Perché la guerra? Carteggio Einstein-Freud. Una recensione

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La reazione di Sigmund Freud di fronte agli avvenimenti della Prima guerra mondiale è quella di un uomo in cui l’iniziale slancio patriottico, avvertito allo scoppio del conflitto, lascia spazio ad un profondo senso di smarrimento di cui il saggio Perché la guerra? costituisce una chiara testimonianza. Del resto, la drammaticità degli eventi – sostiene lo studioso austriaco – costringe tutti gli individui a fare i conti con la perdita di (apparentemente) solidi punti di riferimento, e la gravità di tale perdita è tanto maggiore quanto più elevato è il (presunto) livello di civiltà dei popoli coinvolti. La guerra, però, non ha stravolto soltanto la vita degli uomini: persino il tradizionale modo di concepire la morte è stato investito dal cambiamento; Freud nota che, sebbene l’inconscio spinga da sempre il singolo ad allontanarne il pensiero e a rifiutarne l’indissolubile legame con la realtà, è chiaro che “la morte non può più oggi essere negata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno”.

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Gerald Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana. Una recensione

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In questo scritto si prende in esame un’opera scientifica che nonostante non sia di recente pubblicazione – la sua uscita anglofona è del 2006  – non è per tale ragione da considerare obsoleta, quantomeno nello spirito che informa il testo. Gerald M. Edelman, autore del libro in questione, premio Nobel nel 1972 per la fisiologia e la medicina per i suoi lavori sul sistema immunitario, è attualmente direttore del Neurosciences Institute di San Diego e presidente del Dipartimento di Neurobiologia presso lo Scripps Research Institute di La Jolla (California). Nella prefazione del suo Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, (tradotto in lingua italiana nel 2007 per Raffaello Cortina Editore, nella collana diretta da G. Giorello), Edelman afferma la propria convinzione secondo la quale, seguendo William James, «la coscienza è un processo la cui funzione è conoscere»; e, dunque, capire la coscienza è fondamentale per comprendere «quale sia la relazione tra i progressi delle scienze del cervello e i problemi della conoscenza umana». La nascita della fisica moderna, che segna l’inizio del più profondo cambiamento di prospettiva mai affrontato dalla specie umana, e lo sviluppo dell’idea di selezione naturale, che fornì la base teorica per comprendere l’evoluzione degli esseri viventi, tratteggiano un arco che non è ancora compiuto: la scienza, infatti, non ha ancora chiarito le basi cerebrali della coscienza, esperienza irriducibilmente soggettiva, non oggettivabile. Considerando la scienza come «immaginazione al servizio della verità verificabile» – dunque, essendo l’immaginazione dipendente dalla coscienza, anche la scienza è dipendente dalla coscienza – Edelman, all’interno di una prospettiva che potremmo ricondurre all’ecologia intesa come scienza che studia i rapporti tra gli esseri viventi e l’ambiente, sostiene l’assunto che possediamo una teoria scientifica della coscienza soddisfacente, che chiama «darwinismo neurale», secondo la quale la coscienza emerge dalla dinamica celebrale. In altri termini, nell’indagare come funziona il cervello (il quale è incarnato in un corpo, così quest’ultimo influenza ed è influenzato dall’insieme delle relazioni con l’econicchia) è possibile formularne una teoria globale che si possa ampliare fino a spiegare la coscienza, permettendoci di comprendere meglio il nostro posto nell’ordine naturale.

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Martin Hengel, Ebrei, Greci e Barbari. Una recensione

Tempio di Oropos (Attica). Di qui proviene l'iscrizione del più antico ebreo ellenizzato della storia: "Mosco, figlio di Moschione, giudeo, in seguito a un sogno su ordine del dio Anfiarao e di Igea"

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Ebrei, greci e barbari. Aspetti dell’ellenizzazione del giudaismo in epoca precristiana (Studi biblici)

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Il presente studio, editato dall’autore nel 1981, è la meta a cui egli è arrivato dopo anni di intense ricerche compiute sulla storia giudaica; ricerche che hanno trovato forma di espressione nella rivista che da anni accoglie i più importanti studi sul versante storico del giudaismo, la Cambridge History of Judaism. Tale opera dunque non è altro che la riproposizione in forma più vasta, aggiornata e compita dei precedenti contributi che egli pubblicò su tale rivista. Erudito in discipline storiche e filosofiche, l’autore riprende un tema tanto caro nella sua precedente produzione letteraria: l’incontro-scontro culturale del giudaismo con l’ellenismo con particolare riferimento alla Palestina fino alla seconda metà del II sec. a.C. L’autore stesso afferma: “questo lavoro rappresenta in molti punti una continuazione della ricerca svoltavi. I nuovi reperti archeologici che continuano a venire alla luce, come pure i continui progressi della ricerca, forniscono un ricco materiale a questo scopo”. Il presente contributo si colloca perciò nella stessa prospettiva dei precedenti: il tema preso costantemente in questione dall’autore è “l’incontro tra il giudaismo e la cultura ellenistica” in tutti i suoi aspetti, anche filosofici. L’autore, professore di N.T. all’Università di Tubinga, tratta questo argomento con l’intento di chiarire questo tema limitatamente a “quel periodo della storia giudaica tuttora oscuro per la precarietà delle fonti, in quanto egualmente lontano per gli studiosi dell’Antico Testamento come per quelli del Nuovo“, dal momento che proprio in tale periodo “vennero posti i fondamenti decisivi per l’autocoscienza del popolo giudaico dell’«epoca neotestamentaria» e non solo della diaspora nell’area di lingua greca, ma anche della madrepatria, la Palestina”.

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Freud, Psicopatologia della vita quotidiana. Una recensione di G. Ottaviani

Sigmund Freud fotografato con la madre

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Perché un testo ha successo? Spesso perché il lettore si riconosce in quello che viene raccontato, identifica situazioni, si immedesima nei personaggi, come se i sentimenti descritti fossero davvero i suoi, come se anche a lui realmente fosse capitato di provarli. Una storia diventa di successo quando a ognuno dei tanti che la leggono sembra la propria, la sua storia, o almeno una delle varie storie che gli sono occorse da quando ha memoria. La lettura di “Psicopatologia della vita quotidiana”, anche grazie alla vivace scrittura del padre della psicoanalisi (oramai questo è l’epiteto per eccellenza di Freud, come “piè veloce” per Achille), è una rara soddisfazione, perché svela un livello più intimo di comprensione di avvenimenti che a tutti – anche a Freud – sono capitati, di cui tutti  percepiamo, più o meno, l’importanza, non capendo bene però il perché. Come ha scritto l’autorevolissimo Umberto Galimberti, “ci racconta che la nostra vita non ha solo il senso che noi le riconosciamo con la nostra ragione. Ci racconta che il nostro io non è padrone in casa propria, che la casa di psiche ha molti abitanti, spesso tra loro litigiosi. Ci racconta che nelle cantine della nostra anima si agitano demoni e dèi, di cui abbiamo dimenticato il nome da quando […] abbiamo chiamato il potere, l’amore, l’aggressività, l’odio, “istanze psichiche” non sempre manifestabili nella vita sociale, ma vive e animate nel sottofondo della nostra anima, che talvolta riescono a manifestarsi a noi e agli altri suscitando, dopo un po’ di disagio, l’ilarità che sempre accompagna un’insincerità smascherata”. Addirittura Galimberti arriva poi a dire che questo è un libro “cattivo” di Freud, perché “non ci lascia nell’innocenza della distrazione, della dimenticanza, della sbadataggine, della stanchezza, dello stress, e perciò dà ragione alla donna innamorata che, anche se non sa nulla di psicoanalisi, sospetta, nella dimenticanza di un appuntamento, che l’amato forse non la ama più”.
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Jacques Derrida, Dello spirito. Una recensione di Kinglizard

Heidegger e Derrida

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Dello spirito è una sorta di monografia tematica che analizza e ricostruisce l’evoluzione dell’uso di un concetto, quello di spirito appunto, nella grandiosa opera di Martin Heidegger. Eppure, contemporaneamente, Dello spirito è anche un’opera di Jacques Derrida, un’opera cioè in cui sono evidenti sia l’impronta stilistica, mai priva essa stessa di significati suoi propri, del filosofo francese, sia il suo particolare modo di procedere nell’esposizione dei concetti. Se quindi da un lato si ha a che fare con una ricostruzione, non solo filosofica e concettuale ma anche filologica, che vuole essere il più vicina possibile all’esattezza storica, dall’altro lato, leggendo il testo, ci si imbatte in scelte peculiari nel modo di affrontare il tema centrale, scelte che, come accade spesso nei testi derridiani, sembrano non abbordare mai direttamente l’oggetto di cui si vuole parlare e che, quasi accostandosi ad esso obliquamente, seguendo sentieri secondari, apparentemente marginali, non ancora battuti, ne fanno emergere quel surplus di senso che soltanto i grandi interpreti sanno produrre.

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Pierre Hadot, Ricordati di vivere. Una recensione

Epitaffio di Sicilo (II secolo aC), il più antico documento musicale greco. Così recita: «Finché vivi, splendi, non affliggerti per nulla: la vita è breve e il Tempo esige il suo tributo»

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a cura di Alessandro Stella

Non è possibile aprire un libro di Pierre Hadot senza provare una profonda ammirazione per questo autore, la cui più autentica erudizione è legata indissolubilmente  alla estrema semplicità di parola. Semplicità di parola, certo, ma anche e soprattutto parole semplici. La sua parola ha il senso della bellezza proprio perché evita inutili “filosofemi”, proprio perché è una parola che ha il peso, e la leggerezza, di una vita intera dedicata alla filosofia. La filosofia di Hadot, però, non è quella che l’accademia moderna può suggerire, e cioè un’attività il cui scopo è la costruzione di un sistema concettuale. Anche se la teoria è sempre stata al centro della filosofia, essa fungeva da giustificazione di un modello di vita, di una disciplina: era inseparabile da uno stile di vita. Poco prima di morire, Hadot ha ribadito un concetto espresso in tutta  la sua produzione letteraria e in tutta la sua vita:  <<Nei tempi antichi, ad esempio in Epitteto, Plutarco, o in Platone, vi è una critica feroce di chi vuole solo “professori” che vogliono brillare con le loro argomentazioni e il loro stile e che sono quindi distinti da coloro che vivono la loro filosofia. Questo stesso contrasto si perpetua nella filosofia moderna. Kant oppone alla filosofia “scolastica” la “filosofia del mondo” che interessa ognuno di noi. Schopenhauer deride la filosofia accademica, che descrive come “scherma di fronte a uno specchio”. Thoreau dichiara: “Ai nostri giorni, ci sono professori di filosofia, ma non filosofi”, e Nietzsche scrive: “abbiamo appreso il minimo delle cose che gli antichi insegnavano alla loro gioventù? Abbiamo imparato il minimo tratto di ascetismo pratico di tutti i filosofi greci?” Bergson e gli esistenzialisti difendono lo stesso concetto, quello di una filosofia che non è una impalcatura di concetti, ma un impegno “di” e nell’esistenza” (1). In questo suo ultimo libro, il cui sottotitolo è Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, l’autore ricorda quel che ha continuato a sviluppare nel corso dei suoi lavori. Le antiche scuole filosofiche hanno sviluppato dei “corpus” di esercizi spirituali, intendendo con ciò “atti dell’intelletto, o immaginazione, o della volontà, caratterizzati dalla loro finalità: tramite loro, l’individuo cerca di cambiare il suo modo di vedere il mondo, al fine di trasformarsi. Non si tratta d’informarsi, ma di formarsi”. In questo lavoro, tramite Goethe, Hadot ci ricorda la filosofia come memento vivere, rielaborando e sfruttando tutta la tradizione greca e lo stesso memento mori.

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Marcuse, L’uomo a una dimensione. Una recensione di Stefano Lechiara

Un fotogramma di Metropolis (1927), di Fritz Lang

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Antesignano di idee rivoluzionarie, “Maestro della nuova sinistra”, “apologeta del Dio Marx” ed oracolo di una società costruita ex novo sul presupposto di una liberazione totale dell’umanità, oppure marxista eretico” e visionario, nonché “irrazionalista di sinistra” e precursore di ideologia oscurantista? La vasta produzione di Herbert Marcuse, poliedrica figura di intellettuale germano-statunitense ed eminente rappresentante della Scuola di Francoforte, risulta aliena da un’interpretazione sostanzialmente condivisa in senso plurilaterale. Parimenti la sua vita, ricca di avvenimenti biobibliograficamente significativi, pare dividere gli studiosi. Essa ha suscitato la disapprovazione da parte di coloro che si presero la briga di evidenziarne la relazione (apparentemente antinomica) con la sua opera scritta (vedi la “Pravda”, organo di stampa dell’URSS) sì da giungere ad un’alacre condanna che ha il sapore di una scomunica. Nondimeno Marcuse, nell’ambito del ribellismo sessantottino che infuriava su scala globale, riscosse un successo e un’approvazione che sfiorarono la mitizzazione fanatica. In tal periodo difatti, si era quasi dappertutto gridato nei cortei e scritto sui muri: “Mao, Marx, Marcuse”. La prerogativa di Herbert Marcuse (che contraddistingue i più grandi) è quella di dividere così come inaugurare prospettive innovative e comprensibili, con ogni probabilità, in epoche piuttosto lontane. Il filosofo sembra quindi interessare non soltanto come interprete di fenomeni sociali ma, in primis, in quanto esso stesso fenomeno sociale da interpretare. Il pomo della discordia è costituito dalla sua opera più celebre “L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata” (1964), edita a Boston nel momento in cui egli era poco più che un professore settuagenario e conosciuto per lo più negli Stati Uniti (ove si era stanziato negli anni della seconda guerra mondiale a causa della persecuzione nazista imperversante nella sua Germania).

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