John Stuart Mill, Saggio sulla libertà. Una recensione di Gabriele Ottaviani

John Stuart Mill

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John Stuart Mill, nato nel 1806, il venti di maggio, a Pentonville, un distretto di Londra (laddove nel 1902 risiederanno anche Lenin e la moglie) e morto ad Avignone sessantasette anni dopo è senza dubbio una delle voci più interessanti, chiare e autorevoli della filosofia e dell’economia del Diciannovesimo secolo, il secolo che precedette quello “breve” per eccellenza; un pensatore di levatura francamente straordinaria, che ha influenzato molte delle opinioni che sono venute a palesarsi e a formarsi negli anni, nei decenni e nei secoli successivi, portando parecchi intellettuali a schierarsi più o meno apertamente in due contrapposte fazioni, tra chi condivide, sia pur mutatis mutandis, le sue tesi, e chi invece le contesta, benché possa non di rado in effetti trovare, nell’approfondita analisi della speculazione di Mill, punti di contatto con le proprie personali convinzioni.

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La funzione Democratica della Cultura nella Società di Massa

Per Democrazia si potrebbe intendere non tanto il potere (κράτος) del démos (δῆμος) in senso stretto, quanto la possibilità (e la capacità) di un gruppo sociale di “fabbricare” il soggetto/oggetto del proprio Governo. Se provassimo a leggere ogni esperienza “democratica” alla luce di questo nesso (dall’Atene periclea alle Democrazie liberali moderne, passando per i Regimi “totalitari” del Novecento), non è escluso che si potrebbe commentare in maniera diversa la Storia politica dell’Occidente. Si vedrebbe, forse, come il nesso principale del Governo “democratico” non stia solo nella conquista del Potere, ma si potrebbe trovare nella ricerca del consenso di massa. Dove c’è consenso, più o meno diffuso, c’è realmente Democrazia. Solo il leninismo si pose il problema della gestione del Potere con l’esperienza dei Soviet (tradotti in Italia con i “Consigli di Fabbrica” durante il biennio rosso). Anche questo tentativo, però, presto fu ricondotto ai “normali” processi democratici del consenso sviluppatesi in seno alla fondazione dello Stato stalinista (l’Economia di Guerra era funzionale a costruire un consenso politico). Con questo si potrebbe dire, più o meno provocatoriamente, che anche il Fascismo ebbe una propria caratteristica democratica perché, indubitabilmente, poteva contare su un consenso diffuso, derivato principalmente dalle criticità esplosive dello Stato liberale che non riusciva più a dare risposte effettive ad un disagio sociale sempre più ampio. Insomma, la Democrazia non sarebbe tanto il “potere al popolo”, come spesso si dice, quanto il “potere del popolo”. Per “potere del popolo” non s’intende la possibilità di guida “diretta” delle Istituzioni ma la capacità di legittimarne il Governo attraverso il consenso. La capacità di un gruppo, quindi, starebbe nel creare le condizioni politiche, sociali, culturali ed economiche per ottenere consenso e legittimazione.

La Cultura è una delle “camere oscure” in cui si condensa il soggetto/oggetto del Governo perché svolge, nella Società di massa, una funzione direttamente riconducibile alla creazione del consenso. Essa, in particolare, eserciterebbe quest’ufficio non solo in senso propagandistico, bensì ponendo le condizioni per l’unificazione “culturale” del δῆμος su cui esercitare il κράτος. Per porre in evidenza l’importanza “democratica” del consenso, ai fini del raggiungimento del Potere, si è scelto di riprendere la querelle tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, all’alba della Repubblica italiana, sul rapporto tra Politica e Cultura.

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