Sigmund Freud, Psicologia della vita amorosa. Una recensione di Maria Chiara Pierbattista

Haynes King, Jealousy and Flirtation (1874)

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Nel 1912 Freud affermava: “Non possiamo sottrarci alla conclusione che oggi il comportamento amoroso dell’uomo, del nostro mondo civile, è improntato a impotenza psichica. Solo in una minoranza delle persone colte la corrente di tenerezza e quella sensuale si armonizzano reciprocamente; quasi sempre, nella attività sessuale, l’uomo si sente limitato dal rispetto per la donna e sviluppa la sua piena potenza solo quando ha dinanzi a sé un oggetto sessuale degradato.” Hanno un secolo i paradigmi freudiani sull’eros e se si volesse dare un lettura in chiave moderna lo si potrebbe fare solo constatando la maggiore propensione di oggi a mostrare ed enfatizzare la sessualità,  la parte puramente estetica e non psichica, s’intende. I contributi alla psicologia amorosa di Freud rappresentano, per esperti in materia e non, un’analisi precisa e profonda dei meccanismi mentali che influenzano le pratiche amorose. Interessante è il modo in cui i contributi ci portano a riflettere, ad esempio, sulle modalità di scelta del proprio oggetto del desiderio, apparentemente casuali, influenzate sempre da fattori riconoscibili quali “il terzo danneggiato”(un rivale o comunque una figura del suo stesso sesso che in qualche modo sia legata alla donna bramata) e “la dubbia moralità”della donna stessa. Sono dispositivi che si innescano nella psiche di ognuno ogni volta che ci si approccia ad una relazione. Se volessimo ridurre questi teoremi ad un concetto più spicciolo e riscontrabile nel quotidiano però, non è infondo più stimolante possedere qualcuno/qualcosa dopo averlo bramato ardentemente ed aver superato qualche ostacolo? L’eccessiva sicurezza non finisce per assopire i rapporti nella loro ripetitiva e noiosa normalità?
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Recensione a Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, a cura di Matteo Giangrande

Eraclito l' "oscuro" (Skoteinòs), in un dipinto di Hendrick ter Brugghen, 1628

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Il fulmine governa ogni cosa (fr. 64)

Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno (fr. 50)

Le cose della più grande importanza non dobbiamo giudicarle a caso” è il motto proposto da Heidegger per il seminario su Eraclito, condotto insieme all’allievo e amico Fink, la cui trascrizione costituisce il testo, edito da Laterza all’interno della collana “I libri dell’Ascolto” diretta da Vittorio Tamaro, che qui viene recensito. Il tentativo del seminario è quello di spingersi fino alla «cosa stessa del pensiero», oscura nella sua modalità d’essere e d’accesso, che stava dinanzi allo sguardo spirituale di Eraclito, pensatore storicamente imponente, che, nonostante dimori all’origine dell’Occidente, non è stato nella storia del pensiero mai raggiunto. Il seminario è una “pratica del pensare”, ovvero è un meditare pensieri pre-meditati da Eraclito, è uno sforzo di «interpretazione speculativa» della lingua di Eraclito, che possiede un’intima polivocità e multidimensionalità e che non conosce per nulla la differenza tra pensiero interiore e dire esteriore: interpretazione – “non più” in maniera metafisica di un testo che “non è ancora” metafisico – che prende le mosse dal contenuto espresso in modo immediato ed ingenuo e, nel corso del pensare-attraverso, perviene a un dire che non si lascia riempire da un’intuizione immediata, effettuando la transizione, indirizzata in modo selettivo dal percorso dell’interpretazione stessa, da un enunciato conforme alla percezione ad un enunciato non sensibile (ma non sovrasensibile). La proposta di Fink di un possibile “ordinamento speculativo” ha la sua ragion d’essere nell’esigenza di trovare –  restando all’interno della fondamentale difficoltà del circolo ermeneutico, nella quale ci muoviamo costantemente – un intima connessione di senso attraverso una molteplicità di frammenti. E’ bene dire subito che tutto il seminario gioca intorno ad una questione fondamentale, quella di individuare il significato dell’ap-par-tenenza di en e panta, che, come ci segnala l’eccellente Avvertenza di Adriano Ardovino, si configura come una “distinzione senza separazione”.
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Omer Bartov, Fronte orientale. Una recensione di Matteo Giangrande

Località ucraina di Babi Jar.In soli due giorni vengono uccisi 33.000 ebrei russi, uomini, donne e bambini. E' il cosiddetto "olocausto dei proiettili".

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Raccogliendoci a meditare attentamente sul titolo del libro che qui viene esaminato, proviamo a fare la prima osservazione, che potrebbe instradarci ad una comprensione dello schema concettuale di fondo del discorso dello storico Omer Bartov. The Eastern Front, 1941-45, German Troops and the Barbarisation of Warfare (opera del 2001 e trad. it. del Mulino nel 2003). L’elemento principale che emerge dal titolo non è tanto il riferimento evidente alla zona di combattimento in cui durante la seconda guerra mondiale l’esercito tedesco e quello russo si sono fronteggiati direttamente, quanto piuttosto la relazione che lega le truppe tedesche allo sterminio sistematico del cosiddetto ‘bolscevismo giudaico’ e delle sue basi biologiche: le azioni di sterminio, avvenute subito dietro la linea del fronte, trasformarono l’Operazione ‘Barbarossa’ nella «più terribile guerra di conquista, asservimento e sterminio dei tempi moderni». A far riflettere è l’espressione ‘imbarbarimento della guerra’. Ora, una semplicistica battuta potrebbe liquidare la questione: la guerra è essenzialmente barbara, cioè violenta, sanguinaria, efferata. E tuttavia, questa superba superficialità non coglierebbe il centro del discorso. La lotta tra stati condotta con le armi dagli eserciti, uomini istruiti e equipaggiati per la guerra, potrebbe essere considerata ‘civile’, ma non nel senso di una guerra civile, che riguarda i cittadini all’interno di uno stato, né nel senso che essa viene condotta con cortesia, né ovviamente nel senso che non coinvolge i militari o gli ecclesiastici. Dire che la guerra rientra nella categoria del ‘civile’ è voler dire che anche la guerra è regolata da un insieme di norme, il diritto bellico, che ne disciplinano la condotta, che limitano i mezzi e i metodi di guerra. Che, di fatto, molto spesso il diritto bellico non sia rispettato dagli eserciti è qualcosa di acclamato. Il centro del discorso di Bartov parte, nondimeno, dalla costatazione che la guerra che le truppe tedesche hanno condotto sul fronte orientale era contrassegnata da una ‘caduta’ strutturale del livello di ‘civiltà’ all’interno del diritto di guerra: come vedremo, i soldati non riuscirono più a vedere il limite tra la fucilazione giustificata dall’autorità e le cosiddette fucilazioni ‘selvagge’.

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La filosofia di Taxi Driver

Martin Scorsese incontra Jan Paul Sartre  (a cura di Asaxelar)

“Che cosa c’è da temere da un mondo così regolare?”.

“Ho paura di quello che sta per nascere, che sta per impadronirsi di me… e trascinarmi, dove?”

 Nelle citazioni di apertura, tratte dal libro La Nausea (1938) di  Jean-Paul Sartre, ci vengono posti due quesiti che potrebbero essere l’uno la risposta dell’altro: ciò che dovrei temere da un mondo così regolare (la nostra società) sono quelle paure che nascono nei suoi abitanti, si impadroniscono di loro e li guidano verso reazioni imprevedibili. Tali reazioni invece di essere studiate, al fine di comprendere ciò che le ha scatenate e quindi provvedere a prevenire tali comportamenti, vengono metabolizzate e trasformate in spettacolo; occultando le motivazioni che le hanno provocate. E’ sufficiente osservare il ruolo dei media: essi ci forniscono una serie di notizie superficiali che si fa fatica a considerare informazioni; più legate all’area dello show business che a quella del giornalismo. Per questo motivo possiamo considerarci più confusi che informati. Tale disordine ci porta a vivere in una realtà allucinata, completamente diversa da quella che viene pubblicizzata tramite le immagini e i messaggi che quotidianamente ci vengono inviati. Ci troviamo perciò a vivere in una società che, pur mostrandosi splendida e perfetta, nel suo interno sta marcendo. In breve, questo è quanto ci mostra Martin Scorsese in Taxi Driver (Taxi Driver, 1976).

 La rovente estate newyorchese del 1975 fa da sfondo naturale a Travis Bickle (Robert De Niro), un marines reduce dal servizio militare in Vietnam, che si fa assumere come tassista notturno al Manhattan Cab Garage. Egli soffre di insonnia e il suo senso di vuoto e di solitudine lo portano ad annullare i giorni tra cinema a luci rosse e viaggi a vuoto per la città. Travis si invaghisce di Betsy (Cybill Shepherd), una ragazza intravista nella folla, sostenitrice del senatore Charles Palantine (Leonard Harris); ma, a causa di uno sfortunato appuntamento, lei lo respinge. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso e il tassista si trasforma in un angelo vendicatore che individua nel senatore Palantine la causa di tutti i mali della società. Fallito il tentativo di ucciderlo, Travis sfoga la sua rabbia su Sport (Harvey Keitel), protettore della prostituta minorenne Iris (Jodie Foster), conosciuta casualmente durante un turno di lavoro. Liberandola dal giogo del delinquente, il tassista si trasforma in un eroe per caso e sparisce nelle maglie della società che ora lo riconosce parte di sé.

 Scorsese ci trasporta in una realtà popolata da quelli che Sartre definisce “porcaccioni“. Anche il protagonista de La Nausea, Antonio Roquentin, alla stregua di Travis, è un personaggio solitario. Anche lui ha vissuto particolari esperienze fuori dal suo paese e si ritrova nella condizione di reintegrarsi in una società che non gli appartiene più. Anche Antonio è un “reduce”; non di una guerra combattuta ma di una società che darà vita ad una guerra enorme che scoppierà di lì a pochi anni: la seconda guerra mondiale. Tuttavia vi è una differenza sostanziale tra le due opere, che va riscontrata nelle dinamiche creative che hanno dato vita a Taxi Driver. In quest’ultimo si trovano sviluppate tre poetiche fondamentali: quella della Violenza, della Nostalgia e dell’Iper-realismo. In questo contesto tralasceremo volontariamente l’ultima (legata soprattutto allo stile visivo del film e quindi da contestualizzare anche nel periodo storico in cui questo è stato realizzato) e ci soffermeremo sulle altre due.

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Il cervello della cappella Sistina. Michelangelo fra neoplatonismo e… neuroanatomia

Fece per la chiesa di Santo Spirito della città di Firenze un Crocifisso di legno, che si pose ed è sopra il mezzo tondo dello altare maggiore a compiacenza del priore, il quale gli diede comodità di stanze; dove molte volte scorticando corpi morti, per istudiare le cose di notomia, cominciò a dare perfezione al gran disegno ch’egli ebbe poi“. (Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo)

Forse il primo uomo (documentabile) ad avanzare l’ipotesi dell’anatomia del cervello celata nel dipinto di Michelangelo è stato qualche anno fa un medico americano,  Frank Meshberger, notando che le figure dietro Dio e il mantello formano una figura pienamente corrispondente alla sezione sagittale della corteccia cerebrale. E Michelangelo, nel Rinascimento, non era l’unico a studiare l’anatomia dai cadaveri ed a riportarla fedelmente nelle sue opere. Inoltre, al tempo di Michelangelo, gli anatomisti credevano che il prezioso ben dell’intelletto, dono di Dio, avesse la sua sede nel cervello. In base a questa ipotesi, nell’affresco tradizionalmente chiamato “Creazione di Adamo” (qui il link per vedere la Cappella Sistina in 3d), potrebbe essere simboleggiato un messaggio molto particolare.

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