Omer Bartov, Fronte orientale. Una recensione di Matteo Giangrande

Località ucraina di Babi Jar.In soli due giorni vengono uccisi 33.000 ebrei russi, uomini, donne e bambini. E' il cosiddetto "olocausto dei proiettili".

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Raccogliendoci a meditare attentamente sul titolo del libro che qui viene esaminato, proviamo a fare la prima osservazione, che potrebbe instradarci ad una comprensione dello schema concettuale di fondo del discorso dello storico Omer Bartov. The Eastern Front, 1941-45, German Troops and the Barbarisation of Warfare (opera del 2001 e trad. it. del Mulino nel 2003). L’elemento principale che emerge dal titolo non è tanto il riferimento evidente alla zona di combattimento in cui durante la seconda guerra mondiale l’esercito tedesco e quello russo si sono fronteggiati direttamente, quanto piuttosto la relazione che lega le truppe tedesche allo sterminio sistematico del cosiddetto ‘bolscevismo giudaico’ e delle sue basi biologiche: le azioni di sterminio, avvenute subito dietro la linea del fronte, trasformarono l’Operazione ‘Barbarossa’ nella «più terribile guerra di conquista, asservimento e sterminio dei tempi moderni». A far riflettere è l’espressione ‘imbarbarimento della guerra’. Ora, una semplicistica battuta potrebbe liquidare la questione: la guerra è essenzialmente barbara, cioè violenta, sanguinaria, efferata. E tuttavia, questa superba superficialità non coglierebbe il centro del discorso. La lotta tra stati condotta con le armi dagli eserciti, uomini istruiti e equipaggiati per la guerra, potrebbe essere considerata ‘civile’, ma non nel senso di una guerra civile, che riguarda i cittadini all’interno di uno stato, né nel senso che essa viene condotta con cortesia, né ovviamente nel senso che non coinvolge i militari o gli ecclesiastici. Dire che la guerra rientra nella categoria del ‘civile’ è voler dire che anche la guerra è regolata da un insieme di norme, il diritto bellico, che ne disciplinano la condotta, che limitano i mezzi e i metodi di guerra. Che, di fatto, molto spesso il diritto bellico non sia rispettato dagli eserciti è qualcosa di acclamato. Il centro del discorso di Bartov parte, nondimeno, dalla costatazione che la guerra che le truppe tedesche hanno condotto sul fronte orientale era contrassegnata da una ‘caduta’ strutturale del livello di ‘civiltà’ all’interno del diritto di guerra: come vedremo, i soldati non riuscirono più a vedere il limite tra la fucilazione giustificata dall’autorità e le cosiddette fucilazioni ‘selvagge’.

Detto questo, Bartov, che si sforza di pervenire ad una visione ‘dal basso’, analizzando non le alte sfere della gerarchia militare, ma le divisioni impegnate nei loro ‘compiti professionali’ e il comportamento e il ruolo degli ufficiali subalterni in queste, tenta di rintracciarne i motivi: l’ipotesi di fondo del libro è che «l’imbarbarimento delle truppe sul fronte orientale è il risultato di tre fattori principali: le condizioni di vita al fronte; il retroterra sociale ed educativo degli ufficiali subalterni; l’indottrinamento politico delle truppe». Primo fattore: durante la campagna in Unione Sovietica le sofferenze dei soldati sopravvissuti ai combattimenti si intensificarono anche a causa, sin dai primi mesi, di una persistente presenza insufficiente di uomini, dovuta all’alto numero di uomini morti in battaglia, pari a tre volte l’ammontare iniziale dei ranghi per quanto riguarda la truppa e a quattro volte per quanto riguarda gli ufficiali. Inoltre, la caratteristica principale della vita al fronte erano le privazioni fisiche dovute alle grandi distanze che le truppe dovettero coprire nei mesi iniziali della guerra e durante le lunghe ritirate degli anni seguenti, alla scarsità di uomini che costringeva i soldati ad un cronico debito di riposo e di sonno, alle condizioni spaventose degli alloggi, al clima rigido, alla mancanza di abbigliamento invernale adeguato, alle frequenti interruzioni nei rifornimenti che portarono ad un grave peggioramento della salute e delle condizioni psicologiche delle truppe. Uno dei punti fermi dell’esercito è costituito dall’ubbidienza alle regole di condotta finalizzate all’educazione militare. Nondimeno, lo stato d’animo delle truppe, peggiorato anche dalla mancanza di licenze e dal crescente senso di isolamento derivante dal vivere in un paese vastissimo, produsse un sempre maggior numero di casi di negligenza durante il servizio di guardia, di automutilazioni e di codardia di fronte a nemico. Ora, mentre gli ufficiali tolleravano che i propri uomini saccheggiassero le popolazioni civili, infliggevano a coloro che si sottraevano ai loro impegni disertando o compiendo atti autolesionistici pene severissime, che venivano eseguite in pubblico come deterrente. La crescente brutalità dei singoli soldati è stata sicuramente incrementata dalle terribili avversità fisiche e psicologiche presenti al fronte. E tuttavia, queste condizioni avrebbero dovuto indebolire la resistenza dei soldati, che invece continuarono a combattere con sempre maggiore violenza e intensità.

Secondo elemento: gli ufficiali non solo guidavano i propri uomini nei combattimenti, ma furono anche responsabili della loro educazione politica. Tra gli ufficiali subalterni, mentre il numero degli aristocratici, meno legati ai nazisti, era basso, un terzo degli uomini aderiva ufficialmente al partito. Durante la guerra entrarono nell’esercito giovani ufficiali dotati di una buona istruzione e provenienti dagli strati superiori del ceto medio, che erano stati fortemente influenzati dal partito, e a cui erano stati inculcati nelle scuole e nelle università i principi del nazionalsocialismo.

Terzo fattore: sebbene le truppe erano dotate di radio riceventi, vedevano film, ricevevano giornali, notiziari, volantini, opuscoli e libri, la forma più efficace di propaganda era basata sul rapporto personale e venne portata avanti dagli ufficiali subalterni, che mettevano in evidenza il carattere ideologico della guerra e che venivano considerati dai propri uomini non solo come capi militari, ma soprattutto come guide ideologiche. «Gli ufficiali superiori al fronte fecero ricorso in misura crescente a termini e concetti nazisti nei propri ordini del giorno alle truppe, sottolineando che la guerra contro l’Unione Sovietica non era un confronto militare come gli altri, ma una lotta ideologica e razziale in cui le leggi di guerra non potevano essere applicate». La metodica educazione ideologica assunse sempre più un marcato orientamento nazista, mescolando i tradizionali temi nazionalistici, tipici della propaganda di guerra, con una ideologia che giustificava la superiorità della razza ariana e che intendeva realizzare questo proposito attraverso politiche persecutorie estreme che sostenevano lo sterminio dei cosiddetti ‘bolscevichi ebraici’. Le idee sostenute con impegno ed energia dai nazisti erano profondamente radicate in concezioni culturali e sociali che risalivano all’età guglielmina, poi mantenute in vita dalla delusione, del senso di inutilità e dalla umiliazione della miseria, causata dalla sconfitta nella prima guerra mondiale, dalle difficoltà economiche delle fasi iniziali della Repubblica e infine dalla depressione economica e dal caos politico dei primi anni Trenta. «In ampi settori della società tedesca era diffuso il desiderio di creare un ‘mito del Fuhrer’ prima ancora che la leadership nazista si accorgesse dell’utilità pratica di un simile concetto».

Per rinsaldare il morale delle truppe i ranghi inferiori della gerarchia militare reclamavano in maniera sempre crescente materiale di propaganda. Gli uomini al fronte desideravano ricevere notizie da casa, e le informazioni fornite erano fortemente orientate secondo la Weltanschauung nazista. «Le truppe avevano estremo bisogno di ‘cura spirituale’ e divennero sempre più dipendenti da ‘credenze’ tutt’altro che razionali o logiche»: quanto più la situazione militare si faceva disperata, tanto più grande diventava il bisogno di questo sostegno ‘spirituale’, pseudo-religioso, irrazionale. Gli uomini ricevevano in forma semplificata, scolastica i fondamenti dell’ideologia razzista e nichilista. La richiesta delle truppe di intensificare l’indottrinamento esprime il bisogno, per soldati coinvolti in una guerra dura e senza speranza, di avere una ‘causa’, un ideale che razionalizzasse quella situazione assurda, che collocasse il sacrificio personale in un contesto in grado di far acquisire dignità, importanza, prestigio. I comandati di compagni concordavano con i propri superiori e con i vertici politici del Reich sul fatto che questo indottrinamento era essenziale per tenere le truppe al fronte e convincerle a continuare a combattere. La maggioranza degli uomini aveva un’assoluta adesione religiosa negli obiettivi ideologici e politici del Fuhrer. L’educazione ideologica rafforzò la determinazione dei soldati al fronte, contribuendo a prevenire arrendevolezza e ripiegamenti fra le truppe schierate ad est e, al tempo stesso, a rendere moralmente legittimo, accrescendolo, l’imbarbarimento della guerra.

In conclusione, cerchiamo di rendere più chiaro il concetto di ‘imbarbarimento della guerra’, che si fonda sul – a dir il vero – sottile crinale tra una politica ‘ufficiale’, da un lato, fatta sì di maltrattamenti, sfruttamento e assassini, ma comunque ‘disciplinata e seguente criteri stabiliti dall’alto’, pur totalmente arbitrari, spietati, folli, e, dall’altro, un comportamento, definito ‘selvaggio’, dei soldati, che attuavano fucilazioni senza rispettare gli ordini delle autorità (i cosiddetti ordini criminali che disponevano che le truppe dovevano collaborare con le SS nell’eliminare tutte le forme di resistenza attiva e passiva prendendo misure collettive contro la popolazione, fucilando commissari politici e agendo senza pietà contro tutti i nemici militari, politici, razziali del Reich), messe in atto senza operare quelle dovute ‘distinzioni’, che erano prodotte dal dispositivo giuridico di esclusione-inclusione della biopolitica nazista. La politica ufficiale prevedeva la fucilazione dei commissari politici, l’eliminazione dei prigionieri di guerra catturati dietro la linea del fronte, scarsissimo supporto per gli altri prigionieri di guerra che morirono subito di stenti. Le unità dovevano ricorrere all’arruolamento di volontari per missioni suicide come la bonifica dei campi minati. Affianco a queste pratiche, legittime, vi era l’atteggiamento ‘selvaggio’ dei soldati, per l’appunto, indisciplinato e indiscriminato verso cui gli ufficiali superiori cercavano di opporsi. Ma erano proprio l’indottrinamento e gli ordini criminali ad incoraggiare alla barbarie, soprattutto verso i civili: i villaggi venivano dati alle fiamme, gli abitanti fucilati, il bestiame massacrato, le riserve di cibo distrutte e i pozzi avvelenati. «Nel tentativo di legittimare ai propri occhi e a quelli dei soldati le atrocità commesse contro i civili indifesi, soprattutto donne e bambini, l’esercito inventò l’esistenza dei cosiddetti ‘agenti’, un eufemismo usato sia per scusare gli atti brutali, sia per prevenire i fenomeni di fraternizzazione fra le truppe e la popolazione. Le truppe interpretarono la linea ufficiale in modo ancora più estensivo rispetto a quanto inteso dai comandi, e si abbandonarono con tale frequenza a fucilazioni indiscriminate di agenti da rendere necessaria l’emanazione di ordini che imponevano la cessazione di queste azioni».

Alle unità tedesche era stato ordinato di trarre i mezzi di sussistenza dalle risorse del territorio causando la morte di milioni di civili per fame, per la mancanza di abiti e alloggi, e lo sfruttamento efferato del loro lavoro sia da parte delle unità al fronte sia da parte delle autorità del Reich. «Lo sfruttamento ‘ufficiale’ fu sempre accompagnato da ‘requisizioni selvagge’ effettuate dalle truppe, che sembrano aver dato scarso peso agli avvertimenti dei propri comandanti contro simili azioni, e si rifiutarono di distinguere fra la visione ufficiale, secondo cui i russi erano Untermenschen, da trattare in qualunque modo fosse vantaggioso per il soldato tedesco, e l’insistenza con cui gli ufficiali affermavano che questo sfruttamento poteva essere attuato solo in modo organizzato e disciplinato, posizione che rispecchiava il timore che i saccheggi indiscriminati portassero a una caduta della disciplina e della morale». L’esercito volle che i civili, sfruttati all’eccesso e sottoalimentati, producessero il cibo necessario e lavorassero per costruire istallazioni militari, fortificazioni, strade. Altri vennero reclutati per servire nell’esercito tedesco come Hiwis, nonostante la loro riluttanza ad aiutare la Wehrmacht a ‘liberarli’. L’operazione ‘terra bruciata’, messa in atto nell’ultimo biennio di guerra, distrusse vaste aree dell’Unione Sovietica, costringendo alla morte milioni di civili, considerati come sottouomini. L’esercito animato dall’ideologia e dalla propaganda del partito nazionalsocialista continuò a combattere quando era chiaro che la sconfitta era certa. La conclusione di Bartov riguarda il rapporto tra ideologia e azione: «ogni volta che le guerre si accompagnavano a qualche forma di ideologia del sottouomo o, in alternativa, di fanatismo religioso, sviluppavano rapidamente tendenze genocide più forti. Sebbene molti conflitti hanno avuto un forte elemento razziale o di fanatismo religioso, non sembra che siano stati condotti con l’unico obiettivo di sterminare popoli interni, come fu invece il caso della ‘guerra di ideologie’ scatenata dai tedeschi nell’Est». Dietro questo libro non vi è solo l’opportunità di conoscere cosa è stato il conflitto sul fronte orientale, ma anche un monito al controllo razionale degli argomenti che, oggi come in passato, vengono proposti dalla propaganda per persuaderci ad aderire in maniera acritica a qualche catechismo ideologico. In altre parole, vi è il pretesto di rispolverare la critica dell’Illuminismo nei confronti dell’entusiasmo inteso come fanatismo irrazionale.

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