Umberto Eco, Storia della bruttezza. Una recensione

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Romanzo di Esopo I (I-II secolo d.C). "Esopo, il grande benefattore dell’umanità (...) repellente, schifoso, pancione, con la testa sporgente, camuso, gibboso, storto, labbrone..."

Che cosa è il brutto? Che cosa è brutto? Solitamente si definisce il brutto in opposizione al bello; ma essendo il bello piuttosto soggettivo, anche la nozione di brutto non può essere univoca. Il bello e il brutto sono relativi a tempi diversi, a culture diverse, anche se nei secoli si è cercato più volte di definire dei modelli per definire cosa fosse bello e cosa non lo fosse (ne è uno dei massimi esempi il Canone di Policleto, una statua nella quale aveva racchiuso tutte le regole per le proporzioni ideali).Nella Storia della bruttezza a cura di Umberto Eco, viene presentata, partendo dal mondo classico sino ad arrivare al giorno d’oggi, la nozione di bruttezza, accompagnata da una lunga serie di opere d’arte che possono far comprendere tali concetti. Il testo comincia cercando di sfatare uno dei miti più diffusi legato al mondo classico: non era sicuramente un mondo dominato dal bello come molti credono. “L’ideale greco della perfezione era rappresentato dalla kalokagathia, termine che nasce dall’unione di kalos (genericamente tradotto come “bello”) e agathos (tradotto come “buono”).” Potremmo tradurre il concetto con il termine anglosassone gentlemen, persona di aspetto dignitoso, composta, ma che nello stesso tempo presenta un temperamento, un carattere fiero, coraggioso, dagli alti valori morali. Proprio alla luce di questo ideale, il mondo greco ha elaborato una vasta letteratura sul rapporto tra bruttezza fisica e bruttezza morale. La bruttezza e la malvagità erano aspetti molto indagati dai greci: osservate gli innumerevoli cortei di Bacco, con i sileni ebbri e ripugnanti, che a volte fanno sorridere tanto comicamente vengono rappresentati. La malvagità però non è sempre legata all’aspetto: l’orribile sileno per eccellenza è Socrate, maestro di saggezza. E non è sempre legata all’individuo maschile: ci sono figure come le sirene che la mitologia ha spesso rappresentato come uccellacci rapaci dalla coda di pesce. La loro malvagità sta nella voce, come ricorda l’Odissea: “Chiunque i lidi incautamente afferra- delle Sirene, e n’ode il canto, a lui- né la sposa fedel, né i cari figli- verranno incontro su le soglie in festa-“. Un fascino pericoloso e distruttivo.

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Vittorio Lanternari, Festa, carisma, apocalisse. Una recensione

Pieter Van der Heyden, La festa dei folli, 1559

Con questo libro Lanternari arricchisce le visioni del mondo dell’ uomo occidentale  rendendole più profonde ed umane. Proietta il nostro sguardo sugli aspetti religiosi delle “culture primitive” e sull’ urto culturale tra la civiltà europea e le culture indigene dei Paesi coloniali, dal quale sono scaturite nuove formazioni religiose sincretiste. Ma in queste pagine ritroviamo anche  il fascino ed il significato della cultura contadina dell’ Italia meridionale. In sostanza Lanternari indirizza la sua attenzione verso il concetto di “religione popolare” e lo studia nell’ ambito del proprio contesto storico-sociale di appartenenza. E l’espressione “religione popolare” assume valore e importanza storica  mettendola in relazione ad un altro concetto, complementare e dialetticamente opposto cioè quello di “religione ufficiale”. A livello teorico e metodologico, Lanternari adotta un approccio storico-antropologico; tuttavia è esplicita la sua intenzione di confrontare tra loro  culture diverse. I primi capitoli sono attraversati dall’ assunto generale della funzionalità della festa per il sostentamento dell’ identità dei gruppi sociali, a prescindere dalle loro collocazioni di tempo e luogo.

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La filosofia di Taxi Driver

Martin Scorsese incontra Jan Paul Sartre  (a cura di Asaxelar)

“Che cosa c’è da temere da un mondo così regolare?”.

“Ho paura di quello che sta per nascere, che sta per impadronirsi di me… e trascinarmi, dove?”

 Nelle citazioni di apertura, tratte dal libro La Nausea (1938) di  Jean-Paul Sartre, ci vengono posti due quesiti che potrebbero essere l’uno la risposta dell’altro: ciò che dovrei temere da un mondo così regolare (la nostra società) sono quelle paure che nascono nei suoi abitanti, si impadroniscono di loro e li guidano verso reazioni imprevedibili. Tali reazioni invece di essere studiate, al fine di comprendere ciò che le ha scatenate e quindi provvedere a prevenire tali comportamenti, vengono metabolizzate e trasformate in spettacolo; occultando le motivazioni che le hanno provocate. E’ sufficiente osservare il ruolo dei media: essi ci forniscono una serie di notizie superficiali che si fa fatica a considerare informazioni; più legate all’area dello show business che a quella del giornalismo. Per questo motivo possiamo considerarci più confusi che informati. Tale disordine ci porta a vivere in una realtà allucinata, completamente diversa da quella che viene pubblicizzata tramite le immagini e i messaggi che quotidianamente ci vengono inviati. Ci troviamo perciò a vivere in una società che, pur mostrandosi splendida e perfetta, nel suo interno sta marcendo. In breve, questo è quanto ci mostra Martin Scorsese in Taxi Driver (Taxi Driver, 1976).

 La rovente estate newyorchese del 1975 fa da sfondo naturale a Travis Bickle (Robert De Niro), un marines reduce dal servizio militare in Vietnam, che si fa assumere come tassista notturno al Manhattan Cab Garage. Egli soffre di insonnia e il suo senso di vuoto e di solitudine lo portano ad annullare i giorni tra cinema a luci rosse e viaggi a vuoto per la città. Travis si invaghisce di Betsy (Cybill Shepherd), una ragazza intravista nella folla, sostenitrice del senatore Charles Palantine (Leonard Harris); ma, a causa di uno sfortunato appuntamento, lei lo respinge. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso e il tassista si trasforma in un angelo vendicatore che individua nel senatore Palantine la causa di tutti i mali della società. Fallito il tentativo di ucciderlo, Travis sfoga la sua rabbia su Sport (Harvey Keitel), protettore della prostituta minorenne Iris (Jodie Foster), conosciuta casualmente durante un turno di lavoro. Liberandola dal giogo del delinquente, il tassista si trasforma in un eroe per caso e sparisce nelle maglie della società che ora lo riconosce parte di sé.

 Scorsese ci trasporta in una realtà popolata da quelli che Sartre definisce “porcaccioni“. Anche il protagonista de La Nausea, Antonio Roquentin, alla stregua di Travis, è un personaggio solitario. Anche lui ha vissuto particolari esperienze fuori dal suo paese e si ritrova nella condizione di reintegrarsi in una società che non gli appartiene più. Anche Antonio è un “reduce”; non di una guerra combattuta ma di una società che darà vita ad una guerra enorme che scoppierà di lì a pochi anni: la seconda guerra mondiale. Tuttavia vi è una differenza sostanziale tra le due opere, che va riscontrata nelle dinamiche creative che hanno dato vita a Taxi Driver. In quest’ultimo si trovano sviluppate tre poetiche fondamentali: quella della Violenza, della Nostalgia e dell’Iper-realismo. In questo contesto tralasceremo volontariamente l’ultima (legata soprattutto allo stile visivo del film e quindi da contestualizzare anche nel periodo storico in cui questo è stato realizzato) e ci soffermeremo sulle altre due.

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Sartre, L’angelo del morboso. Una recensione

Altweiser in una cartolina del 1968

Era un altopiano dei Vosgi dai fianchi irsuti. I monti circostanti si elevavano o discendevano come montagne russe, tutti ombreggiati dalla loro chioma d’abete, ora zazzera scossa dai venti, ora pettinata con cura, tosata sui lati, che rivelava agli occhi riposati l’oasi di un prato verde o di una casa rossa. Quei tetti lontani, fabbricati a mattoni, dovevano alla foresta che li circondava l’abbellimento di un contrasto: erano diventati la meta delle passeggiate, per il piacere di incontrare degli uomini dopo la traversata di un luogo solitario; rappresentavano la vita umana, poveri sostituti che implicavano tuttavia una quantità di idee mondane e lussuose radicatesi là misteriosamente, probabilmente col favore della distanza. Sull’altopiano era spuntato un villaggio, Altweier, accuratamente diviso, come tutti quelli dell’Alto Reno, in due parti: la frazione cattolica e la frazione protestante. Ciascuna aveva la sua chiesa e le case si raggruppavano, sottomesse, attorno ai due campanili. Il partito cattolico si era impossessato della cima: più modesto o venuto tardi, il partito protestante si era installato un po’ più in basso, annodato dalle tortuosità della strada. Il calzolaio, carattere forte, s’era sistemato ancora più in basso per far vedere che faceva gruppo a parte. Certi alberghi ermafroditi servivano da tramite, da intermediari. In uno di essi (che si era chiamato Hôtel di Sedan dal 1870 al 1918, e che prese dopo l’armistizio il nome di Hôtel della Marna, senza del resto cambiare proprietario), Louis Gaillard andava a villeggiare, durante i tre mesi di vacanza che l’università accorda ai suoi professori. Arrivò, caricato di una valigia, vestito con l’indispensabile gabardine e l’aria imbronciata che è il suo correlativo abituale. Aveva caldo e sete, aveva litigato, senza averla vinta, col conducente della corriera; e il disgusto, la nausea di fine viaggio che rivolta i nostri poveri corpicini sedentari, pesavano su di lui. Era un mediocre, smarrito dalle cattive compagnie: come è dannoso per un giovane povero vivere nella scia di ragazzi ricchi, così può nuocere il commercio di persone più intelligenti di sé”.

Inizia in questo modo il breve, asciutto e intenso racconto che nel 1922, presumibilmente d’autunno, scrive, con voce adulta e sicura (anche se il timbro appare, soprattutto nelle prime righe, molto più lirico di quello a cui di norma si è abituati, e con uno stile davvero personale e ironico, nonché particolarmente ricco di colti riferimenti letterari, spesso tutt’altro che ostentati) un ragazzo, già diplomato, e iscritto in una classe letteraria di preparazione al concorso della Scuola Normale Superiore, ma di soli diciassette anni d’età: quel ragazzo è Jean-Paul Sartre. Questa è la sua prima pubblicazione.

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Freud, Psicopatologia della vita quotidiana. Una recensione di G. Ottaviani

Sigmund Freud fotografato con la madre

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Perché un testo ha successo? Spesso perché il lettore si riconosce in quello che viene raccontato, identifica situazioni, si immedesima nei personaggi, come se i sentimenti descritti fossero davvero i suoi, come se anche a lui realmente fosse capitato di provarli. Una storia diventa di successo quando a ognuno dei tanti che la leggono sembra la propria, la sua storia, o almeno una delle varie storie che gli sono occorse da quando ha memoria. La lettura di “Psicopatologia della vita quotidiana”, anche grazie alla vivace scrittura del padre della psicoanalisi (oramai questo è l’epiteto per eccellenza di Freud, come “piè veloce” per Achille), è una rara soddisfazione, perché svela un livello più intimo di comprensione di avvenimenti che a tutti – anche a Freud – sono capitati, di cui tutti  percepiamo, più o meno, l’importanza, non capendo bene però il perché. Come ha scritto l’autorevolissimo Umberto Galimberti, “ci racconta che la nostra vita non ha solo il senso che noi le riconosciamo con la nostra ragione. Ci racconta che il nostro io non è padrone in casa propria, che la casa di psiche ha molti abitanti, spesso tra loro litigiosi. Ci racconta che nelle cantine della nostra anima si agitano demoni e dèi, di cui abbiamo dimenticato il nome da quando […] abbiamo chiamato il potere, l’amore, l’aggressività, l’odio, “istanze psichiche” non sempre manifestabili nella vita sociale, ma vive e animate nel sottofondo della nostra anima, che talvolta riescono a manifestarsi a noi e agli altri suscitando, dopo un po’ di disagio, l’ilarità che sempre accompagna un’insincerità smascherata”. Addirittura Galimberti arriva poi a dire che questo è un libro “cattivo” di Freud, perché “non ci lascia nell’innocenza della distrazione, della dimenticanza, della sbadataggine, della stanchezza, dello stress, e perciò dà ragione alla donna innamorata che, anche se non sa nulla di psicoanalisi, sospetta, nella dimenticanza di un appuntamento, che l’amato forse non la ama più”.
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Arthur Nock, La conversione. Società e religione nel mondo antico. Una recensione

Michelangelo, Conversione di san Paolo (1543 circa)

Il primo, a nostra conoscenza, che abbia orientato la filosofia lungo le strade dell’azione pratica ed abbia raggruppato attorno a sé dei discepoli per trascinarli ad una vita austera, è Pitagora di Samo” (Gustave Bardy)

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Il titolo che Nock dà al suo libro rivela non tanto un argomento psicologico quanto storico. Infatti il fenomeno psicosociale della “conversione”, sia ad una filosofia greca che ad una religione (Nock accomuna e cerca di distinguere le due cose nel capitolo XI del libro), diventa per lui un fatto storico, a motivo del quale si è avuta una vera e propria trasformazione della vita spirituale  all’interno del mondo antico ed ellenistico. Afferma: “Se risolvere il mistero di una conversione individuale spetta in ultima analisi allo psicologo, comprendere invece il fenomeno singolare della conversione di un’epoca, della trasformazione di una cultura, è il compito più arduo ed insieme più affascinante che possa toccare allo storico – quando egli è veramente degno di questo appellativo.” L’autore conduce questo studio avvalendosi di più discipline, come la sociologia, la storiografia e la filologia, tutte quelle che concorrono a dare della società e della religione nel mondo antico informazioni più precise e dettagliate. Nel libro s’incontrano anche discipline quali la storia delle religioni classiche e storia del cristianesimo delle origini, la storia della cultura e della società ellenistico-romana e la storia della religiosità e dei culti orientali: vasti ed autonomi campi di ricerca, che tuttavia si fondono in una visione unitaria e coerente dello svolgimento spirituale del mondo antico. Nock eredita la grande tradizione di ricerca risalente a Droysen, ma ha anche presenti i filoni di studi inaugurati da Franz Cumont e di Adolph von Harnack per questa sua peculiarità interdisciplinare. Trattando il periodo storico che va da Alessandro Magno fino ad Agostino, affronta un’epoca cruciale in cui ci fu un vero e proprio incontro tra paganesimo e cristianesimo, nonché la penetrazione in Occidente di una mentalità più mistica e perennemente alla ricerca della “salvezza”; si propone perciò di guardare il processo dall’altro punto di vista, da quello dei convertiti; per usare le sue stesse parole: “Quando il cristianesimo apparve nell’impero romano, attrasse molte persone che conservavano l’atteggiamento tradizionale nei confronti dei fattori ignoti ed invisibili dell’esistenza. Questo processo di attrazione è stato per lo più studiato dal punto di vista cristiano. In questo libro ho invece cercato di considerarlo dall’esterno”. Il punto di vista tradizionale ha infatti relegato l’intera società pagana con le sue forme e i suoi miti a semplice elemento secondario. Nock si propone di fare il contrario: la promessa di perdono dei peccati, colpe ed errori, e di rinascita spirituale, la ricerca della verità e salvezza è un punto centrale di tutte le religioni diffusesi nel periodo ellenistico (“pagane” e non), ma che avvicina la conversione religiosa alla conversione filosofica, un problema significativo affrontato all’interno del libro che ci riporta alla filosofia come stile di vita e come disciplina, un “abbraccio totale” che non coinvolge solo l’intelletto, ma la volontà e i sentimenti.

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Contro l’homo academicus. Il corpo vorace delle logiche accademiche

“Il capitale universitario si ottiene e si conserva attraverso l’occupazione di posizioni che permettono di dominare le altre posizioni e i loro occupanti; ad esempio, le istituzioni responsabili del controllo all’accesso al corpo, le giurie dei concorsi dell'”Ecole normale” e del dottorato, e il  Comitato consultivo delle università: questo potere sulle istanze di riproduzione del corpo universitario assicura ai suoi detentori un’autorità statuaria, una sorta di attributo di funzione che è molto più legato alla posizione gerarchica che a delle proprietà straordinarie dell’opera o della persona e che si esercita a rotazione rapida non solamente sul ​​pubblico degli studenti, ma anche sulla clientela dei candidati al dottorato, all’interno del quale si reclutano di regola gli assistenti e che è situata in una relazione di dipendenza diffusa e prolungata” (Jean-Pierre Bourdieu, Homo academicus)

L’università ha bisogno di studenti soltanto per il suo auto-sostentamento, come corpo, nella sua autoreferenzialità.

di Jacopo-Niccolò Bonato

 L’università come istituzione nasce in Europa attorno l’undicesimo ed il dodicesimo secolo. La più antica università europea è l’ateneo bolognese, fondato attorno al 1088. Lo scopo iniziale delle università era quello di rendere libero ed indipendente il sapere, disponibile per tutti coloro che avessero voluto e potuto studiare. Le università nacquero con l’intento di unire studenti e docenti in una istituzione e corporazione autonoma in grado di autoregolamentarsi, staccandosi dalla logica e dalla politica delle scuole monastiche e vescovili, troppo legate ad esigenze dogmatiche religiose. Spesso erano gli stessi studenti ad assumere e remunerare gli insegnanti ed eventualmente a cacciarli nel caso di incompetenza.

La situazione odierna è molto diversa. Si pensa che l’università sia composta da facoltà, consigli, assemblee, dalle figure istituzionali, cioè dai i suoi vari organi costitutivi. Proprio per quel che significa la parola “organo” in italiano, si pensa che l’università, come un corpo, sia fatta in senso stretto da organi. “Togli gli organi e toglierai quel corpo che è l’università!”. Nulla di più erroneo. La linfa dell’università sono i soli studenti, infatti, se si tolgono quelli la stessa università non avrà più alcuna funzione: le aule saranno deserte, i professori non insegneranno più nulla a nessuno, non avranno più studenti e di conseguenza non saranno nemmeno professori. Gli stessi “organi” non avrebbero più alcun senso, non funzionerebbero più: perché deliberare programmi didattici e quant’altro se non c’è più alcuno studente infatti? La metafora del corpo è essenzialmente sbagliata. L’assolutizzazione dell’organo, nella metafora della corporeità, svuota l’università, cioè la distrugge, anche laddove l’università fosse effettivamente un corpo composto di organi. Colmare l’università di organi, svuota e distrugge la stessa università come corpo. La metafora del corpo si dimostra così contro se stessa, contro la stessa corporeità. L’esaltazione della corporeità è contro la corporeità. Perché esaltare il corpo, se non per l’oscuro motivo che si cova qualcosa contro di esso? Modo di sublimazione e nascondimento. Il corpo distrugge il corpo.

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“In Time” e la filosofia. Una recensione del film

Torna il registra dell’incubo eugenetico Gattaca, nonché sceneggiatore di The Truman Show.

In Time di Andrew Niccol è sicuramente un film complesso e accattivante, un obiettivo diretto su una concezione sociologica del vivere, quanto mai attuale e pertinente. La società in oggetto fa parte di un futuro non troppo lontano da noi, da un punto di vista antropologico; in essa il denaro come valore assoluto ha terminato la sua egemonia in virtù del tempo, unico e inestimabile bene di cui gli esseri umani possono disporre. Valori neoliberali estremizzati all’ennesima potenza: Il tempo è denaro? Molto di più, in In Time il tempo è vita. La storia si snoda tra le vite di Will Salas ( Justine Timberlake ) e Sylvia Weis ( Amanda Seyfried ); il primo è cresciuto in uno dei quartieri più poveri del paese, tra mille problematiche e soprattutto con mai più di 24 ore di vita a disposizione; lei è l’esatto opposto, vive nel miglior distretto, New Greenwich, figlia di una ricchissima famiglia, ha tanto di quel vivere disponibile che non sa cosa farsene. Possedere denaro è perciò tutto: il denaro compra il “tempo”, che non è nient’altro che lavoro e vita altrui. Il denaro “libera” il tempo (quello della propria vita). La fantascienza di Andrew Niccol non sembra poi tanto dissimile dalla realtà…

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Pierre Hadot, Ricordati di vivere. Una recensione

Epitaffio di Sicilo (II secolo aC), il più antico documento musicale greco. Così recita: «Finché vivi, splendi, non affliggerti per nulla: la vita è breve e il Tempo esige il suo tributo»

Se ordini il libro tramite il nostro link, hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali (Scienza e idee)

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a cura di Alessandro Stella

Non è possibile aprire un libro di Pierre Hadot senza provare una profonda ammirazione per questo autore, la cui più autentica erudizione è legata indissolubilmente  alla estrema semplicità di parola. Semplicità di parola, certo, ma anche e soprattutto parole semplici. La sua parola ha il senso della bellezza proprio perché evita inutili “filosofemi”, proprio perché è una parola che ha il peso, e la leggerezza, di una vita intera dedicata alla filosofia. La filosofia di Hadot, però, non è quella che l’accademia moderna può suggerire, e cioè un’attività il cui scopo è la costruzione di un sistema concettuale. Anche se la teoria è sempre stata al centro della filosofia, essa fungeva da giustificazione di un modello di vita, di una disciplina: era inseparabile da uno stile di vita. Poco prima di morire, Hadot ha ribadito un concetto espresso in tutta  la sua produzione letteraria e in tutta la sua vita:  <<Nei tempi antichi, ad esempio in Epitteto, Plutarco, o in Platone, vi è una critica feroce di chi vuole solo “professori” che vogliono brillare con le loro argomentazioni e il loro stile e che sono quindi distinti da coloro che vivono la loro filosofia. Questo stesso contrasto si perpetua nella filosofia moderna. Kant oppone alla filosofia “scolastica” la “filosofia del mondo” che interessa ognuno di noi. Schopenhauer deride la filosofia accademica, che descrive come “scherma di fronte a uno specchio”. Thoreau dichiara: “Ai nostri giorni, ci sono professori di filosofia, ma non filosofi”, e Nietzsche scrive: “abbiamo appreso il minimo delle cose che gli antichi insegnavano alla loro gioventù? Abbiamo imparato il minimo tratto di ascetismo pratico di tutti i filosofi greci?” Bergson e gli esistenzialisti difendono lo stesso concetto, quello di una filosofia che non è una impalcatura di concetti, ma un impegno “di” e nell’esistenza” (1). In questo suo ultimo libro, il cui sottotitolo è Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, l’autore ricorda quel che ha continuato a sviluppare nel corso dei suoi lavori. Le antiche scuole filosofiche hanno sviluppato dei “corpus” di esercizi spirituali, intendendo con ciò “atti dell’intelletto, o immaginazione, o della volontà, caratterizzati dalla loro finalità: tramite loro, l’individuo cerca di cambiare il suo modo di vedere il mondo, al fine di trasformarsi. Non si tratta d’informarsi, ma di formarsi”. In questo lavoro, tramite Goethe, Hadot ci ricorda la filosofia come memento vivere, rielaborando e sfruttando tutta la tradizione greca e lo stesso memento mori.

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Adorno, Minima Moralia. Una recensione di Gabriele Ottaviani

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (Einaudi tascabili. Saggi)

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Meditazioni della vita offesa”: il sottotitolo già dice tutto. Centocinquantatre aforismi (per quanto decisamente meno sintetici di quanto si sia portati a considerarli avendo una conoscenza generica di quelli più consueti, che arrivano quasi a essere solo brevi sentenze, motti, detti proverbiali), non uno di più, non uno di meno, scritti tra il 1944 e il 1947 ed editi per la prima volta nel 1951, che in apparenza possono sembrare quasi un puro e semplice esercizio di stile, un’esclusiva e disincantata divagazione pressoché senza meta;  in realtà costituiscono i fotogrammi della pellicola del film, girato da Adorno  (1903-1969) in vesti forse più di operatore che non di regista o sceneggiatore, dell’uomo occidentale, che si muove lungo un orizzonte che interessa l’ambito sociale, quello culturale, la dimensione politica, e a cui il filosofo, sociologo e musicologo che abbandonò per gli Stati Uniti la sua terra natia, la Germania (quando questa si vide invasa dall’orrore del Nazismo) non rinuncia mai di concedere la possibilità del riscatto.

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Marcuse, L’uomo a una dimensione. Una recensione di Stefano Lechiara

Un fotogramma di Metropolis (1927), di Fritz Lang

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): L’uomo a una dimensione (Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie)

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Antesignano di idee rivoluzionarie, “Maestro della nuova sinistra”, “apologeta del Dio Marx” ed oracolo di una società costruita ex novo sul presupposto di una liberazione totale dell’umanità, oppure marxista eretico” e visionario, nonché “irrazionalista di sinistra” e precursore di ideologia oscurantista? La vasta produzione di Herbert Marcuse, poliedrica figura di intellettuale germano-statunitense ed eminente rappresentante della Scuola di Francoforte, risulta aliena da un’interpretazione sostanzialmente condivisa in senso plurilaterale. Parimenti la sua vita, ricca di avvenimenti biobibliograficamente significativi, pare dividere gli studiosi. Essa ha suscitato la disapprovazione da parte di coloro che si presero la briga di evidenziarne la relazione (apparentemente antinomica) con la sua opera scritta (vedi la “Pravda”, organo di stampa dell’URSS) sì da giungere ad un’alacre condanna che ha il sapore di una scomunica. Nondimeno Marcuse, nell’ambito del ribellismo sessantottino che infuriava su scala globale, riscosse un successo e un’approvazione che sfiorarono la mitizzazione fanatica. In tal periodo difatti, si era quasi dappertutto gridato nei cortei e scritto sui muri: “Mao, Marx, Marcuse”. La prerogativa di Herbert Marcuse (che contraddistingue i più grandi) è quella di dividere così come inaugurare prospettive innovative e comprensibili, con ogni probabilità, in epoche piuttosto lontane. Il filosofo sembra quindi interessare non soltanto come interprete di fenomeni sociali ma, in primis, in quanto esso stesso fenomeno sociale da interpretare. Il pomo della discordia è costituito dalla sua opera più celebre “L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata” (1964), edita a Boston nel momento in cui egli era poco più che un professore settuagenario e conosciuto per lo più negli Stati Uniti (ove si era stanziato negli anni della seconda guerra mondiale a causa della persecuzione nazista imperversante nella sua Germania).

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Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione. Una recensione di Kinglizard

Gilles Deleuze

“In questo libro mi  sembrava che non si potesse giungere alle potenze della differenza e della ripetizione senza mettere in questione l’immagine che ci si faceva del pensiero. Voglio dire che noi non pensiamo soltanto secondo un metodo, mentre c’è un’immagine del pensiero, più o meno implicita, tacita e presupposta, che determina i nostri scopi e i nostri mezzi quando ci sforziamo di pensare. Per esempio, presupponiamo che il pensiero abbia una natura buona, e che il pensatore abbia una buona volontà (volere “naturalmente” il vero); ci diamo come modello il riconoscimento, vale a dire il senso comune, l’uso di tutte le facoltà intorno a un oggetto che  supponiamo uguale a se stesso; designiamo il nemico da combattere: l’errore, nient’altro che l’errore; e presumiamo che il vero riguardi le soluzioni, cioè proposizioni in grado di servire da risposta. È questa l’immagine classica del pensiero, e finché non abbiamo portato la critica al cuore di questa immagine, è difficile condurre il pensiero fino a problemi che debordano il modo proposizionale, fargli effettuare degli incontri che si sottraggono ad ogni riconoscimento, fargli affrontare i suoi veri nemici, che sono ben altri che l’errore, e giungere a ciò che costringe a pensare, o che strappa il pensiero al suo torpore naturale, alla sua notoria cattiva volontà”. (Prefazione all’edizione statunitense di “Differenza e Ripetizione”)

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La spontaneità con cui pensiamo non deve far credere che siamo davvero capaci di pensare. Le regole del logos, per quanto possano apparire rigorose, ancora non ci illuminano su cosa il Pensiero sia, ancora non ci indicano il suo modo di procedere. Pensare, anzi, è un’operazione estrema, che sfinisce e disorienta chi lo pratica, in un gioco che sancisce inesorabilmente la dissoluzione del soggetto-pensatore per far vincere, ritornare, ripetere la sola “cosa” che davvero sa giocare, il Pensiero stesso, incarnazione e specchio di un’Idea sempre differita e mai piegata ai principi della rappresentazione concettuale. Questo l’insegnamento di Differenza e Ripetizione; questa la sfida di Deleuze. Tracciando una linea di critica radicale che percorre trasversalmente tutta la storia della filosofia, il testo di Deleuze è il perfetto esempio dell’opera teoretica, la cui intenzione prima è quella di mettere alla prova il fondamento su cui il pensiero filosofico ha voluto costruire di volta in volta i suoi mondi. Fondamento che però, seguendo le argomentazioni di Deleuze, appare immotivato, dogmatico, irriflesso; fondamento che perciò non tiene, anzi sprofonda in un senza-fondo sul quale qualsiasi opera di fondazione che vuole seguire i principi della ragione sufficiente risulta impossibile.

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