Frans de Waal, Primati e Filosofi: evoluzione e moralità

 

uno dei libri più venduti dell’autore

Chi è Frans de Waal? Qui il suo canale facebook, continuamente aggiornato sulle sue osservazioni  in “pillole”, naturalmente secondo quello strano linguaggio rapido, visivo e immediato che veicola la rete. In due parole, de Waal è un eminente primatologo che ha dato un’ importante svolta a questi studi, con tutte le conseguenze del caso. Non esiste migliore introduzione dei suoi  lavori di questo video (sub. Ita), dove soprattutto i filosofi troveranno pane per i loro denti. Nella parte finale del video, de Waal afferma, riferendosi implicitamente a quella distinzione sempre viva (o ancora viva) tra “moderni” e “postmoderni”: […] questo studio divenne molto famoso, ricevemmo molti commenti, soprattutto da antropologi, economisti e filosofi. I filosofi non lo apprezzarono per niente. Perché credo si fossero convinti che l’imparzialità fosse un argomento complesso e che gli animali non potessero concepirla. Un filosofo arrivò a scriverci che era impossibile che le scimmie avessero il senso dell’imparzialità perché l’imparzialità era stata inventata con la Rivoluzione Francese. Un altro scrisse un intero capitolo dicendo che avrebbe accettato che si trattasse di imparzialità se la scimmia che aveva ricevuto l’uva l’avesse rifiutata. La cosa buffa è che Sarah Brosnan, che ha condotto l’esperimento con gli Scimpanzè, aveva un paio di combinazioni con gli Scinpanzé in cui, quello che riceveva l’uva, la rifiutava, fino a quando anche il partner riceveva dell’uva”. Lascio i commenti ai lettori; dico solo che de Waal non ha assolutamente abbandonato il concetto di “natura”, anzi, vi si è gettato completamente alla sua ricerca. Comunque la si pensi su de Waal, è difficile negare l’importanza del suo lavoro, che si estende per più di tre decenni, tra cui gli ultimi 18 anni presso il National Primate Research Center della università di Emory. Il lavoro di de Waal ha contribuito a un cambiamento sostanziale nel modo di pensare scientifico e popolare sul comportamento sociale degli animali, non solo dei primati. In particolare, la ricerca di de Waal sulla risoluzione dei conflitti dei primati e sul loro comportamento sociale ha screditato l’ipotesi che i primati siano  individualisti e aggressivi. Il suo lavoro ha dimostrato scientificamente che non solo molti primati mostrano veramente l’opposto di quanto teorizzato solo pochi anni fa dalla comunità scientifica, ma anche che il loro complesso comportamento sociale è come radicato nella loro natura, come lo è ogni istinto di autoconservazione. I primati si comportano socialmente  non a dispetto delle loro disposizioni biologiche, ma piuttosto seguendo una loro profonda disposizione naturale. Parlando secondo i canoni della più classica filosofia continentale, si potrebbe dire che de Waal abbia dimostrato la “buona natura” dei nostri più vicini compagni di evoluzione. Nel libro qui recensito, de Waal ha provato il grande salto che un po’ tutti i primatologi sono spesso propensi a fare, quello verso l’uomo, nel cercare di capire laicamente le basi della moralità umana, i “mattoni” che ne costituiscono le fondamenta. Ma se per l’autore la scienza fonda abbondantemente la comprensione della moralità umana,  de Waal appare scettico verso coloro che vorrebbero che la scienza determini i valori umani, o verso coloro che con un approccio militante (si riferisce ai “new atheists”) finiscono per sostituire un comportamento dogmatico con un altro.

Continua a leggere

Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Una recensione di Francesca Borsari

I moti del 1848 in tutta Europa. Anche questa volta, l'inizio fu in Francia

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Le Lotte Di Classe in Francia Dal 1848 Al 1850 (1896)

— — —

Il lavoro che viene qui ristampato, fu il primo tentativo di spiegare attraverso la concezione materialistica un frammento di storia contemporanea partendo dalla situazione economica corrispondente. (Friedrich Engels, p. 39)

Credo che la succitata frase riassuma in sé la motivazione principale per la quale leggere questo libro. Ulteriori motivazioni risiedono nella scorrevolezza del testo e, dal mio punto di vista, nella dimostrazione di quanto peso può avere un’idea nell’interpretazione storica. L’opera di MarxLe lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” fu pubblicata sulla Neue Rheinische Zeitung come serie di articoli. Nel 1895 Engels pubblicò una nuova edizione dell’opera di Marx intitolandola “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” dando titoli nuovi ai tre capitoli già apparsi. Come quarto capitolo aggiunse le parti dedicate alla Francia della Rassegna maggio-ottobre 1850 con il titolo “La soppressione del suffragio universale nel 1850“.

Il contesto filosofico dal quale Marx prende le mosse e dal quale è possibile spiegare quest’opera, è quello della messa in crisi della filosofia hegeliana perpetrata da Feuerbach, da Kierkegaard e da egli stesso tra gli anni ’40 e ’50 dell’800. Si era criticata l’idea di un idealismo assoluto che inseriva la ragione in un processo dialettico che rivelava la struttura stessa della realtà: l’accento è posto di nuovo sull’uomo. Marx rifiuta di Hegel l’identità della storia con la realizzazione di un principio assoluto, ma riprende la struttura dialettica del processo storico. Anche per Marx la storia è importante, ma perché terreno di trasformazione delle relazioni degli uomini. Nella produzione delle proprie condizioni materiali di vita gli uomini costruiscono un insieme di relazioni che sono la vera struttura della società; la storia non è che l’evoluzione di queste strutture economiche. Tutto il resto (diritto, religione, cultura, arte ecc.) non è che sovrastruttura e dunque, in quanto tale, dipendente dalla struttura e senza vera autonomia.
Continua a leggere

Mente e natura, Gregory Bateson e l’approccio sistemico

Nel prossimo brano, tratto da “Mente e natura”, il filosofo, psicologo, antropologo e biologo Gregory Bateson crea un fecondo parallelismo  fra come funzionano i nostri organi di senso e come funziona la conoscenza: gli organi di senso umani possono ricevere “soltanto” notizie di differenze, e per essere percettibili le differenze devono essere codificate in eventi temporali (cioè in ‘cambiamenti’). La “scienza”, e la “conoscenza”, non è altro che una ricerca delle invarianze, in natura come nel mondo storico. Trovare e definire linguisticamente qualcosa che non cambia (le invarianze), a sua volta, significa trovare le “differenze“. Ma ci sono metodi e metodi nella scienza. Gregory Bateson, un pioniere del pensiero complesso, sistemico, gerarchico e pluridisciplinare, contro ogni approccio riduzionistico, in “Mente e natura” ci invita a “conoscere” e a fare scienza prendendo esempio dal funzionamento dei nostri occhi, dalla visione binoculare. Descrivere un fenomeno da due punti di vista differenti, con due elaborazioni diverse, aumenta infine la comprensione e la descrizione del fenomeno nella relativa e inevitabile sintesi fra i due dati diversi. Come la visione binoculare fornisce la possibilità evolutiva di una nuova informazione (la profondità spaziale) così la comprensione dei fenomeni attraverso la “relazione” è in grado di  fornire un ordine nuovo di comprensione e una pedagogia nuova. Dalla visione combinata dei due organi e dai due emisferi cerebrali si ottiene un genere d’informazione che si potrebbe ottenere da un solo occhio soltanto impiegando speciali conoscenze collaterali (ad esempio, sulla sovrapposizione degli oggetti nel campo visivo); si ottiene, appunto, la percezione della profondità. Questa informazione riguarda una dimensione diversa (come direbbe il fisico), o un’informazione di tipo logico diverso (come direbbe Bateson). Per Bateson, però, questa della visione binoculare non è una semplice metafora: è un meccanismo generale provato dall’evoluzione darwiniana, dalla biologia, dal funzionamento della nostra mente. Di questa “metafora”, l’autore, nel corso del libro, dipana una raffinata spiegazione logica, ricca di esempi tecnici ma comprensibili anche per non addetti ai lavori, visto che, come direbbe Gould, la scienza ha bisogno delle giuste metafore per progredire. Nel metodo di Bateson, il “tutto” è sempre qualcosa in più della  somma delle parti.

Continua a leggere

Frankenstein Incompreso, una recensione del libro di Mary Shelley

Aligi Sassu, Prometeo, 1970

Ci sono storie radicate profondamente nella cultura e così spontanee alla mente da sembrare naturali, indiscutibili, innate. Sono storie eterne perchè senza memoria; sviluppate nel tempo del Mito si trascinano invisibili di generazione in generazione. Chiamate da Jung archetipi vengono continuamente riplasmate, anche in epoche moderne, senza perdere il loro alone di immortalità. Qui sta forse il segreto nascosto del Frankenstein di Mary Shelley, madre di fantascienza. Dalla mitologia il romanzo prende in prestito le idee della creazione e dell’acquisizione della conoscenza con un riferimento esplicito a Prometeo, la divinità greca che forgiò l’uomo con l’argilla e che, per avergli restituito il fuoco – simbolo dell’evoluzione tecnico-scientifica – venne punito da Zeus per l’eternità. La fama e la diffusione popolare del romanzo però non hanno impedito la nascita di fraintendimenti e rielaborazioni, fissati nell’ immaginario collettivo da successive trasposizioni teatrali e cinematografiche. Il romanzo originale non ha niente a che vedere con quel mostro sbandierato dallo scetticismo antiscientifico che invade oggi i dibattiti della bioetica e non è assolutamente un manifesto contro la tecno-scienza e le sue invasioni di presunte prerogative divine. L’ argomento Frankestein utilizzato dai detrattori della scienza non trova, nelle sue modalità, alcun riscontro nel testo: i riferimenti mitici del romanzo rimangono sempre pure metafore letterarie.  L’opera di Shelley è nata come storia di orrore e parla di passioni umane, di convenzioni sociali, di scienza e di solitudine, tanta solitudine. Se una critica alla conoscenza scientifica è presente allora va ricercato in questi ambiti. Frankenstein, o il Moderno Prometeo è un romanzo di fantascienza da una forte connotazione umanista.
Continua a leggere

Helmuth Plessner, Il riso e il pianto. Recensione di Diana Bonsignore.

L'esperimento Ekman e Friesen sulle espressioni facciali universali

Concepire il riso e il pianto come forme espressive significa partire dall’uomo come totalità, e non dal particolare – come il corpo, l’anima, lo spirito, il legame sociale – che si lascia separare dalla totalità quasi fosse qualcosa di autonomo (Helmut Plessner)

Di norma, la filosofia si è posta come scopo la ricerca della verità, scientifica o metafisica, mistica o religiosa e, raramente, ha sopportato lo sguardo beffardo tipico del comico. La filosofia ha, spesso, preferito la polemica, il contraddittorio e lo scontro, piuttosto che l’ambivalenza dello humour. In sostanza, anche all’interno della filosofia contemporanea, realtà in cui comunque pochissimi continuano a credere nell’esistenza di una verità universale e necessaria, si continua a preferire qualcosa che ha più affinità con il tragico che con il comico. Come sostiene Ferroni, l’esistenza del comico è stata per secoli relegata in una zona “bassa”, che non poteva venire negata fino in fondo ma restava comunque tollerata perché subalterna ad una seria, quindi alta e nobile. In questi termini, il riso è stato inteso alla stregua di una parentesi, di una momentanea divagazione. A tale proposito, emblematica è la disputa medievale fra coloro i quali affermavano che Cristo, durante la sua vita, abbia potuto ridere in virtù della sua parte umana; o non l’abbia di certo fatto perché ne riconoscono solo la sua natura divina, negando quella umana.  Eppure, vari autori hanno dato uno spazio, più o meno ampio, proprio all’indagine del fenomeno comico e, tra di essi, spiccano Platone, Aristotele, Hobbes, Kierkegaard, Nietzsche, Baudelaire, Freud, Bergson, Pirandello ed altri. Inoltre, se uno spazio marginale è stato affidato al riso, possiamo affermare tranquillamente che al pianto si è dato ancor meno rilievo. In questo panorama di studi, particolarmente interessante e originale risulta l’interpretazione che Plessner fornisce delle due manifestazioni.

Continua a leggere

Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino. Una recensione di Angela Del Gesso

La foto di una giovane Hannah Arendt

La vita felice è la vita che non può essere perduta. La vita terrestre è una mors vitalis oppure una vita mortalis , una vita inscritta nella morte. Tale vita diventa una costante paura.” E poco oltre: “ove non c’è morte e di conseguenza non c’è futuro, è possibile vivere sine angore curae”

Questo è ciò che si legge in alcune righe del saggio sul concetto di amore in Agostino che Hannah Arendt scrisse in occasione del conseguimento della sua laurea, sotto la tutela di Jaspers. L’incontro con Heidegger era già avvenuto. La Hannah che si approccia all’interpretazione dell’amore agostiniano è già stata segnata intellettualmente ed umanamente dall’incontro con l’autore di Essere e Tempo ed il lavoro a cui ci stiamo riferendo ne è una testimonianza. Tramite la riflessione sui concetti agostiniani, Arendt ,infatti, palesa un’attenzione particolare ai temi cari ad Heidegger: il problema della temporalità, la questione della posizione ontologico-esistenziale della morte, la dimensione intramondana dell’esistenza. Il brevissimo passo sopra riportato è una conferma di tale tendenza arendtiana e, allo stesso tempo, è esemplificativo dell’approccio della Nostra alla questione Agostiniana. Agostino è un autore ed un uomo controverso; le sue opere sono indissolubilmente legate alle  fasi della sua vita e ai diversi gradi di consapevolezza che acquisisce rispetto alla propria esistenza e, quindi, rispetto all’esistenza dell’uomo e alla sua posizione nei confronti del creato. Fare un’analisi unitaria della sua opera senza ricostruire cronologicamente le sue idee è un lavoro arduo. Hannah Arendt è la protagonista di tale impresa. Il suo saggio è un’ analisi del concetto di amore che viene affrontato non tanto dal punto di vista metafisico ed ontologico, quanto,invece,nei suoi aspetti fenomenologici ed esistenziali.

Continua a leggere

Melancholia, di Lars von Trier. Una recensione

La famosa "Ofelia" di Millais

Nelle depressioni l’annientamento presenta una tonalità diversa da quella della fine nelle schizofrenie. Non si tratta di angoscia per quanto sopravviene, di esperire una catastrofe  cosmica che si sta producendo; si tratta piuttosto del raccapriccio davanti a ciò che già è, il terrore davanti al vuoto, alla consumazione, all’annientamento. Un caratteristico senso di isolamento, che incontriamo come carattere della fine del mondo schizofrenica, lo ritroviamo talora anche presso tali depressi“. (de Martino, La fine del mondo, p.34)

La pura depressione è caratterizzata da un profondo immotivato cordoglio, da un impedimento di ogni divenire psichico, sentito soggettivamente come doloroso e tenuto al tempo stesso per obiettivo. Tutti gli stimoli cadono, il malato non prende piacere di nulla, la mobilità e attività diminuite si trasformano in assoluta mmobilità. Nessuna decisione può esser presa, nessuna attività esser presa in considerazione. Le associazioni non sono più disponibili. I malati si lamentano del loro vuoto, della loro insufficienza, della loro mancanza di affetti, della loro incapacità, della loro memoria confusa. Il mondo appare grigio, indifferente. Il passato è pieno di colpa, il presente miserabile, il futuro non ha orizzonte. Nella sindrome melancolica la depressione si sviluppa in senso delirante: i malati sono responsabili della infelicità di tutto il mondo” (Jasper).  Proprio per questa onnipresente colpevolezza sottolineata da Jasper nelle sindromi depressive, il mondo “merita la distruzione” e un depresso cronico, come sottolineava Freud, diviene facilmente irritabile. La causa del suo malessere (e l’allucinatoria soluzione del malessere) può divenire spesso quel mondo stesso, che merita una condanna. Il quadro si ritrova nelle parole di Justine, una delle due protaginiste del film: “l’umanità non merita di sopravvivere”.

Continua a leggere

Simone Weil, La prima radice. Una recensione di Elisa Radaelli

Fototessera di Simone Weil, operaia alla Renault nel 1935

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): La prima radice
— — —
Simone Weil (1909-1943) visse, nei primi decenni del XX secolo, un’esistenza breve, ma così intensa da fornire lo spunto a letture e interpretazioni diverse, talvolta addirittura opposte. Nello sviluppo delle proprie analisi, nel corso delle quali prende in considerazione gli esseri umani calandosi tra gli uomini e rifiutando qualunque tipo di prospettiva distaccata o privilegiata, avverte la necessità di ridefinire la nozione di persona: a suo avviso, soltanto chiarendone gli aspetti davvero essenziali, sarà possibile gettare le premesse di una società nuova, in grado di superare definitivamente il periodo di crisi che l’attraversa; quando parla di crisi, non allude a situazioni generiche, ma ha ben in mente il quadro a lei contemporaneo e, proprio di fronte alle contraddizioni e agli interrogativi che esso solleva, si muove alla ricerca di risposte e soluzioni. Lo dimostra chiaramente il saggio La prima radice (1), composto nel 1943 e pubblicato postumo nel ’49. L’opera nasce in un contesto molto particolare, quello del Commissariato per gli Interni e il Lavoro di “France Libre”, l’organizzazione politica in esilio capeggiata da Charles De Gaulle, presso cui Weil era stata assunta come redattrice addetta ai servizi civili.

Suo compito sarebbe stato quello di esaminare e selezionare i documenti provenienti dalla Francia occupata, però la sua attività si spinge oltre; le annotazioni e i commenti si trasformano, infatti, in veri e propri trattati nei quali, pur affrontando tematiche differenti, mostra di tener sempre presente, in modo più o meno esplicito a seconda dei casi, l’essere umano e le irrinunciabili esigenze che lo caratterizzano. Il titolo originario assegnato allo scritto consente di cogliere un primo aspetto importante: parlare di Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano ha il preciso significato di porsi all’interno di una prospettiva che privilegia i doveri anziché i diritti. Non è un caso, dunque, che venga problematizzata proprio la nozione posta a fondamento della celebre Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, elaborata nel 1789. Gli uomini di quel tempo hanno considerato i diritti come princìpi assoluti, commettendo un duplice errore.

  Continua a leggere

Marías, Domani nella battaglia pensa a me. Una recensione di Roberta Savino

Javier Marias

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Trilogia sentimentale: Tutte le anime-Un cuore così bianco-Domani nella battaglia pensa a me (Super ET)
— — —

Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sopra la tua anima, che io sia piombo dentro al tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori”

Javier Marías affida il titolo del suo  romanzo  a  un  passo  del  Riccardo  III  di  Shakespeare. La scelta di tale citazione non è casuale, l’autore ci si sofferma e la ripropone più volte,  evidenziando il forte legame  tra il rimando  shaksperiano  e  il  romanzo  stesso.  La morte,  la vita,  la  battaglia  come  metafora  della  vita, il peso  dei  ricordi e  dei  rimpianti  che  come  piombo  si  posa  sul  petto  di  chi  resta,  di  chi  non  muore, di  chi  continua  a  vivere.  “Domani  nella  battaglia  pensa  a  me” appare  come  una  minaccia  scagliata  dal  defunto  nel  mentre della  sua  dipartita.  E’  un’ esortazione  a  non  dimenticare,  a  non  voltare  la  faccia  alla  morte. Scrivere   della   morte  non  è  affatto  conveniente.  Se  va  bene  si  rischia  che  il  lettore  si  affidi  al romanzo  con  sospetto  e  inquietudine;  se  va  male  le  probabilità  che  si  abbandoni  la  lettura  si  fanno assai  alte. Il  punto  nevralgico  della  questione,  ciò  che  svela  il  motivo  di  questa  mia  arringa,  risiede nel  fatto  che  la  Morte,  oggi,  fa  una  paura  tremenda.  Tutte  le  più  grandi  spiegazioni  su  di  essa risultano  obsolete.  I  ferventi  cattolici  si  aggrappano  alla  consolante  idea  che  “la morte  è  solo  un passaggio,  dopo  si  andrà  nel  regno  dei  cieli”,  le  filosofie  new age,  per  le  quali  io  nutro  profondo sospetto,  propongono  invece  la  tesi  della  reincarnazione  e  così  sia.  Ma  gli  scettici,  con  cosa  si consolano?  Il  capolinea  della  modernità  è  stato  quello  di  svelare  l’illusione,  con  le  parole  care  a Nietzsche,  di  una  grossa  bufala.  E  ne  paghiamo  le  amare  conseguenze. Lo  scrittore  madrileno   Javier  Marias,  vincitore  di  numerosi  premi  letterari,  racconta  della  morte come  un oratore  che  si  affida  al  suo  flusso  di   coscienza  dinanzi  a  una  platea  seria  e  mal  disposta  al  tema.  La  morte  appare  oggi  il  mistero  dei  misteri.  Eppure,  è  un  mistero  di  cui  non  si  parla,  non si  deve  parlare. Ecco  che  Marias  ci  prende  per  mano, e  senza  censure  ci  catapulta  in  una  situazione che  ha  del paradossale.

Continua a leggere

Amartya Sen, Identità e violenza, una recensione a cura di Valeria Villa

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Identità e violenza (Economica Laterza)
— — —

“Kader Mia, un bracciante musulmano, fu accoltellato mentre si recava in una casa vicina, per lavorare in cambio di una paga esigua. Fu accoltellato sulla strada da persone che neanche lo conoscevano e che molto probabilmente non lo avevano mai visto prima. Per un bambino di undici anni, quell’evento oltre a rappresentare un autentico incubo, era profondamente sconcertante. Perché una persona da un momento all’altro veniva ammazzata? E perché veniva ammazzata da persone che neanche la conoscevano, persone a cui la vittima non avrebbe potuto fare alcun male? Il fatto che Kader Mia potesse essere ridotto ad una identità soltanto – quella di membro della comunità “nemica” – che “doveva” essere attaccato e se possibile ucciso – appariva totalmente incredibile. Agli occhi sbalorditi di un bambino, la violenza dell’identità era qualcosa di straordinariamente difficile da comprendere. Non è particolarmente facile nemmeno per un adulto anziano, che ancora si sbalordisce. Mentre mio padre lo portava in ospedale con la nostra macchina, Kader Mia gli disse che sua moglie gli aveva chiesto di non andare in un quartiere ostile in quel periodo di scontri intercomunitari. Ma lui doveva andare a cercare  lavoro per guadagnare qualcosa, perché la sua famiglia non aveva niente da mangiare. Il prezzo di questa necessità, causata dalla miseria, sarebbe stato la morte. Il terribile legame tra la povertà economica a la totale mancanza di libertà (perfino la libertà di vivere) fu una presa di coscienza, assolutamente scioccante, che colpì la mia giovane mente con forza sconvolgente”.  [ed. it. p. 176, p. 173 ed. ingl.]

Quasi in procinto di chiudere il suo libro, Identity and Violence. The Illusion of Destiny, Amartya Sen condivide con i suoi lettori l’esperienza drammatica del suo primo incontro con la morte. Per il lettore di Sen non è nuovo imbattersi in vicende biografiche. Ciò che, tuttavia, ogni volta sorprende è la constatazione dell’influenza che queste esperienze hanno esercitato sul suo pensiero. Leggendo la sua filosofia, il lettore ha la costante sensazione di essere a contatto diretto con la vita: non c’è pensiero lontano dalla realtà, ma una realtà che si fa pensiero; ovvero, Sen trasforma in ragionamento, in analisi, in stimolo per portare la mente verso curiose profondità, gli eventi della concretezza quotidiana. È rilevante sottolineare questo aspetto del suo scrivere e del suo pensare, poiché dice molto della forza teorica e dei fini a cui la sua teoresi aspira. E qui, in Identity and Violence – come aveva già fatto precedentemente in Equality Reexamined e Development as Freedom – il pensiero di Sen è animato dall’esperienza scioccante e diretta con la morte per conflitti di identità, della povertà e dell’ineguaglianza; queste muovono il suo pensiero verso l’analisi precisa delle cause ed effetti della miniaturizzazione delle persone in identità chiuse e non comunicanti. Prima di entrare nel vivo della discussione delle tematiche che Sen propone penso sia interessante condividere con voi come è nato il mio interesse per questo testo; ciò dice molto del mio approccio a Sen che qui propongo e dei sentimenti che hanno guidato la mia lettura. Stavo passeggiando per le vie centrali di Cambridge. Era una domenica mattina di metà Giugno. Il centro città era affollato di turisti che scattavano foto agli edifici storici e di studenti che passeggiavano tranquilli godendosi finalmente le bellezze di Cambridge, i colleges e il fiume, dopo un anno accademico di studio. Io passeggiavo come loro insieme ad alcuni amici che si preparavano per tornare in Italia avendo concluso il proprio progetto di studio. Di fronte alla Senate House cammina Amartya Sen. Indico ai miei amici la sua figura e li rendo partecipi dell’importanza che egli trascina insieme ai suoi passi da intellettuale, maturato dagli incontri e dalla vita di studio: “È il premio nobel Amartya Sen!”.
Continua a leggere

Recensione a Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, a cura di Matteo Giangrande

Eraclito l' "oscuro" (Skoteinòs), in un dipinto di Hendrick ter Brugghen, 1628

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Eraclito (I libri dell’ascolto)
— — —

Il fulmine governa ogni cosa (fr. 64)

Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno (fr. 50)

Le cose della più grande importanza non dobbiamo giudicarle a caso” è il motto proposto da Heidegger per il seminario su Eraclito, condotto insieme all’allievo e amico Fink, la cui trascrizione costituisce il testo, edito da Laterza all’interno della collana “I libri dell’Ascolto” diretta da Vittorio Tamaro, che qui viene recensito. Il tentativo del seminario è quello di spingersi fino alla «cosa stessa del pensiero», oscura nella sua modalità d’essere e d’accesso, che stava dinanzi allo sguardo spirituale di Eraclito, pensatore storicamente imponente, che, nonostante dimori all’origine dell’Occidente, non è stato nella storia del pensiero mai raggiunto. Il seminario è una “pratica del pensare”, ovvero è un meditare pensieri pre-meditati da Eraclito, è uno sforzo di «interpretazione speculativa» della lingua di Eraclito, che possiede un’intima polivocità e multidimensionalità e che non conosce per nulla la differenza tra pensiero interiore e dire esteriore: interpretazione – “non più” in maniera metafisica di un testo che “non è ancora” metafisico – che prende le mosse dal contenuto espresso in modo immediato ed ingenuo e, nel corso del pensare-attraverso, perviene a un dire che non si lascia riempire da un’intuizione immediata, effettuando la transizione, indirizzata in modo selettivo dal percorso dell’interpretazione stessa, da un enunciato conforme alla percezione ad un enunciato non sensibile (ma non sovrasensibile). La proposta di Fink di un possibile “ordinamento speculativo” ha la sua ragion d’essere nell’esigenza di trovare –  restando all’interno della fondamentale difficoltà del circolo ermeneutico, nella quale ci muoviamo costantemente – un intima connessione di senso attraverso una molteplicità di frammenti. E’ bene dire subito che tutto il seminario gioca intorno ad una questione fondamentale, quella di individuare il significato dell’ap-par-tenenza di en e panta, che, come ci segnala l’eccellente Avvertenza di Adriano Ardovino, si configura come una “distinzione senza separazione”.
Continua a leggere

Omer Bartov, Fronte orientale. Una recensione di Matteo Giangrande

Località ucraina di Babi Jar.In soli due giorni vengono uccisi 33.000 ebrei russi, uomini, donne e bambini. E' il cosiddetto "olocausto dei proiettili".

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945) (Biblioteca storica)

— — —

Raccogliendoci a meditare attentamente sul titolo del libro che qui viene esaminato, proviamo a fare la prima osservazione, che potrebbe instradarci ad una comprensione dello schema concettuale di fondo del discorso dello storico Omer Bartov. The Eastern Front, 1941-45, German Troops and the Barbarisation of Warfare (opera del 2001 e trad. it. del Mulino nel 2003). L’elemento principale che emerge dal titolo non è tanto il riferimento evidente alla zona di combattimento in cui durante la seconda guerra mondiale l’esercito tedesco e quello russo si sono fronteggiati direttamente, quanto piuttosto la relazione che lega le truppe tedesche allo sterminio sistematico del cosiddetto ‘bolscevismo giudaico’ e delle sue basi biologiche: le azioni di sterminio, avvenute subito dietro la linea del fronte, trasformarono l’Operazione ‘Barbarossa’ nella «più terribile guerra di conquista, asservimento e sterminio dei tempi moderni». A far riflettere è l’espressione ‘imbarbarimento della guerra’. Ora, una semplicistica battuta potrebbe liquidare la questione: la guerra è essenzialmente barbara, cioè violenta, sanguinaria, efferata. E tuttavia, questa superba superficialità non coglierebbe il centro del discorso. La lotta tra stati condotta con le armi dagli eserciti, uomini istruiti e equipaggiati per la guerra, potrebbe essere considerata ‘civile’, ma non nel senso di una guerra civile, che riguarda i cittadini all’interno di uno stato, né nel senso che essa viene condotta con cortesia, né ovviamente nel senso che non coinvolge i militari o gli ecclesiastici. Dire che la guerra rientra nella categoria del ‘civile’ è voler dire che anche la guerra è regolata da un insieme di norme, il diritto bellico, che ne disciplinano la condotta, che limitano i mezzi e i metodi di guerra. Che, di fatto, molto spesso il diritto bellico non sia rispettato dagli eserciti è qualcosa di acclamato. Il centro del discorso di Bartov parte, nondimeno, dalla costatazione che la guerra che le truppe tedesche hanno condotto sul fronte orientale era contrassegnata da una ‘caduta’ strutturale del livello di ‘civiltà’ all’interno del diritto di guerra: come vedremo, i soldati non riuscirono più a vedere il limite tra la fucilazione giustificata dall’autorità e le cosiddette fucilazioni ‘selvagge’.

Continua a leggere