Peter Singer, Una sinistra darwiniana. Una recensione critica

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Il darwinismo è di destra o di sinistra? Piegare il darwinismo al progetto di una fondazione di valori laici è uno sogno (e in qualche caso è stato un vero incubo, si ricordi, per esempio, Herbert Spencer  o Francis Galton)  che ha una lunga storia. La sociobiologia, dal dopoguerra ad oggi,  ha percorso una lunga strada. Con l’ausilio di quella disciplina che nei paesi anglosassoni è chiamata “psicologia evolutiva”,  afferma di essere non solo un valido campo d’indagine, ma molto di più, una sintesi completa di biologia e filosofia, una guida per l’etica e la politica. Questo campo di studi, in realtà, si rivela duttile a qualsiasi credo socio-politico, capace di supportare una vasta gamma di conclusioni etiche, come vedremo, anche opposte l’una all’altra. Infatti, anche ammettendo (e la cosa è sicura) che alcuni comportamenti umani abbiano una base evolutiva, nessun “gene egoista”  (la vulgata scientifica di un credo neoliberale?) ci potrà mai dire quali comportamenti siano moralmente buoni e cattivi. Da questo punto di vista, Una sinistra darwiniana  di Peter Singer è un tentativo di piegare gli studi neodarwiniani su di un particolare programma etico e “di sinistra” (la sinistra a cui fa riferimento Peter Singer è ispirata ai modelli americani, australiani e inglesi, non certo a quelli francesi o italiani). Il suo lavoro ha il pregio di portare in Italia un dibattito per noi europei -continentali un po’ distante (e sinceramente, un po’ retrò) ma che nei paesi anglosassoni è molto più presente, e pressante, sull’onda emotiva di noti divulgatori scientifici di lingua inglese che combattono la loro “buona battaglia” contro le confessioni religiose, ma si dimenticano purtroppo i loro pregiudizi e credi sociopolitici. Per una volta, noi europei non siamo indietro: anzi, su alcune tematiche toccate da questo libro, la filosofia europea, la nostra epistemologia evoluzionistica e la nostra filosofia della scienza sono di certo più avanti, di certo alle prese con il paradigma della “complessità” più che con una pseudoscientifica “riduzione”. Il filosofo australiano Peter Singer,  noto soprattutto per i suoi ottimi contributi sull’animalismo, sull’ambientalismo e contro lo specismo, in questo libro si dedica al complesso e letteralmente inumano tentativo, fra scienza ed etica, di fondare una nuova politica, suggerendo che “la sinistra” possa e debba abbracciare il darwinismo. Questo rispettabile proposito, però, lo costringe a definire cosa sia la “sinistra”, che cosa debba essere il darwinismo, e cosa sia la natura umana. Tre questioni che cerca di “lavorare” con maestria (e in alcuni parti del libro ci riesce), anche se, come capita ad ogni buon ebanista almeno una volta nella vita, certi pezzi di legno sono troppo duri e nodosi da lavorare. Usando un eufemismo, Peter Singer sbaglia le sue frequentazioni, i suoi “materiali di costruzione”.

La natura umana per Singer è culturalmente perfettibile. Qualsiasi struttura umana genica o biologica trovata o ipotizzata dalla scienza non può condizionarne deterministicamente il comportamento sociale. Ma, Singer argomenta,  il darwinismo implica anche che la natura umana non sia completamente libera e forgiabile a piacimento: la sinistra “deve affrontare il fatto che siamo animali evoluti, e che noi portiamo la testimonianza della nostra eredità, non solo nella nostra anatomia e nel nostro DNA, ma anche nel nostro comportamento”. Così gli esseri umani possiedono  delle innate disposizioni, ad esempio, ad agire per il proprio interesse o a creare strutture sociali gerarchiche.  La politica dovrebbe anche tener conto di queste disposizioni: la sua “sinistra” deve perciò capire che il nobile progetto di una società egalitaria “non si può realizzare facilmente come alcuni rivoluzionari alle volte immaginano”. Ma per Singer, questa visione “cupa” della natura umana è solo la metà del quadro. Il neodarwinismo ha dimostrato che gli esseri umani si sono adattati ad un comportamento cooperativo oltre che competitivo: sono naturalmente altruisti. Ad esempio, Singer cita alcuni studi a dimostrare che il comportamento apparentemente sacrificale da parte di una madre per suo figlio è “spiegato” con una strategia per trasmettere il suo patrimonio genetico; inoltre, descrive come la “teoria dei giochi” mostri come strategie di cooperazione (tit for tat) funzionino meglio per ottenere ciò che vogliamo. In entrambi i casi, un egoismo “altruistico”.

La domanda latente, in questa breve recensione, rimane. Peter Singer riesce davvero a risolvere il problemone della creazione di una sinistra darwiniana? Proviamo a rispondere, ma certo non in maniera netta e definitiva, anzi, con un taglio argomentato e piuttosto critico. Innanzitutto,  il suo programma di sinistra “anglosassone” mette davvero poco al centro del discorso le meccaniche del capitalismo e dei mezzi di produzione. Storicamente, la sinistra, specie in alcuni paesi, assume come “nemici” non più il capitalismo e i valori economici neoliberali, ma il razzismo, il sessismo,  l’omofobia, l’inquinamento ecc. Singer non dice nulla riguardo i problemi “storici” della sinistra e  offre una definizione di sinistra così ampia da essere piuttosto debole: “il cuore della sinistra è un insieme di valori”, scrive. Una persona di sinistra vede “la gran quantità di dolore e sofferenza che esiste nell’universo” e vuole “fare qualcosa per ridurla”. Se abbiamo apprezzato in maniera netta la fondazione teorica e i risvolti pratici di Singer nella questione della liberazione animale (cfr. Peter  Singer, Liberazione Animale), in questo caso, sotto questa definizione di sinistra, abbiamo alcune remore. Tutti coloro che favoriscono un miglioramento sociale, tra cui, senza dubbio, tutti i lettori di questo articolo, sono di sinistra, e nella sinistra ci finirebbe buona parte del mondo “civilizzato” e non.

Chiaramente, Singer in questo libro non è interessato alla teoria politica classica. Né, si scopre progressivamente,  è molto interessato alla psicologia evolutiva.  Nonostante il suo tentativo di corteggiare il “darwinismo di destra”, Singer in maniera molto intelligente riconosce che l’evoluzione non possa fornire la base per il “set di valori” che vuole difendere. Sociobiologi precedenti come Wilson avevano sperato che l’evoluzione avrebbe rivelato “le premesse etiche insite nella natura biologica dell’uomo” sfidando “la tradizionale credenza che non possiamo dedurre i valori dai fatti”: insomma, sfidando la fallacia naturalistica di voler derivare il “dovere” dall’ “essere”; sfidando la legge di Hume. Infatti, scrive Singer, “L’evoluzione non porta un carico morale, succede e basta”. E inoltre: “la teoria di Darwin non ha nulla a che fare con il fatto che uno sia di destra o di sinistra“.

Ci si potrebbe chiedere, date queste ultime premesse che sono emerse, perché intitolare un libro in questo modo. Perché unire una pretesa di verità politico-etica ad una scienza come il darwinismo.  Come ha scritto forse un po’ amaramente Richard Rorty, “tener  fede a Darwin” significa capire che la specie umana non è orientata “verso la verità”, ma solo “verso un suo aumento di prosperità”. Le pretese di verità morale alcune volte meramente autoevidenti della scienza (simili ad alcune pretese religiose) sono solo strumenti per ottenere ciò che già vogliamo. Parafrasando una filosofa della mente statunitense, Patricia Churchland, potremmo dire che un miglioramento nelle facoltà cognitive di un organismo è selezionato solo se migliora la possibilità di sopravvivenza dell’organismo. La verità, qualunque essa sia, compete tutto ciò che resta al di fuori di questo meccanismo. La risposta di Singer a questa presunta contraddizione è la seguente: la funzione più importante del darwinismo è quella di sfatare alcune idee pre-darwiniane, come l’idea  che gli esseri umani siano unici e che dovrebbero essere trattati diversamente dai non-umani. Questa tesi è stata “completamente confutata dall’ evoluzione”.  Per Singer, il pensiero darwiniano ha fornito la base per una rivoluzione nei nostri atteggiamenti verso gli animali non umani.  Così la sinistra darwiniana dovrebbe “lavorare per uno status morale superiore per gli animali non umani, e una visione meno antropocentrica del nostro dominio sulla natura”. Ed ecco anche il punto saliente nel quale risiede il suo obiettivo etico, con il quale non possiamo non essere d’accordo: nel sostenere l’etica della “preoccupazione imparziale” per tutti gli esseri senzienti.

Il punto debole  del libro non è certo questo. Dopo aver attraversato e corteggiato la psicologia evolutiva in quasi tutto il libro (e secondo noi, pericolosamente troppo da vicino), nell’ultima parte Singer scopre che la stessa cieca selezione naturale ha fatto di noi degli “esseri dotati di ragione”, la quale ci permette di trascendere gli stessi schemi evolutivi. Attraverso la ragione siamo in grado di sviluppare l’altruismo vero e proprio, non solo un “egoismo illuminato”. Citando Dawkins, afferma che “sebbene siamo costruiti come macchine dai geni […] abbiamo il potere di rivoltarci contro i nostri creatori”. Rispetto ad altre sue opere, la ragione umana è considerata in una forma meno utilitaristica. Singer allude a Hegel, che “ha interpretato il culmine della storia come uno stato di conoscenza assoluta, in cui la Mente si conosce per quello che è, e raggiunge quindi la sua libertà”. Scrive Singer, con l’entusiasmo di una religiosità laica: “Per la prima volta da quando la vita emerse dal brodo primordiale, ci sono esseri che sanno come sono venuti a essere quello che sono”. Attraverso la razionalità scientifica, la visione hegeliana della libertà assoluta ora mostra una promessa di realizzazione: “In un futuro lontano che si può intravedere a malapena, [la conoscenza scientifica] può rivelarsi il presupposto per un nuovo tipo di libertà”. Si tratta di un finale sorprendente per un libro altrimenti sobrio e abbastanza contenuto.

Una caricatura di Peter Singer. Le sue idee, specie in campo bioetico, hanno suscitato accese polemiche, soprattutto nei paesi di lingua inglese

L’ottimismo di Singer nella capacità razionale, riduzionista  e scientifica di creare un ethos “empatico”  e meno antropocentrico, di emendare l’essere umano dalla violenza dell’antropocentrismo, ci sembra il punto deboli del libro. Forse, torna qui il “terribile dubbio” che già Charles Darwin appuntava in una sua lettera: “Mi sorge sempre un orribile dubbio. Possono avere un qualche valore o una qualche attendibilità le convinzioni della mente umana, una mente che si è sviluppata da quella di animali inferiori?”. Al di là del problema filosofico di una connotazione tra “inferiore” o “superiore”, Darwin sta solamente mostrando quello che può creare un eccessivo riduzionismo naturalistico nel momento in cui pretende di fondare scientificamente una scala di valori morali. Emerge cioè, dalla lettura di questo libro, la difficoltà e le contraddizioni in cui s’imbatte il naturalismo riduzionista (e lo stesso Singer) nel tentativo di fondare, sulla stessa scienza, l’ etica. Queste auto contraddizioni sono parecchio diffuse nella letteratura evoluzionista anglosassone a cui Singer  purtroppo si avvicina. Affermare, come fanno autori “in stile” Dawkins, che la morale umana sia semplicemente un adattamento messo in atto per perseguire i nostri fini riproduttivi, per poi insistere sul fatto che ora siamo liberi di scegliere i nostri ideali morali, e seguire un “amore fraterno” e un’ ”empatia senza limiti”, è una contraddizione riduzionista, un salto logico (non ontologico questa volta) in cui, purtroppo, anche Singer piomba. Preferiamo, per concludere, un finale più europeo che anglosassone, sul bisogno di fondare una nuova etica che tenga conto della rivoluzione darwiniana, sfruttando la complessità più che il riduzionismo (quest’ultimo, una moda sorta per ragioni più antireligiose che puramente scientifiche). Sono parole di Telmo Pievani (1): “La posta in gioco è alta, perché si tratta di una normalizzazione naturalistica in campo umano: cadono le grandi eccezioni dell’evoluzionismo antropologico, in primis, la linearità del progresso, mentre i presunti misteri inavvicinabili, come l’evoluzione del linguaggio e della mente, sono sempre più cinti d’assedio da indizi empirici rilevanti. In aggiunta, il fatto interessante è che questa normalizzazione non sembra per nulla riconducibile a un’impresa “riduzionista”, come spesso si paventa. Semmai è il contrario. E’ proprio dai nuovi studi sull’evoluzione umana che si evince l’impossibilità di ridurre la spiegazione a un solo livello prioritario (per esempio genetico, o anche generalmente biologico) dal quale estrapolare tutto il resto. Per capire la storia naturale umana occorre oggi fare interagire strati differenti di analisi, laddove i livelli di organizzazione più alti presentano proprietà autonome e non deducibili interamente dai livelli più bassi, per quanto esse restino ancora interamente naturali. Bisogna far convergere per la prima volta schemi provenienti dalla paleo-climatologia, dall’ecologia, dalla geologia, dalla genetica, dall’anatomia comparata, dall’archeologia, dalla linguistica, dall’evoluzione culturale, e da molte altre competenza nelle scienze naturali e nella scienze umane. E così si capisce che chi agita lo spauracchio del “riduzionismo” ha semplicemente il problema di giustificare l’inserimento del sovrannaturale dove non ve n’è alcun bisogno”. Come però l’ottimo Pievani sa benissimo, questo “spauracchio del riduzionismo” si può alzare per tante ragioni, non solo religiose, ma più propriamente laiche e scientifiche.

Alessandro Stella (dottore di ricerca in Filosofia e Storia della Filosofia, Università Aldo Moro, Bari)

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Note:

(1) “Il non senso dell’evoluzione umana”, pp. 14-15 in Micromega, Homo sapiens, l’avventura della scimmia nuda che tutti noi siamo, e che avrebbe potuto non accadere mai

 

 

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