamente dalla perdita del piccolo figlioletto. Lènor, con il sostegno del padre, divorzia e si dedica a quello che viene descritto nel libro “fare come gli uomini: partorire con il cervello”.

 Enzo Striano tratteggia mirabilmente il personaggio di questa giovane donna: attraverso i suoi flussi di coscienza possiamo affacciarci nella sua anima per leggerne i turbamenti, i dubbi, le riflessioni.

 I lazzari, il popolo basso, sono il personaggio corale al centro del romanzo: «Anche quelli sono popolo, Lènor. Non ci capiscono perché vivono nell’arretratezza, nella sporcizia. Ci odiano. Hanno paura anche di noi. Ma noi dobbiamo lavorare anche per loro: noi abbiamo avuto tutto, loro niente».

Proclamata la Repubblica, Eleonora Fonseca dirige il giornale “Il Monitore Napoletano”, organo di stampa ufficiale del nuovo Governo. Scrive articoli educativi con la missione di formare il popolo: per lei la cultura è missione civile perché solo l’istruzione può liberare ed elevare i lazzari.

 Il suo entusiasmo però si contrappone ad un senso del Fato inevitabile che viene espresso dal personaggio di Pulcinella: «Pulcinella non è un tipo allegro. Sa le cose nascoste.  Ca la Repubblica adda fernì, come finisce tutto, ca ll’uommene se credono de fa chesto, de fa’ chello, de cagnà lo munno, ma non è vero niente. Le cose cambiano faccia, non sostanza: vanno sempre come hanno da ì. Comme vò lo Padrone. Lo munno non po’ girà a la mano smerza. Lo sole spunta tutte li mmattine e poì scenne la notte, la vita è ‘na jurnata che passa: viene la morte e nisciuno la po’ ferma’. Perché è de mano de lo Padrone: di Dio. Pulcinella queste cose le ha sapute sempre, come volete che si metta a fare il giacobino? Lo po’ pure fa’, ma solo per far ridere, per soldi. Isso non ce crede».

I lazzari vogliono essere lasciati in pace: «Sempre il vecchio problema: s’ha diritto di far felici gli altri imponendogli quella che riteniamo sia felicità? Felicità comporta sacrifici, s’ha diritto ad imporli a chi pensa non valga la pena di farli? Mettetevi le scarpe, imparate il gergo repubblicano, fatevi ammazzare per cacciare i Borboni, i Ruffo, i preti, l’ignoranza (e così regalate alla Gran Repubblica Madre i palazzi del re, Capodimonte, Ercolano), studiate, diventate colti. Leggete Genovesi, Filngieri, distruggete Pulcinella, san Gennaro, vicoli, bassi, la vostra vita randagia».

 Sullo sfondo la Gran Repubblica Madre, la Francia, che dopo aver rapinato risorse dalla Repubblica Napoletana, abbandona i patrioti al loro tragico destino.

 Eleonora Fonseca nel suo ultimo giorno di vita chiese in prigione una tazza di caffè. Probabilmente il suo ultimo pensiero davanti al boia è stata la soddisfazione di aver compiuto il suo dovere.

 Il nostro dovere, oggi, è ricordarla e farla vivere nella nostra storia.

E ricordare il romanzo di Enzo Striano, Il resto di niente.

 Come si dice a Napoli, o resto è niente.

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(articolo di Eleonora Corgiolu)

Come uscire dalla caverna. La filosofia di Westworld

 

Sotto l’onnipresente musica del Debussy di “Reverie”, che contribuisce a creare un paesaggio onirico in cui si ridefinisce il concetto stesso di realtà, gli sceneggiatori/divinità Jonathan Nolan e Lisa Joy costruiscono un palcoscenico teatrale in cui uomini e macchine si scambiano i propri copioni/programmazioni, ed in cui si riedificano, come da buona tradizione della letteratura classica e fantascientifica, l’identità, il concetto di soglia, quello di autocoscienza e di libertà. Westworld è uno dei più meravigliosi prodotti di letteratura cinematografica degli ultimi anni,  travalicando l’etichetta di “fantascienza” per approdare ad un racconto esistenziale sui confini dell’umano: e come ben si sa, vivere ai confini significa rendersi conto dei vari “interregni” tra una zona e l’altra. Per guardarsi finalmente con occhi diversi.   (ATTENZIONE, SEGUE SPOILER)
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Interstellar, le lontane stelle contro il nulla della realtà. La filosofia di Nolan

Tre parole per  cominciare

Un film epico e visivamente straordinario, di ampio respiro, con affascinanti temi esistenziali, fisico/scientifici e filosofici, che di rado si vedono al cinema, e che solo per questo andrebbe premiato. Inoltre, tantissime citazioni cinematografiche e letterarie. Insomma,  un tipico azzardo alla Nolan. Con alcuni difetti, alcuni dei quali  lo rendono, a tratti, irritante e deludente. Tutto sommato: buono.  Nolan inscena un’epopea dell’eroe (o meglio, gli eroi: padre e figlia), con temi sulla falsariga dello straordinario e meglio riuscito “Inception“, dove affrontava i mondi e gli universi contenuti nella nostra psiche e nella nostra immaginazione, il tempo e lo scorrere della vita in ognuno di essi, il tempo della “realtà” (“ma ce n’è una sola?” direbbe il Nolan-Philip Dick) ed il tempo della psiche e dei suoi mondi sommersi. In questo film, similmente, Nolan esplora i mondi interstellari e relativistici, con simili paradossi temporali e spaziali, simili domande: c’è solo una realtà? Un solo tempo? Devo accontentarmi di essa? A queste domande e tematiche, come vedremo, rispetto a “Inception” ne aggiunge altre, molto più classiche, prevalentemente etiche ed esistenziali. Molta carne al fuoco davvero, ma non preoccupatevi, ci siamo noi.
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Il Robocop di Dennett

…when the machine fights the system releases signals into Alex’s brain… making him think he’s doing what our computers are actually doing. I mean, Alex believes right now he is in control. But, he’s not. It’s illusion of free will….” (il dottor Norton Dennett)

Il remake di Robocop è un autentico condensato di filosofia della mente e scienze  cognitive, oltre che un’inquietante riflessione sull’indistinzione postumana fra macchina e mondo biologico. Il dottore che trasforma il poliziotto Alex Murphy in un ibrido biomeccanico si chiama Dennett Norton, un chiaro riferimento al filosofo americano Deniel Dennett. In un passaggio inequivocabile del film, mentre tecnici e medici testano le capacità dell’ibrido in modalità “offensiva”, si fa riferimento proprio alla teoria della coscienza di Dennett: Murphy crede di essere a capo del suo corpo biomeccanico, mentre ne è solo il passeggero. Un concetto che il neurochirurgo e saggista Arnaldo Benini riassume così: “innumerevoli studi di neuropsicologia, di neuroimaging e di neurologia tendono a dimostrare che la coscienza di ogni decisione è preceduta da un aumento d’attività nelle aree specifiche della corteccia celebrale. La coscienza è informata – con l’illusione di esserne artefice – quando l’evento è già in atto, a volte con un ritardo di 10 secondi.  […] Non è una scelta, è un meccanismo spontaneo del cervello che anticipa la coscienza. Il sistema nervoso non agisce a comando, ma spontaneamente

Inoltre: la teoria di Antonio Damasio riquardo l’indispensabilità alla vita umana dei bias cognitivi (Alex Murphy nel prendere decisioni “aperte” e nel percepire emozioni rallenta le sue prestazioni rispetto alle altre macchine non ibride. Per funzionare in maniera efficiente ed efficace come le altre macchine, l’essere umano deve essere diminuito) è il sottofondo dell’intero film. In ultima analisi, i bias e le collegate emozioni sono l’umanità che ancora rimane nell’ibrido, senza i quali l’indistinzione uomo-macchina sarebbe totale. In questo nulla di assolutamente nuovo, ma il tutto è raccontato in maniera visivamente incisiva.


Thomas Kuhn e la struttura della scienza

 a cura di Manuel Cappello

In questo articolo vengono prese in considerazione le idee più importanti del libro di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche,
The Structure of Scientific Revolutions (1), fra cui in particolare il concetto di paradigma nella sua componente tacita, automatica, preliminare alla razionalità discorsiva. Viene esplicitato il legame fra la natura del paradigma e la questione dell’incommensurabilità fra le diverse visioni scientifiche, e viene evidenziato il ruolo della comunità scientifica come strumento per fare fronte a tale problema. L’opera in oggetto è presentata come un contributo positivo all’impresa scientifica e non come l’affermazione di un relativismo di origine sociale.

I.      PENDOLI O PIETRE DONDOLANTI? GLI ESEMPI DI KUHN
II.    
IL PARADIGMA: FUNZIONE ED ESSENZA
III.   
IL FUNZIONAMENTO DEL PRESUPPOSTO
IV.   
INTERNALISMO
V.    
LA SCIENZA NORMALE: L’ATTIVITÀ GUIDATA DAL PARADIGMA STABILE
VI.   
INSEGUENDO I ROMPICAPO
VII.  
IL RUOLO DELLA CRISI
VIII. 
LA DEFINIZIONE DI UN VOCABOLARIO?
IX.   
INCOMMENSURABILITÀ E IRRAZIONALITÀ NELLA TRANSIZIONE FRA PARADIGMI
X.    
INTIMITÀ DEL PARADIGMA
XI.   
SMETTERE DI SAPERE
XII.  
UN VERSO NELLA PSICHE
XIII. 
ALCUNE CONCLUSIONI: LA RAZIONALITÀ RITROVATA
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Jacques Derrida, “Donare il tempo. La moneta falsa”

a cura di Elisa Scirocchi

 

There’s a PRESENT for you darling!

Se pensate di leggere Derrida una domenica in spiaggia sotto il fresco di un ombrellone, o in mezzo al caos di un tram all’ora di punta vi sbagliate (oppure sapete di avere delle ottime capacità di concentrazione). Non vi spaventate, non è richiesta alcuna speciale abilità, si tratta solo di LEGGERE, di regalarsi del tempo per farlo. Take your time.

Nel 1991 Jacques Derrida dà alle stampe questo affascinante testo dal titolo “Donare il tempo. La moneta falsa”. La sua è una scrittura volutamente complessa. Una scrittura talvolta impertinente. Decostruire, infrangere, lasciare spazio al nuovo, questi sono i termini sui quali dovremmo soffermarci. Decostruzione di parole come eliminazione consapevole di points of view privilegiati da cui guardare il mondo. Dunque, prepariamoci a ritornare indietro sulla stessa pagina, mettiamo in conto di rileggere più volte la stessa frase, e accantoniamo l’idea, ormai superata, di trovare un senso unico alle cose, alle parole, ai gesti, all’umano. Questa è l’essenza intima del lavoro di Derrida, e della sua filosofia, che egli stesso rappresentata proprio come una cartolina spedita, ma mai recapitata.
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Bertolt Brecht, Vita di Galileo. A cura di Elisa Scirocchi

 “Himmel abgeschafft!”  (Abolito il cielo!)

“[…] Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza […] ”.

Bertolt Brecht non ha certo bisogno di presentazioni. Eppure, se mai qualcuno fosse rimasto indietro, non potremmo che dirgli che egli è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo e regista teatrale. L’originalità dell’approccio con cui ha affrontato temi di carattere prevalentemente sociale, ci porta a considerarlo in modo indiscusso come uno degli autori più innovativi della drammaturgia contemporanea. Protagonista di una critica feroce nei confronti della realtà moderna nei suoi aspetti storici, Bertolt ha analizzato l’umano nelle sue debolezze, e in tutte le sue zone d’ombra. Brecht iniziò a interessarsi alla figura di Galilei in occasione del tre-centenario del processo, subito dal genio pisano, ad opera della Santa Inquisizione, ergo nell’anno 1933. Da quell’anno ha inizio la scrittura travagliata, sofferta, e ragionata di quest’opera: “Vita di Galileo”. La storia di questo testo segue, e accompagna le vicende personali dell’autore, e il contesto storico in cui esso viene scritto. Dopo diverse modifiche, traduzioni, e riedizioni giungiamo alla più celebre versione, ovvero l’edizione berlinese del 1955/56 (Quella che ho letto io, e che vi consiglio vivamente di leggere se non lo avete ancora fatto).Questo dramma è il canto dell’anti-eroe per eccellenza. L’autore non si pone come scopo quello di raccontare la vita del grande Galilei, ma, come si percepisce facilmente anche dal titolo, si prefigge di raccontare la vita di un uomo, dell’uomo Galileo, scienziato non troppo impavido, che ha paura di rivelare ciò che vede dall’altra parte del suo cannocchiale. Brecht ci offre un Galileo umano, preso dalle mille preoccupazioni del quotidiano, intento a gestire lezioni, guadagni, osservazioni astronomiche e calcoli matematici.
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Dennett, Sweet dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza

Recensione a cura di Stefano Comito

Sweet dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza
è un saggio di Daniel Dennett, più precisamente è una collezione di articoli pubblicati dal filosofo americano, in cui espone le sue convinzioni su uno dei problemi più attuali all’interno della filosofia e della neuroscienza, ossia lo studio della coscienza. Con questo saggio Dennett ha vinto nel 2005 il premio per le pubblicazioni nell’ambito delle scienze cognitive.

Nella prima parte del libro (cap1-4), Dennett disegna la svolta naturalistica nell’indagine sullo studio della coscienza; soprattutto nel primo capitolo, denuncia come buona parte della tradizione filosofica si comprometta aderendo a una metafisica vecchia di duecentocinquant’anni.

In seguito traccia il compito della scienza, ossia quello di indagare la coscienza tramite il metodo dell’eterofenomenologia, che consente di esaminare la coscienza da dati oggettivi. Di conseguenza, è negata la priorità di qualsiasi approccio in prima persona allo studio della mente umana; non c’è nulla che il metodo in prima persona possa dirci sulla coscienza e sugli altri fenomeni mentali che la scienza non possa scoprire. Dopo nega che esista uno spettacolo della coscienza che non possa essere spiegato da meccanismi cerebrali come fatto, all’inizio del secolo scorso, con il fenomeno del déjà-vu. Per ultimo, confuta la tesi dell’esistenza dei qualia, affrontando l’esperimento del change blindness: “i qualia sono la conseguenza di una teoria obsoleta, qualcosa che dovremmo tenere lontano dalla nostra esplorazione della coscienza”. 

Nella parte centrale del libro (cap. 5), Dennett gira le manopole di quella pompa d’intuizione che è l’esperimento mentale di Mary, tanto caro ai dualisti. Per il filosofo americano non c’è niente che si possa sapere oltre alla descrizione di una teoria naturalista. Al termine, il filosofo americano (cap. 6-7) svela la sua teoria della coscienza riconducendola al modello della “fama” o “celebrità celebrale”, evoluzione della teoria delle Molteplici Versioni, cioè un’alternativa alla teoria tradizionale del Teatro Cartesiano secondo cui tutte le nostre esperienze coscienti si riuniscono in un luogo del cervello per essere esaminate dal soggetto. Dennett si contrappone a chi sostiene che la coscienza sia qualcosa di mistico, come predicano i teologi o un’entità misteriosa come asseriscono i filosofi dualisti, da Nagel a McGinn. Questi ultimi pensano che la coscienza sfugga alle concezioni della scienza, la quale studia la realtà in maniera oggettiva e impersonale, e quindi difendono la tesi che la coscienza sia accessibile solo dal soggetto che fa esperienza dei propri stati mentali in prima persona. Per Dennett non è così, infatti, tutte le attività della nostra mente possono essere riprodotte da un’intelligenza meccanica, un computer, un robot; non c’è differenza tra l’elaborazione d’informazione di una macchina intelligente e l’elaborazione della mente umana. I computer sono artefatti che si avvicinano all’uomo: “ i computer riescono a controllare processi in grado di eseguire compiti che richiedono inferenza, memoria, giudizio, anticipazione; sono generatori di nuove conoscenze, scopritori di strutture, in poesia, in astronomia […] che in precedenza solo gli esseri umani potevano sperare di individuare. La semplice esistenza dei computer ha offerto una prova d’innegabile forza: vi sono meccanismi […] che possiedono molte delle competenze assegnate solo alle menti”.  

La teoria che uscirà vincitrice dallo studio sulla coscienza è il funzionalismo, il quale ha già ottenuto successi in altri settori della ricerca scientifica. Così come per calcolare la legge di gravità non è importante conoscere la composizione chimica dei pianeti, per studiare la percezione non è importante sapere il colore degli occhi, allo stesso modo per studiare la mente non è importante il sostrato fisico, l’hardware che implementa il software. Il sostrato materiale può essere composto di transistor, fili elettrici, chip in silicio, ciò che più conta è la computazione indipendentemente dalla materia cerebrale. Così Dennett sostiene un funzionalismo minimalista: “Il funzionalismo è l’idea che il bello è bello in quanto fa bene quello che deve fare […] poiché la scienza è alla ricerca continua di semplificazioni […] il funzionalismo ha un’inclinazione verso il minimalismo, ovvero, che le cose che contano siano meno di quanto si sarebbe potuto pensare”.

Quelli che insistono sul fatto che la coscienza è, in ultima analisi, misteriosa, sono abituati a rimanere sconcertati di fronte all’inesplicabilità degli effetti a noi noti come fenomenologia della coscienza. Il senso comune assegna alla coscienza un velo di mistero e di magia, ma la filosofia di Dennett squarcia il velo; per vedere cos’è realmente lo spettacolo del vivere cosciente, bisogna andare nel retroscena e svelare che quello che sembra uno spettacolo di magia è, appunto, un’illusione come ogni gioco di prestigio che si rispetti. Una volta che saremo in grado di comprendere e riconoscere i modi non misteriosi con cui il cervello lavora, potremo immaginare di costruire una teoria della coscienza senza postulare entità ineffabili. La domanda difficile, l’hard problem, come l’ha definito Chalmers, cioè: “Che cos’è la coscienza?” non ha senso di essere posta, perché non esiste nel nostro cervello un Teatro Cartesiano in cui sono rappresentate tutte le nostre esperienze coscienti, un Sé, un Io, un Re che decide che cosa debba diventare cosciente e cosa invece non ha il diritto di esserlo; al contrario, il cervello è composto di eventi veicolo di contenuto che in maniera anarchica si arrogano il diritto di essere “cerebralmente popolari”, che acquisiscono una certa “fama”. Se la coscienza è l’imperatore e ciò che la costituisce è la sua veste, allora, come dice Voorhees: “ Per Dennett non è l’imperatore senza vestiti, sono i vestiti, piuttosto, che sono senza imperatore”.

Il dialogo finale immaginario tra Psi (psicologia) e Fil (filosofia) ci porta direttamente nella terra dei misteri, la patria dei qualia. I qualia sono le nostre sensazioni soggettive, le nostre esperienze fenomeniche, quello che sperimentiamo in prima persona. I qualia, sostiene Sellars, sono ciò che “rende la nostra vita degna di essere vissuta”. Ad esempio, se ricerco la gioia, lo faccio per quell’intrinseca sensazione soggettiva che mi reca il suo raggiungimento, una sensazione privata e incomunicabile a parole. Ma non esistono i qualia, essi sono il dolce sogno dei filosofi che pensano ancora che esistano proprietà sganciate dalle attività del cervello, che sfuggono alle sue cause ed effetti. In realtà esistono solo proprietà funzionali e relazionali, che possono essere progettate nei sistemi di elaborazione dell’informazione. Per Dennett l’inesistenza dei qualia è un punto non negoziabile all’interno di qualsiasi teoria della coscienza, alla stessa stregua dell’elan vital e della teoria del vitalismo nel momento in cui la scienza ha scoperto, che non solo ne poteva fare a meno ma anche che non esisteva.

Siamo arrivati a un bivio nella ricerca sulla coscienza? Da una parte la coscienza ineffabile e misteriosa e dall’altra la deriva eliminativista ma illuministica di Dennett? Per Dennett una buona teoria della coscienza non tiene conto del Sé, della Volontà Cosciente, dei qualia, e in ultima analisi, della nostra profonda convinzione di essere coscienti. Alla scienza che verrà l’ardua risposta, forse oggi è troppo tardi per la filosofia, aggrappata ancora ai suoi dolci sogni, ma ancora troppo presto per la psicologia.

Stefano Comito

Amos Oz, Contro il fanatismo. A cura di Elisa Scirocchi

Mentre il gelato si scioglie

Siamo nel Gennaio 2002. Immaginiamo di essere studenti dell’Università di Tubinga e di avere l’onore di ascoltare le tre lezioni che Amoz Oz è stato invitato a tenere per noi.

Quest’oggi sono qui per parlarvi della mia attività. Operazione incestuosa da parte di un autore, questo disquisire del proprio scrivere. […] Vi racconterò alcune storie su come sono diventato scrittore, su come scrivo e come cancello, e vi esporrò alcune delle mie frustrazioni e altrettanti momenti di gioia.”

Nonostante gli sforzi d’immaginazione, io non ero lì tra gli studenti di Tubinga, non ho potuto godere di quelle lezioni, ma solo della loro raccolta nel testo “Contro il fanatismo”, pubblicato due anni dopo quell’incontro in Germania. In questo libello (che definisco così solo per la brevità che lo caratterizza) lo scrittore Amos Oz ci regala un’analisi ironica, e apparentemente naïf , di una realtà, invece, tanto controversa e sofferente. Lo stile asciutto della narrazione, nasconde in modo straordinario dentro di sé tutte le lacrime che sgorgano da quella terra oramai da millenni.
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Bataille, Il problema dello Stato e altri scritti politici. Una recensione

 di Elia Verzegnassi

Gli anni turbolenti tra lo scoppio della Grande Guerra e la fine del secondo conflitto mondiale non frenarono le ricerche di George Bataille sul rapporto tra potere e sacro né, d’altra parte, queste riuscirono a trascinarlo lontano dagli rivolgimenti politici e sociali. I numerosi articoli e frammenti raccolti in Georges Bataille, Il problema dello Stato e altri scritti politici (Casa di Marrani, Brescia 2013), datati anni ’30 del Novecento, rispondono a questioni e angosce pressanti, talmente urgenti da non poter essere respinte e accantonate, e così profonde da rimanere tutt’ora attuali. La guerra, nella sua dimensione totale, invase «lo spazio della società civile»1, mutandone profondamente ogni aspetto. Scandagliare gli anni tra il 1914 e il 1945 servendosi della nozione di guerra civile permette di scorgere, al di sotto del conflitto che contrappose gli Stati – pensati nella loro compattezza, come dense masse che convergono nell’urto –, i diversi conflitti che sconvolsero internamente le singole nazioni. Se per Bataille lo Stato è innanzitutto un dispositivo di coesione e aggregazione, capace di ordinare e riassorbire la lotta intestina che agita ogni intero, esso è anche, necessariamente, il limite di ogni spinta rivoluzionaria. La lotta di classe, concepita come vortice disgregante che frammenta la società omogenea borghese e rompe l’equilibrio agonistico proprio dei regimi liberali, non potrà che evidenziare il problema costituito dallo Stato in quanto tale. C’è, infatti, una conclusione ricorrente ogniqualvolta le tensioni si fanno troppo acute ed evadono i confini prestabiliti: è il ritorno dell’unità, dello Stato, come testimoniarono all’epoca tanto lo stalinismo, quanto il fascismo in Italia e Germania. La preoccupazione è viva in Bataille: «Il termine delle lacerazioni provocate dal capitalismo e dalla lotta di classe, il termine del movimento operaio, non sarà, semplicemente, questa società fascista – radicalmente irrazionale, religiosa – in cui l’uomo non vive che per e non pensa che mediante il Duce?»2.
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