Perché la guerra? Carteggio Einstein-Freud. Una recensione

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La reazione di Sigmund Freud di fronte agli avvenimenti della Prima guerra mondiale è quella di un uomo in cui l’iniziale slancio patriottico, avvertito allo scoppio del conflitto, lascia spazio ad un profondo senso di smarrimento di cui il saggio Perché la guerra? costituisce una chiara testimonianza. Del resto, la drammaticità degli eventi – sostiene lo studioso austriaco – costringe tutti gli individui a fare i conti con la perdita di (apparentemente) solidi punti di riferimento, e la gravità di tale perdita è tanto maggiore quanto più elevato è il (presunto) livello di civiltà dei popoli coinvolti. La guerra, però, non ha stravolto soltanto la vita degli uomini: persino il tradizionale modo di concepire la morte è stato investito dal cambiamento; Freud nota che, sebbene l’inconscio spinga da sempre il singolo ad allontanarne il pensiero e a rifiutarne l’indissolubile legame con la realtà, è chiaro che “la morte non può più oggi essere negata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno”.

La riflessione freudiana assume però maggior rilievo nel momento in cui ad essere presa in esame è l’origine del sentimento di delusione provocato dagli avvenimenti bellici, capaci di distruggere barriere, relazioni etiche e legami di comunità costruiti, talvolta anche faticosamente, in tempo di pace. La psicoanalisi viene in aiuto, suggerendo un’immagine che vede la natura umana costituita, nella sua essenza, da elementari moti pulsionali che vengono poi giudicati in modo positivo o negativo a seconda dei bisogni e delle caratteristiche della società civile. A queste stesse pulsioni – si legge nello scritto in esame – è riconducibile la tendenza a esprimere valutazioni positive sugli uomini, considerandoli migliori di quanto siano effettivamente. Ma non è tutto. Freud, infatti, si affida sì agli strumenti che offre la psicoanalisi per cercare una chiave di lettura della tragedia del suo tempo, ma lo fa a partire da una consapevolezza che è umana prima ancora di essere psicoanalitica: lo sconvolgimento e la delusione generati dal conflitto mondiale si spiegano cioè riconoscendo che, in realtà, “i nostri concittadini del mondo non sono per nulla caduti tanto in basso quanto supponiamo, e ciò per il semplice fatto che non si trovavano prima alle altezze che avevamo immaginato“.

La questione si rivela allora in tutta la sua complessità, perché evidenzia non tanto le conseguenze, certamente disastrose, della guerra, quanto la fragilità delle basi su cui si fondano le comunità umane. Freud esprime in modo chiaro il proprio punto di vista a riguardo: “I moti pulsionali di un altro individuo si sottraggono naturalmente alla nostra osservazione diretta […] le stesse azioni «buone» dal punto di vista della civiltà, possono talora provenire da motivi «nobili» e talora no […] Ma la società, che è dominata da considerazioni pratiche, non si cura per nulla di una distinzione simile, si accontenta del fatto che un uomo impronti il proprio comportamento e le proprie azioni a precetti di civiltà, preoccupandosi ben poco dei motivi”.

La consapevolezza relativa alla fragilità delle basi della società caratterizza anche lo scambio epistolare con Albert Einstein. Il carteggio tra i due fu il risultato di un invito, promosso nel 1931 dall’Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale per stimolare un dibattito tra gli intellettuali del periodo su questioni di particolare rilevanza. Il fisico, che si rivolge a Freud chiedendo se esista un modo per evitare la guerra, è convinto che l’unica soluzione sia che gli stati si affidino ad un’autorità a loro superiore. Non esiste alternativa, considerato che l’uomo è intrinsecamente malvagio: “Ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva”.

Diversa è, invece, la posizione che esprime Freud nella lettera di risposta. A suo avviso, costituire un organismo sovrannazionale può difficilmente rappresentare un rimedio efficace, tanto meno definitivo, poiché, a ben vedere, si fonda sull’illusione che sia possibile sostituire la forza reale, su cui si base in genere l’autorità, con la forza dei principi ideali. La conclusione è duplice. Si tratta cioè, da un lato, di condannare la guerra e, dall’altro, di sperare in un perfezionamento civile e intellettuale dell’umanità: “Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra”.

ELISA RADAELLI

 

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