Pierre Hadot, Ricordati di vivere. Una recensione

Epitaffio di Sicilo (II secolo aC), il più antico documento musicale greco. Così recita: «Finché vivi, splendi, non affliggerti per nulla: la vita è breve e il Tempo esige il suo tributo»

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a cura di Alessandro Stella

Non è possibile aprire un libro di Pierre Hadot senza provare una profonda ammirazione per questo autore, la cui più autentica erudizione è legata indissolubilmente  alla estrema semplicità di parola. Semplicità di parola, certo, ma anche e soprattutto parole semplici. La sua parola ha il senso della bellezza proprio perché evita inutili “filosofemi”, proprio perché è una parola che ha il peso, e la leggerezza, di una vita intera dedicata alla filosofia. La filosofia di Hadot, però, non è quella che l’accademia moderna può suggerire, e cioè un’attività il cui scopo è la costruzione di un sistema concettuale. Anche se la teoria è sempre stata al centro della filosofia, essa fungeva da giustificazione di un modello di vita, di una disciplina: era inseparabile da uno stile di vita. Poco prima di morire, Hadot ha ribadito un concetto espresso in tutta  la sua produzione letteraria e in tutta la sua vita:  <<Nei tempi antichi, ad esempio in Epitteto, Plutarco, o in Platone, vi è una critica feroce di chi vuole solo “professori” che vogliono brillare con le loro argomentazioni e il loro stile e che sono quindi distinti da coloro che vivono la loro filosofia. Questo stesso contrasto si perpetua nella filosofia moderna. Kant oppone alla filosofia “scolastica” la “filosofia del mondo” che interessa ognuno di noi. Schopenhauer deride la filosofia accademica, che descrive come “scherma di fronte a uno specchio”. Thoreau dichiara: “Ai nostri giorni, ci sono professori di filosofia, ma non filosofi”, e Nietzsche scrive: “abbiamo appreso il minimo delle cose che gli antichi insegnavano alla loro gioventù? Abbiamo imparato il minimo tratto di ascetismo pratico di tutti i filosofi greci?” Bergson e gli esistenzialisti difendono lo stesso concetto, quello di una filosofia che non è una impalcatura di concetti, ma un impegno “di” e nell’esistenza” (1). In questo suo ultimo libro, il cui sottotitolo è Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, l’autore ricorda quel che ha continuato a sviluppare nel corso dei suoi lavori. Le antiche scuole filosofiche hanno sviluppato dei “corpus” di esercizi spirituali, intendendo con ciò “atti dell’intelletto, o immaginazione, o della volontà, caratterizzati dalla loro finalità: tramite loro, l’individuo cerca di cambiare il suo modo di vedere il mondo, al fine di trasformarsi. Non si tratta d’informarsi, ma di formarsi”. In questo lavoro, tramite Goethe, Hadot ci ricorda la filosofia come memento vivere, rielaborando e sfruttando tutta la tradizione greca e lo stesso memento mori.

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Adorno, Minima Moralia. Una recensione di Gabriele Ottaviani

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (Einaudi tascabili. Saggi)

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Meditazioni della vita offesa”: il sottotitolo già dice tutto. Centocinquantatre aforismi (per quanto decisamente meno sintetici di quanto si sia portati a considerarli avendo una conoscenza generica di quelli più consueti, che arrivano quasi a essere solo brevi sentenze, motti, detti proverbiali), non uno di più, non uno di meno, scritti tra il 1944 e il 1947 ed editi per la prima volta nel 1951, che in apparenza possono sembrare quasi un puro e semplice esercizio di stile, un’esclusiva e disincantata divagazione pressoché senza meta;  in realtà costituiscono i fotogrammi della pellicola del film, girato da Adorno  (1903-1969) in vesti forse più di operatore che non di regista o sceneggiatore, dell’uomo occidentale, che si muove lungo un orizzonte che interessa l’ambito sociale, quello culturale, la dimensione politica, e a cui il filosofo, sociologo e musicologo che abbandonò per gli Stati Uniti la sua terra natia, la Germania (quando questa si vide invasa dall’orrore del Nazismo) non rinuncia mai di concedere la possibilità del riscatto.

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Marcuse, L’uomo a una dimensione. Una recensione di Stefano Lechiara

Un fotogramma di Metropolis (1927), di Fritz Lang

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Antesignano di idee rivoluzionarie, “Maestro della nuova sinistra”, “apologeta del Dio Marx” ed oracolo di una società costruita ex novo sul presupposto di una liberazione totale dell’umanità, oppure marxista eretico” e visionario, nonché “irrazionalista di sinistra” e precursore di ideologia oscurantista? La vasta produzione di Herbert Marcuse, poliedrica figura di intellettuale germano-statunitense ed eminente rappresentante della Scuola di Francoforte, risulta aliena da un’interpretazione sostanzialmente condivisa in senso plurilaterale. Parimenti la sua vita, ricca di avvenimenti biobibliograficamente significativi, pare dividere gli studiosi. Essa ha suscitato la disapprovazione da parte di coloro che si presero la briga di evidenziarne la relazione (apparentemente antinomica) con la sua opera scritta (vedi la “Pravda”, organo di stampa dell’URSS) sì da giungere ad un’alacre condanna che ha il sapore di una scomunica. Nondimeno Marcuse, nell’ambito del ribellismo sessantottino che infuriava su scala globale, riscosse un successo e un’approvazione che sfiorarono la mitizzazione fanatica. In tal periodo difatti, si era quasi dappertutto gridato nei cortei e scritto sui muri: “Mao, Marx, Marcuse”. La prerogativa di Herbert Marcuse (che contraddistingue i più grandi) è quella di dividere così come inaugurare prospettive innovative e comprensibili, con ogni probabilità, in epoche piuttosto lontane. Il filosofo sembra quindi interessare non soltanto come interprete di fenomeni sociali ma, in primis, in quanto esso stesso fenomeno sociale da interpretare. Il pomo della discordia è costituito dalla sua opera più celebre “L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata” (1964), edita a Boston nel momento in cui egli era poco più che un professore settuagenario e conosciuto per lo più negli Stati Uniti (ove si era stanziato negli anni della seconda guerra mondiale a causa della persecuzione nazista imperversante nella sua Germania).

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Krishnananda, A tu per tu con la paura. Una recensione

Thomas Trobe e la compagna, Gitte Demant

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): A tu per tu con la paura. Vincere le proprie paure per imparare ad amare (Universale economica. Oriente)
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Fra Oriente e Occidente, fra psicanalisi e meditazione

A tu per tu con la paura, di Krishnananda (pseudonimo di Thomas Trobe ) è un viaggio all’interno dell’essere umano, alla scoperta delle sue paure, delle sue difficoltà , delle ferite sepolte che agiscono fattivamente sul presente con tutte le inevitabili conseguenze. Trobe, psichiatra, cresce nello studio antropologico e sociologico del genere umano, seguendo come allievo la guida spirituale di Osho. Da lui impara l’ arte della meditazione e come questa pratica debba diventare esercizio fondamentale e necessario per chiunque voglia superare la superficie per entrare nell’interiore, in quello che considera il vero essere. Questo privilegiare la pratica meditativa lo avvicina ad un noto concetto espresso dal suo maestro: “il centro della tua vita, il tuo essere, è la tua connessione con il cosmo. Da questa porta puoi entrare nel cosmo e diventare tutt’uno con l’ esistenza. Ma anche quando sei nel centro del tuo essere…troverai grande splendore e mistero. Questo stato viene chiamato il buddha, il risvegliato. In questo momento tutti voi siete dei buddha. Potete anche dimenticarlo, ma non importa. Prima o poi ve ne ricorderete di nuovo.”

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Peter Singer, Una sinistra darwiniana. Una recensione critica

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Una sinistra darwiniana. Politica, evoluzione e cooperazione (Edizioni di Comunità)

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Il darwinismo è di destra o di sinistra? Piegare il darwinismo al progetto di una fondazione di valori laici è uno sogno (e in qualche caso è stato un vero incubo, si ricordi, per esempio, Herbert Spencer  o Francis Galton)  che ha una lunga storia. La sociobiologia, dal dopoguerra ad oggi,  ha percorso una lunga strada. Con l’ausilio di quella disciplina che nei paesi anglosassoni è chiamata “psicologia evolutiva”,  afferma di essere non solo un valido campo d’indagine, ma molto di più, una sintesi completa di biologia e filosofia, una guida per l’etica e la politica. Questo campo di studi, in realtà, si rivela duttile a qualsiasi credo socio-politico, capace di supportare una vasta gamma di conclusioni etiche, come vedremo, anche opposte l’una all’altra. Infatti, anche ammettendo (e la cosa è sicura) che alcuni comportamenti umani abbiano una base evolutiva, nessun “gene egoista”  (la vulgata scientifica di un credo neoliberale?) ci potrà mai dire quali comportamenti siano moralmente buoni e cattivi. Da questo punto di vista, Una sinistra darwiniana  di Peter Singer è un tentativo di piegare gli studi neodarwiniani su di un particolare programma etico e “di sinistra” (la sinistra a cui fa riferimento Peter Singer è ispirata ai modelli americani, australiani e inglesi, non certo a quelli francesi o italiani). Il suo lavoro ha il pregio di portare in Italia un dibattito per noi europei -continentali un po’ distante (e sinceramente, un po’ retrò) ma che nei paesi anglosassoni è molto più presente, e pressante, sull’onda emotiva di noti divulgatori scientifici di lingua inglese che combattono la loro “buona battaglia” contro le confessioni religiose, ma si dimenticano purtroppo i loro pregiudizi e credi sociopolitici. Per una volta, noi europei non siamo indietro: anzi, su alcune tematiche toccate da questo libro, la filosofia europea, la nostra epistemologia evoluzionistica e la nostra filosofia della scienza sono di certo più avanti, di certo alle prese con il paradigma della “complessità” più che con una pseudoscientifica “riduzione”. Il filosofo australiano Peter Singer,  noto soprattutto per i suoi ottimi contributi sull’animalismo, sull’ambientalismo e contro lo specismo, in questo libro si dedica al complesso e letteralmente inumano tentativo, fra scienza ed etica, di fondare una nuova politica, suggerendo che “la sinistra” possa e debba abbracciare il darwinismo. Questo rispettabile proposito, però, lo costringe a definire cosa sia la “sinistra”, che cosa debba essere il darwinismo, e cosa sia la natura umana. Tre questioni che cerca di “lavorare” con maestria (e in alcuni parti del libro ci riesce), anche se, come capita ad ogni buon ebanista almeno una volta nella vita, certi pezzi di legno sono troppo duri e nodosi da lavorare. Usando un eufemismo, Peter Singer sbaglia le sue frequentazioni, i suoi “materiali di costruzione”.

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Michel Foucault, Gli anormali. Una recensione critica

Dino Valls, De proportione

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975) (Universale economica. Saggi)

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Il corso universitario di Foucault raccolto in questo libro e finalmente tradotto in italiano è significativo per farsi un’idea dell’immenso lavoro di archivio e della dedizione dello studioso nella sua attività di ricerca contro-disciplinare. Anche in questo caso, come in altri suoi lavori dedicati alla follia e alla sessualità, Foucault mostra il suo talento nella decostruzione e nell’archeologia dei saperi, portando alla luce documenti storici sorprendenti e riesumando le figure storiche che li vedono come protagonisti. Ma è, oltre all’analisi, la sintesi di tali documenti, il taglio critico ad essere suggestivo,  mai definitivo,  abbastanza suggestivo da stimolare ulteriormente la ricerca genealogica in chi voglia seguire le orme dello studioso francese. In effetti, questo stimolo alla ricerca ulteriore era uno degli scopi principali di questi studi. Situate come sono tra “Sorvegliare e punire” (febbraio 1975) e “Storia della sessualità” (primo volume, ottobre 1976), queste lezioni contengono analisi più sviluppate di alcuni temi già affrontati dall’autore o che saranno meglio approfonditi nel suo futuro.  Foucault affronta questioni quali la confessione, la repressione, la medicalizzazione della famiglia, la nascita della psichiatria, e il pervertito sessuale. Inoltre, le lezioni esplorano temi e figure che sono meno centrali o assenti in altri lavori: il “mostro”, l’incesto, il cannibalismo, la stregoneria, la possessione, e la scoperta culturale dell’ “istinto” come fondamentale per l’emersione dell’ individuo anormale.  Temi che sono quasi degli abbozzi di altri suoi libri. I lettori  che sono rimasti delusi del fatto che Foucault non abbia mai realizzato i volumi promessi sulla confessione, l’isteria, la coppia maltusiana e l’onanismo, si spera vengano risarciti abbondantemente in queste pagine. Articolerò questa recensione in due parti: nella prima delineerò i punti salienti di questo libro, nella seconda mi occuperò criticamente di due personaggi che emergono nelle analisi genealogiche di Foucault: il caso del presunto maniaco sessuale Charles Jouy e la sua presunta vittima, Sophie Adams. L’analisi di questo episodio è efficace non solo nel mostrare i limiti di alcune sue analisi, ma anche nel mostrarne i pregi ed i reali obiettivi.

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John Stuart Mill, Saggio sulla libertà. Una recensione di Gabriele Ottaviani

John Stuart Mill

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Saggio sulla libertà

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John Stuart Mill, nato nel 1806, il venti di maggio, a Pentonville, un distretto di Londra (laddove nel 1902 risiederanno anche Lenin e la moglie) e morto ad Avignone sessantasette anni dopo è senza dubbio una delle voci più interessanti, chiare e autorevoli della filosofia e dell’economia del Diciannovesimo secolo, il secolo che precedette quello “breve” per eccellenza; un pensatore di levatura francamente straordinaria, che ha influenzato molte delle opinioni che sono venute a palesarsi e a formarsi negli anni, nei decenni e nei secoli successivi, portando parecchi intellettuali a schierarsi più o meno apertamente in due contrapposte fazioni, tra chi condivide, sia pur mutatis mutandis, le sue tesi, e chi invece le contesta, benché possa non di rado in effetti trovare, nell’approfondita analisi della speculazione di Mill, punti di contatto con le proprie personali convinzioni.

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Dodds, pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Una recensione

Apollonio di Tiana, una sorta di Cristo pagano. Le fonti (specie Filostrato) gli attribuiscono poteri, miracoli e vaticini.

Profondo conoscitore delle fonti classiche, l’autore riprende in questo testo edito originariamente nel 1965 un topos caro alla sua precedente produzione letteraria: il cosiddetto “irrazionale” si identifica fortemente col modello greco-ellenistico inteso come esperienza del mistico e dell’esoterico (1). L’autore, in quest’opera, pur essendo un fervente razionalista di larghe vedute, presenta il mondo delle paure e delle stravaganze del periodo tardo romano: si avvertono in filigrana determinati stati modificati di coscienza, di esperienze esoteriche e mistiche, nonché nuovi modi di pensare e di vivere. Nel periodo cruciale che va dall’ascesa al trono di Marco Aurelio alla conversione di Costantino, rileva i principali aspetti dell’esperienza religiosa; è periodo in cui il mondo precipita nella decadenza materiale, in cui fioriscono i nuovi e più intensi sentimenti religiosi e in cui si assiste a un mutamento di prospettiva intellettuale. È una vera e propria epoca di angoscia, perché ciò che conta per l’uomo di quel tempo non sono più i valori materiali e morali, ma l’idea di infinito e di salvezza; cristiani e pagani, secondo una nota tesi storiografica, sono impegnati a pensare più a se stessi che alla realtà esteriore: “gli uomini stavano cessando di osservare il mondo esterno e di cercare di capirlo, utilizzarlo o migliorarlo: essi erano portati a pensare a se stessi…L’idea della bellezza dei cieli e del mondo passò di moda, e fu sostituita da quella dell’infinito”. L’autore tratta questo argomento con l’intento di poter essere di interesse specialmente a chiunque non abbia ancora “una conoscenza specifica del pensiero antico o della teologia cristiana”.

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Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione. Una recensione di Kinglizard

Gilles Deleuze

“In questo libro mi  sembrava che non si potesse giungere alle potenze della differenza e della ripetizione senza mettere in questione l’immagine che ci si faceva del pensiero. Voglio dire che noi non pensiamo soltanto secondo un metodo, mentre c’è un’immagine del pensiero, più o meno implicita, tacita e presupposta, che determina i nostri scopi e i nostri mezzi quando ci sforziamo di pensare. Per esempio, presupponiamo che il pensiero abbia una natura buona, e che il pensatore abbia una buona volontà (volere “naturalmente” il vero); ci diamo come modello il riconoscimento, vale a dire il senso comune, l’uso di tutte le facoltà intorno a un oggetto che  supponiamo uguale a se stesso; designiamo il nemico da combattere: l’errore, nient’altro che l’errore; e presumiamo che il vero riguardi le soluzioni, cioè proposizioni in grado di servire da risposta. È questa l’immagine classica del pensiero, e finché non abbiamo portato la critica al cuore di questa immagine, è difficile condurre il pensiero fino a problemi che debordano il modo proposizionale, fargli effettuare degli incontri che si sottraggono ad ogni riconoscimento, fargli affrontare i suoi veri nemici, che sono ben altri che l’errore, e giungere a ciò che costringe a pensare, o che strappa il pensiero al suo torpore naturale, alla sua notoria cattiva volontà”. (Prefazione all’edizione statunitense di “Differenza e Ripetizione”)

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La spontaneità con cui pensiamo non deve far credere che siamo davvero capaci di pensare. Le regole del logos, per quanto possano apparire rigorose, ancora non ci illuminano su cosa il Pensiero sia, ancora non ci indicano il suo modo di procedere. Pensare, anzi, è un’operazione estrema, che sfinisce e disorienta chi lo pratica, in un gioco che sancisce inesorabilmente la dissoluzione del soggetto-pensatore per far vincere, ritornare, ripetere la sola “cosa” che davvero sa giocare, il Pensiero stesso, incarnazione e specchio di un’Idea sempre differita e mai piegata ai principi della rappresentazione concettuale. Questo l’insegnamento di Differenza e Ripetizione; questa la sfida di Deleuze. Tracciando una linea di critica radicale che percorre trasversalmente tutta la storia della filosofia, il testo di Deleuze è il perfetto esempio dell’opera teoretica, la cui intenzione prima è quella di mettere alla prova il fondamento su cui il pensiero filosofico ha voluto costruire di volta in volta i suoi mondi. Fondamento che però, seguendo le argomentazioni di Deleuze, appare immotivato, dogmatico, irriflesso; fondamento che perciò non tiene, anzi sprofonda in un senza-fondo sul quale qualsiasi opera di fondazione che vuole seguire i principi della ragione sufficiente risulta impossibile.

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Momigliano, Saggezza straniera. L’ellenismo e le altre culture. Una recensione

L'impero di Alessandro il Macedone nella sua massima espansione geografica

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Nella precedente produzione letteraria dell’autore relativa alla storiografia delle culture, erano già presenti alcuni temi afferenti all’ellenismo. Momigliano tratta questo argomento con l’intento di chiarire il rapporto tra l’ellenismo e le altre culture antiche: la questione di capitale importanza, e così poco affrontata da altri storiografi, di come la Grecia e la sua espansione culturale (non disgiunta da quella politico-militare) fosse recepita dalle altre culture dell’area mediterranea; ma anche il problema contrario: come la Grecia recepisse le altre. Una storia di fraintendimenti, idealizzazioni, osmosi reciproche, contrasti e fascinazioni, tipiche di quella prima grande “globalizzazione” europeo-asiatica che fu l’ellenismo. Il tutto, risalendo a un arco di tempo ben preciso: dal quarto secolo a.C. fino al I a.C. L’immagine di un ellenismo omogeneo fornito da Droysen (il creatore del termine “ellenismo”), come insegna bene Momigliano, è tutta da smitizzare. L’autore ne spiega, con metodo, le dinamiche complesse, mostrando l’intelaiatura fra filosofia, cultura ed eventi socio-politici fra dominanti e dominati. Nella breve prefazione l’autore motiva lo scopo della presente ricerca; scopo che “era quello di stimolare la discussione su di un importante argomento senza indulgere in congetture”. Questo lavoro risponde quindi all’intenzione dell’autore di cogliere, da un lato, l’atteggiamento dei greci nel loro impatto con quattro particolari civiltà (i Celti, gli Ebrei, i Romani, gli Iranici) proprio nel periodo della loro decadenza politica, e, dall’altro, le conseguenti acquisizioni culturali che si generarono in questi tre secoli sotto la spinta della potenza romana, che ereditò la “sapienza greca” dopo averla inizialmente combattuta.

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Eros e civiltà, di Herbert Marcuse. Una recensione di Gabriele Ottaviani

Herbert Marcuse durante un'assemblea studentesca (1968)

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Herbert Marcuse (Berlino, 19 luglio 1898 – Starnberg, Baviera, 29 luglio 1979), è il principale interprete e ispiratore – almeno per la quasi totalità dei critici – di quella corrente filosofica e di pensiero nella quale si sono poi riconosciuti i fautori dei fermenti del movimento studentesco. Questo movimento portò con veemenza alla ribalta mondiale, tramite partecipate manifestazioni, scritti e azioni varie, le proprie istanze, talvolta finanche tradite, a partire dal 1968, anno diventato poi la data simbolo di un nuovo modo di intendere e considerare la società, quella già esistente e quella da costruire e ricostituire, e di un nuovo modo di considerare ed edificare il ruolo dell’Uomo all’interno del contesto in cui conduce la propria esistenza. Marcuse è l’autore di numerosi scritti e saggi: uno dei più celebri è con tutta probabilità “Eros e civiltà” (“con questo titolo”, scrive il filosofo nella prefazione al suo scritto, edita nel 1967, “intendevo esprimere un’idea ottimistica, eufemistica, anzi concreta, la convinzione che i risultati raggiunti dalle società industriali avanzate potessero consentire all’uomo di capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertà” – termine che Marcuse sovente esita a usare, “perché è proprio in nome della libertà che vengono perpetrati crimini contro l’umanità”, –  “e repressione”), un volume complesso e strutturato in più parti, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti d’America nel 1955, e divenuto un testo basilare di quella che fu chiamata, non senza una certa sufficienza da parte di alcuni, “controcultura giovanile”.

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Ripensare la filosofia e l’ambientalismo. Tre recensioni contro l’antropocentrismo

Contro una filosofia fondata sul diritto alla vita, all’espressione e … alla morte dei viventi. «Soltanto per loro» di Leonardo Caffo (qui il link per uno sconto Amazon del testo), «Ai confini dell’umano» di Massimo Filippi (qui il link per uno sconto Amazon del testo) e i saggi di «NellAlbergo di Adamo» (qui il link per ordinare il libro con uno sconto Amazon)
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Il problema dell’animalismo è che la questione dell’animalità, in realtà, non riguarda gli animali. O meglio, non riguarda solo gli animali (non umani). In effetti il limite di molto animalismo è quello di credere che ci si possa occupare del benessere animale senza occuparsi anche di quello degli animali umani. C’è un’unica logica che lega gli orrori del mattatoio con quelli dello sfruttamento dei lavoratori, dell’espropriazione dei beni comuni, della trasformazione della stessa vita umana in merce.Per questo, come scrive Leonardo Caffo in Soltanto per loro. Un manifesto per l’animalità attraverso la politica e la filosofia (Aracne, pp. 136, euro 9), «dev’essere chiaro fin da subito che essere animalisti, in senso forte, significa fare una scelta politica». L’animalismo o sta dalla parte di un radicale cambiamento dell’assetto sociale esistente, oppure si condanna da solo all’irrilevanza. Finché l’unica logica ammessa è quella della valorizzazione del capitale, non sarà possibile salvare la pelle né di una mucca né di un minatore. Il problema non è quello di preoccuparsi di far morire in modo non troppo cruento un maiale (anche se è un problema urgente e importante), piuttosto quello di provare a immaginare un’organizzazione sociale non basata sullo sfruttamento e l’espropriazione della vita: «ciò che sembra necessario è rendere collettiva una scelta non violenta ma non lo si può fare sperando, ‘semplicemente’, che un giorno i supermercati sostituiscano al bancone di carne e formaggio rispettivamente quelli di seitan e tofu. Ciò che sembra necessario è mettere in discussione la struttura stessa del supermercato e dei sistemi affini che forniscono una presunta libertà di scegliere fra ciò che è già stato scelto a monte». Per salvare il pollo occorre capire come funziona l’economia politica, prima ancora che provare a stabilire se un pollo ha o no una vita mentale. Anche perché, è ancora Caffo a metterci in guardia, altrimenti è forte il rischio di cadere nell’antropomorfismo, un rischio in cui anche molti animalisti continuano a cadere. È, per esempio, uno strano modo di amare gli animali quello di chi dice del proprio cane (quale stranezza, essere padroni di una vita) che gli manca solo la parola: cioè che quel cane è da amare non perché è un cane, bensì perché è quasi un uomo.

La questione dell’animalismo è pertanto quella di una politica e di una filosofia che pongano al centro dell’attenzione il «diritto alla vita, all’espressione, alla morte» dei viventi. A partire, come ci ricorda Darwin, dalla infinita diversità delle forme di vita. Qui è da segnalare il libro di Massimo Filippi, Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte (ombre corte, pp. 95, euro 10), che affronta il tema della «macchina antropologica», cioè dell’operazione mediante la quale la filosofia (come la religione) ribadisce la separatezza dell’umano rispetto all’animale. Una separatezza che arriva, con Heidegger, a sostenere che gli animali, in realtà, non muoiono, perché possono solo decedere, mentre la morte è una prerogativa esclusivamente umana. Ma che significa che gli animali non muoiono? Che l’umano è comunque qualcosa di radicalmente diverso dal resto dei viventi. Ora, già nell’assurdità stessa di parlare dell’animale al singolare, dell’animalità in generale, è implicita una separatezza che tanto più è falsa tanto più sempre di nuovo deve essere ribadita.  Filippi ricostruisce l’apparato concettuale che permette questa operazione, non per mostrare che l’umano non è altro che un animale (mossa speculare a quella dello specismo separatista), ma per mettere l’umano fra gli altri animali. E mette in evidenza il paradosso dell’antispecismo, che nella fretta di parificare l’animale all’umano continua a «ignorare il verso dell’animale, la cui morte ha reso possibile il diritto dell’uomo». Non si possono difendere i diritti animali a partire da quelli umani, dato che questi esistono solo in quanto basati sull’esclusione dell’animalità (l’uomo è ciò che non è animale).  Una base comune per ripensare la questione animale può essere, allora, proprio quella della mortalità che accomuna i viventi: «questa ‘possibilità dell’impossibilità’ accomuna umani e animali non perché essi muoiono allo stesso modo (che cosa può significare una frase del genere?), ma perché entrambi com-patiscono, sostano pazienti in un’esposizione senza garanzie». A dispetto di Heidegger muoiono umani e virus, e tutti gli altri viventi. Non c’è un unico modo di vivere, come non c’è un solo modo di morire: «passare il confine della morte significa passare il confine tra noi e l’animale, distendere le maglie del ‘paradigma confine’ fino a trasgredirlo, fino a violarne la natura di proprietà privata, trasformandolo in territorio».

E così di nuovo torniamo al tema politico dell’animalità, quello di una vita non mercificata. Al centro di questo progetto c’è, di nuovo e ancora, il corpo, che «è l’eminentemente vulnerabile che condividiamo con tutto il vivente»; quel vivente che «è proprio l’accettazione di tale vulnerabilità che pervade l’esperienza affettiva, potenzialmente compassionevole, ospitante e cordiale verso gli altri corpi».  La questione dell’animalità, pertanto, «costituisce l’impensato della nostra civilizzazione», come scrivono Massimo Filippi e Filippo Trasatti nell’introduzione alla raccolta di saggi Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia (Mimesis, pp. 317, euro 22): lo sfruttamento dell’animale è il paradigma e il modello di quello umano (al proposito si rilegga il tremendo libro di Charles Patterson, Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto, Editori Riuniti, in cui si mostra come la burocrazia nazista si ispirò ai mattatoi per organizzare lo sterminio di milioni di esseri umani).  Fra i numerosi e interessanti saggi di questo libro, che si può leggere come prima approssimazione a quegli animal studies ancora poco noti in Italia, segnaliamo quello di Marco Maurizi, che affronta il difficile tema del rapporto fra marxismo e mondo della natura. Che posto assegnare, agli animali, in una società senza classi? «L’animale, sia esso ridotto a merce o asservito come mezzo di produzione, è un ingranaggio della società di classe che aspetta, come altri, la propria ridefinizione in una società socialista». La liberazione dell’animale non potrà avvenire senza una parallela liberazione dell’umano, «perché ciò che di essenziale la sua domesticazione ha prodotto per noi non è la carne di manzo o l’avorio, ma il dominio che attraverso questi si esercita sull’uomo. L’assoggettamento dell’animale non rientra nella storia della libertà dell’uomo ma in quella della sua stessa schiavitù».

(Articolo di Felice Cimatti Quella falsa separatezza fra la nostra e le altre specie” tratto da Il Manifesto)