Il resto di niente. La storia di Eleonora Pimentel Fonseca

Più elevato il sogno,  più fiera la sofferenza

E’ quanto afferma nel romanzo Il resto di Niente Cirillo, uno tra gli eroi della repubblica napoletana, instaurata nel gennaio 1799 sulla scia della campagna napoleonica in Italia, rivolgendosi ad Eleonora Pimentel Fonseca, tra le principali  protagoniste di quella fase storica, la realizzazione di un sogno di libertà che ebbe vita breve e portò via la vita di molti patrioti.

Eleonora Pimentel Fonseca, intellettuale e scrittrice, fu una rivoluzionaria e fu impiccata nell’agosto del 1799, quando a Napoli si instaurarono nuovamente i Borboni e i repubblicani furono condannati a morte. Tra gli ultimi pensieri, prima di essere impiccata: “Servirà un giorno ricordare tutto questo?”.

Eleonora, però, non era nata a Napoli ma era portoghese. Arrivata a Napoli bambina con la sua famiglia, decise di appartenere a quella città, a Castel Sant’Elmo, a Toledo e ai vicoli straripanti di gente, al mare scintillante e al Vesuvio tanto bello quanto indifferente. Alla grandezza e alla povertà di quella capitale del Regno dei Borboni, già alla fine del Settecento centro di una struggente bellezza.

Lo scrittore Enzo Striano (1927-1987) tratteggia Eleonora Pimentel Fonseca in modo delicato e mai retorico, tra storia e letteratura. Enzo Striano accompagna la piccola Lènor nel suo arrivo a Napoli durante la feste della Piedigrotta: «Fu terrorizzata. Non aveva mai visto tanto e così vario clamore, né visto simile folle. La carrozza faticava a muoversi […] Un urlìo continuo, ritmato incessantemente dallo scuotere secco di mille tamburelli a sonaglia, dal soffiare di mille fischietti, dal frenetico strofinio di mille pentole […] Vide un uomo con sudicio berretto bianco e grembiule di cuoio che bolliva maccheroni su un fornello quasi in mezzo alla via. Rimase incantata per la velocità con la quale colui toglieva dal fuoco uno dei pentoloni che vi fumavano, ne rovesciava l’acqua, appiccicosa, biancastra, senza far cadere neppure un filo della pasta, che poi serviva, con rapidità impressionante, nei piatti di stagno degli avventori che allungavano il braccio nella ressa».

Fin da bambina Lènor mostra una propensione e un interesse per gli studi umanistici e scientifici; arrivata all’adolescenza inizia a comporre poesie che legge nei salotti dell’aristocrazia di Napoli e a Corte, al cospetto dei sovrani Ferdinando IV e Maria Carolina.

Enzo Striano, attraverso la descrizione della vita di Lènor negli ambienti vicini alla Corte, elabora un affresco della Napoli di fine Settecento dove avevano iniziato a diffondersi largamente idee e principi di matrice illuminista.

Eleonora Pimentel Fonseca studia Genovesi, Filangeri e segue le notizie che provengono dal resto del mondo: la rivoluzione americana e la pubblicazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, gli avvenimenti in Francia dove il nuovo re Luigi XVI stava per essere travolto (e ghigliottinato) dalla Rivoluzione del 1789.

Lènor si allontana sempre più dalla Corte: fiorisce in lei una visione del mondo che si oppone ad un potere che sfrutta l’ignoranza e la debolezza della maggioranza del popolo e abbraccia un progetto che avrebbe dovuto coinvolgere gli intellettuali illuminati nella missione di liberare il popolo. Ma Eleonora si accorge che non è così semplice e che spesso è proprio quel popolo da liberare che si trasforma nel nemico più violento.

Nelle pagine del romanzo, la Grande Storia si intreccia alla vicenda privata di Lènor che, rimasta senza la mamma e in condizioni economiche precarie, decide di sposarsi con un esponente della piccola nobiltà napoletana. Fu un’esperienza agghiacciante per la sensibile e colta protagonista, segnata dalla violenza domestica e drammaticamente dalla perdita del piccolo figlioletto. Lènor, con il sostegno del padre, divorzia e si dedica a quello che viene descritto nel libro “fare come gli uomini: partorire con il cervello”.

 Enzo Striano tratteggia mirabilmente il personaggio di questa giovane donna: attraverso i suoi flussi di coscienza possiamo affacciarci nella sua anima per leggerne i turbamenti, i dubbi, le riflessioni.

 I lazzari, il popolo basso, sono il personaggio corale al centro del romanzo: «Anche quelli sono popolo, Lènor. Non ci capiscono perché vivono nell’arretratezza, nella sporcizia. Ci odiano. Hanno paura anche di noi. Ma noi dobbiamo lavorare anche per loro: noi abbiamo avuto tutto, loro niente».

Proclamata la Repubblica, Eleonora Fonseca dirige il giornale “Il Monitore Napoletano”, organo di stampa ufficiale del nuovo Governo. Scrive articoli educativi con la missione di formare il popolo: per lei la cultura è missione civile perché solo l’istruzione può liberare ed elevare i lazzari.

 Il suo entusiasmo però si contrappone ad un senso del Fato inevitabile che viene espresso dal personaggio di Pulcinella: «Pulcinella non è un tipo allegro. Sa le cose nascoste.  Ca la Repubblica adda fernì, come finisce tutto, ca ll’uommene se credono de fa chesto, de fa’ chello, de cagnà lo munno, ma non è vero niente. Le cose cambiano faccia, non sostanza: vanno sempre come hanno da ì. Comme vò lo Padrone. Lo munno non po’ girà a la mano smerza. Lo sole spunta tutte li mmattine e poì scenne la notte, la vita è ‘na jurnata che passa: viene la morte e nisciuno la po’ ferma’. Perché è de mano de lo Padrone: di Dio. Pulcinella queste cose le ha sapute sempre, come volete che si metta a fare il giacobino? Lo po’ pure fa’, ma solo per far ridere, per soldi. Isso non ce crede».

I lazzari vogliono essere lasciati in pace: «Sempre il vecchio problema: s’ha diritto di far felici gli altri imponendogli quella che riteniamo sia felicità? Felicità comporta sacrifici, s’ha diritto ad imporli a chi pensa non valga la pena di farli? Mettetevi le scarpe, imparate il gergo repubblicano, fatevi ammazzare per cacciare i Borboni, i Ruffo, i preti, l’ignoranza (e così regalate alla Gran Repubblica Madre i palazzi del re, Capodimonte, Ercolano), studiate, diventate colti. Leggete Genovesi, Filngieri, distruggete Pulcinella, san Gennaro, vicoli, bassi, la vostra vita randagia».

 Sullo sfondo la Gran Repubblica Madre, la Francia, che dopo aver rapinato risorse dalla Repubblica Napoletana, abbandona i patrioti al loro tragico destino.

 Eleonora Fonseca nel suo ultimo giorno di vita chiese in prigione una tazza di caffè. Probabilmente il suo ultimo pensiero davanti al boia è stata la soddisfazione di aver compiuto il suo dovere.

 Il nostro dovere, oggi, è ricordarla e farla vivere nella nostra storia.

E ricordare il romanzo di Enzo Striano, Il resto di niente.

 Come si dice a Napoli, o resto è niente.

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(articolo di Eleonora Corgiolu)

“Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano. Una recensione per una filosofia a venire

(nella foto, HIATUS, di Dino Valls)

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di Alessandro Stella

L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant”. L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Se Pascal voleva dire che siamo precari, deboli, “sapienti sul mondo” ma così tremendamente ignoranti su noi stessi, ignari delle radici del nostro stesso pensare e vivere, dei poteri e legami che ci torturano e deformano, allora aveva ragione. Siamo degli illusi nella nostra volontà di controllo, nel nostro autoinganno quotidiano biopolitico (i “poteri” sfruttano la nostra illusione di libertà). Ma è un autoinganno anche psicologico (con l’illusione del controllo ci difendiamo dall’angoscia e dal dolore), l’illusione di possedere una libertà e assieme ad essa una mente-ragione separata dal resto, che così può ordinare noi stessi, il mondo, e cambiarlo, scovare i problemi e illuminarlo. Ma Pascal, il “misantropo sublime” (così lo chiamava l’illuminista Voltaire) si sbaglia sul “pensiero”. L’uomo non è un pensiero. E’ un corpo, un corpo che comunica in tante maniere, qualche volta anche col pensiero che, a stento e con dolore, diventa parola (o succede viceversa?). Pascal, che combatteva il pensiero di Cartesio, ne era anch’esso vittima, vittima del suo stesso dualismo, vittima dell’odioso dualismo “mente-corpo”. Lo stesso dualismo che ammorba il pensiero occidentale e la filosofia. Lo stesso dualismo di quando i media dicono che Michela Marzano sia un “cervello in fuga”, lei che è diventata un docente ordinario in Francia. Nel suo libro, giustamente si arrabbia per questo cliché giornalistico, e rivendica il suo corpo, lei che per tanto tempo l’ha bistrattato. “Volevo essere una farfalla”, non è un libro sull’anoressia. E’ un libro che solo in piccola parte parla del sintomo, l’anoressia, della “sua” anoressia, perché Michela lo sa benissimo, ogni anoressia è diversa ma è uguale, poiché, “non esistono anoressiche e bulimiche, esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa”. Questo toccante diario, questo flusso di coscienza di una vita intera, parla del malessere che ne è alla base, malessere a cui ognuno di noi risponde come può, alcuni (spesso donne, e sempre più uomini) con i “disturbi alimentari”. Ed è un libro che parla di filosofia, ma di una filosofia che viene (o che, finalmente, ritorna). Una filosofia che si occupa della vita e affronta il dolore, senza finalmente rimuoverlo.

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Un filosofo in un campo da calcio

Una breve esperienza di sangue e filosofia in un campo di calcio. Realmente accaduta. Perché quando si è filosofi lo si è anche alle prese col pallone 😀 

Roma. Ottobre, sera. Umidità e freddo. Sono in strada, con i miei due coinquilini. Tre ombre su un marciapiede poco illuminato. Ci stiamo recando a passo svelto verso il luogo del massacro, il Golgota. Un campetto di calcetto a cinque, di proprietà di una parrocchia di Roma. E’ a soli 10 minuti da casa, ma sembrano venti, data l’acqua che si deposita silenziosamente sui nostri pantaloncini da calcio e sulle nostre gambe da cicogna  pelose. “Raffaele, grazie per avermi chiamato, ma quindi è gratuito?” chiedo quasi tremando per il freddo. “Sì Alessà, è il campetto della parrocchia che frequento io, dove faccio parte del gruppo giovani”. Io: “Certo che tu, sto’ gruppo ciovani, proprio sei masochista”. Lui, giustamente: “E’ gratis e ti lamenti?”. Sorrido: “Se è gratis, vuoi dire che l’abbiamo già pagato con l’8 per mille”. Raffaele sembra non aver sentito. Poi rilancio: “Ma è sicuro che un ateo mangiapreti come me ed uno sporco rifondarolo come Francesco possono giocare?”. Nessuno risponde, Francesco si limita, marciando e con occhi bassi, ad alzare il pugno al cielo ed ad intonare la melodia dell’Internazionale.
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Bertolt Brecht, Vita di Galileo. A cura di Elisa Scirocchi

 “Himmel abgeschafft!”  (Abolito il cielo!)

“[…] Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza […] ”.

Bertolt Brecht non ha certo bisogno di presentazioni. Eppure, se mai qualcuno fosse rimasto indietro, non potremmo che dirgli che egli è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo e regista teatrale. L’originalità dell’approccio con cui ha affrontato temi di carattere prevalentemente sociale, ci porta a considerarlo in modo indiscusso come uno degli autori più innovativi della drammaturgia contemporanea. Protagonista di una critica feroce nei confronti della realtà moderna nei suoi aspetti storici, Bertolt ha analizzato l’umano nelle sue debolezze, e in tutte le sue zone d’ombra. Brecht iniziò a interessarsi alla figura di Galilei in occasione del tre-centenario del processo, subito dal genio pisano, ad opera della Santa Inquisizione, ergo nell’anno 1933. Da quell’anno ha inizio la scrittura travagliata, sofferta, e ragionata di quest’opera: “Vita di Galileo”. La storia di questo testo segue, e accompagna le vicende personali dell’autore, e il contesto storico in cui esso viene scritto. Dopo diverse modifiche, traduzioni, e riedizioni giungiamo alla più celebre versione, ovvero l’edizione berlinese del 1955/56 (Quella che ho letto io, e che vi consiglio vivamente di leggere se non lo avete ancora fatto).Questo dramma è il canto dell’anti-eroe per eccellenza. L’autore non si pone come scopo quello di raccontare la vita del grande Galilei, ma, come si percepisce facilmente anche dal titolo, si prefigge di raccontare la vita di un uomo, dell’uomo Galileo, scienziato non troppo impavido, che ha paura di rivelare ciò che vede dall’altra parte del suo cannocchiale. Brecht ci offre un Galileo umano, preso dalle mille preoccupazioni del quotidiano, intento a gestire lezioni, guadagni, osservazioni astronomiche e calcoli matematici.
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“La questione degli intellettuali” di Maurice Blanchot. Una recensione

Gli intellettuali non hanno opinioni migliori del cittadino comune. Maurice Blanchot fa derivare il loro ruolo dalla loro notorietà (mi riferisco al saggio Les intellectuelles en question, 1983, ma pubblicato in italiano per la prima volta da Mimesis nel 2011, a cura di Marco G. Ciaurro), mediante la quale intervengono in questioni su cui il cittadino anonimo potrebbe avere opinioni più originali ma inespresse. Qui si pone implicitamente un’equazione tra intellettuali e notorietà: per essere tali gli intellettuali devono essere per forza noti. Blanchot riprende Sartre, a proposito della specializzazione che, benché ciò appaia irragionevole, mette in rapporto con l’universale. Ma finiscono per rinunciare al loro abituale e scrupoloso metodo conoscitivo per scadere nell’opinione sciatta e mal strutturata. Oggi ne abbiamo esempi a iosa tanto dagli articoli di giornale (spesso spocchiosi, inutili e autocelebrativi) quanto da Twitter, se non dalle loro stesse opere. «Si è così sicuri di aver ragione nel cielo, – scrive Blanchot – che si congeda non solo la ragione nel mondo, ma anche il mondo nella ragione» (p. 39). E questo è vero fin dalla loro nascita, collocabile a partire dall’affaire Dreyfus. Gli intellettuali sono tutti dreyfusardi e occupano un campo che non è il proprio. Secondo il sedicente non-intellettuale Brunetière, anche Zola intervenne a sproposito, come se un colonnello della gendarmeria avesse avuto la pretesa di dire la sua su un problema riguardante il romanticismo letterario. Analoga contraddizione coglie Barrès allorquando questi fanatici dell’individualismo d’élite si mettono a fare i portavoce della democrazia. Ed è latente il pericolo di diventare moralisti o politici. Tuttavia il mettersi in gioco degli intellettuali che, distanziandosi dalla propria destinata solitudine creativa smettono temporaneamente di essere gli scrittori o artisti che sono per prendere la parola e correre il rischio di perderla definitivamente (è uno dei loro meriti), viene recuperato da Blanchot in termini di esigenza morale. A prezzo che, daccapo, un cittadino non vale più l’altro. Ma appunto l’intellettuale è tale solo temporaneamente, smette di esserlo e ridiventa – è – nient’altro che uno in mezzo agli altri.

Sandro De Fazi

Frankenstein Incompreso, una recensione del libro di Mary Shelley

Aligi Sassu, Prometeo, 1970

Ci sono storie radicate profondamente nella cultura e così spontanee alla mente da sembrare naturali, indiscutibili, innate. Sono storie eterne perchè senza memoria; sviluppate nel tempo del Mito si trascinano invisibili di generazione in generazione. Chiamate da Jung archetipi vengono continuamente riplasmate, anche in epoche moderne, senza perdere il loro alone di immortalità. Qui sta forse il segreto nascosto del Frankenstein di Mary Shelley, madre di fantascienza. Dalla mitologia il romanzo prende in prestito le idee della creazione e dell’acquisizione della conoscenza con un riferimento esplicito a Prometeo, la divinità greca che forgiò l’uomo con l’argilla e che, per avergli restituito il fuoco – simbolo dell’evoluzione tecnico-scientifica – venne punito da Zeus per l’eternità. La fama e la diffusione popolare del romanzo però non hanno impedito la nascita di fraintendimenti e rielaborazioni, fissati nell’ immaginario collettivo da successive trasposizioni teatrali e cinematografiche. Il romanzo originale non ha niente a che vedere con quel mostro sbandierato dallo scetticismo antiscientifico che invade oggi i dibattiti della bioetica e non è assolutamente un manifesto contro la tecno-scienza e le sue invasioni di presunte prerogative divine. L’ argomento Frankestein utilizzato dai detrattori della scienza non trova, nelle sue modalità, alcun riscontro nel testo: i riferimenti mitici del romanzo rimangono sempre pure metafore letterarie.  L’opera di Shelley è nata come storia di orrore e parla di passioni umane, di convenzioni sociali, di scienza e di solitudine, tanta solitudine. Se una critica alla conoscenza scientifica è presente allora va ricercato in questi ambiti. Frankenstein, o il Moderno Prometeo è un romanzo di fantascienza da una forte connotazione umanista.
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Sartre, La nausea. Una recensione di Elisa Scirocchi

Ernst Ludwig Kirchner, Marcella, 1910

Antoine Roquentin e le sue braccia penzoloni.

“[…] Il tempo riprende la sua mollezza quotidiana […].

Bouville, cittadina vezzosa e immaginaria della Francia, anni Trenta del Novecento. Antoine Roquentin è uno storico impegnato nella scrittura della biografia di un tale, vissuto nel Settecento, che risponde al nome di messier De Rollebon. È lui a raccontarci le sue giornate, le sue (dis-) avventure. La nausea (1938) incarna i moderni standard degli scrittori novecenteschi, ove la rottura del tradizionale schema temporale, l’evidente assenza di effettive situazioni narrative e l’incedere dirompente dell’emotività dei personaggi, sono protagonisti indiscussi. Sartre abolisce l’oramai desueto narratore esterno e dona la voce al suo fragile Antoine, donandogli l’esistenza. Antoine trascorre le sue giornate alla ricerca di qualcosa da scrivere, di qualcosa da fare, di qualcuno con cui parlare. La sua solitudine è dilaniante. “[…] Le persone che vivono in società hanno imparato a vedersi, negli specchi, esattamente come appaiono ai loro amici. Io non ho amici […]”.

Il suo rapporto con il mondo appare univoco, e unicamente basato su ciò che egli vede. Lo sguardo di Antoine è attento a cogliere in maniera minuziosa, a tratti maniacale, ogni dettaglio. E così, il color malva (poco deciso), delle bretelle di un cameriere, diviene per Antoine fonte d’irritazione, tanto che egli avrebbe voglia di gridare loro di assumere il colore viola, di ammettere la loro falsa umiltà, il loro essere “[…] ostinate nel loro sforzo incompiuto […]”. La desolazione delle vie cittadine rispecchia l’animo di Antoine. Ogni cosa lo colpisce: Gli occhi vividi di due giovani amanti, il vento che sibila tra le abitazioni, il fumo delle sigarette degli uomini in strada, i denti guasti di quell’uomo seduto dentro il Caffè, le guance rosse di Anny, il gorgoglio (simile a un rantolo) di una fontana, e la radice di quel castagno che s’insinua tra le falde del terreno. Tutto ciò che esiste, irrompe nella sua vita, lo schiaccia. “[…] Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto […]. Alla maniera di un fotogramma del cinema, lo sguardo del protagonista seleziona la realtà da includere nell’inquadratura del suo teleobiettivo. L’immagine della realtà, raccontata dagli occhi di Antoine, risulta a noi che leggiamo, come assorbita dal suo sguardo, quasi pietrificata, come dagli occhi di Medusa. Allo stesso tempo in cui sorprendiamo lo sguardo di Antoine a oggettivare la realtà, è la realtà stessa a rendere Antoine un oggetto di sé. Egli riconosce di esistere. Egli è lì nel mondo della contingenza. Egli è un corpo. Per questo esiste ancor prima di essere. Le sue braccia penzoloni, che incontriamo più volte nel romanzo, queste braccia molli, abbandonate a se stesse, descrivono la frustrazione di quest’uomo, e l’agonia che egli prova in questa vita esasperante. Attraverso le parole di Sartre riusciamo a sondare il senso delle cose, comprendiamo il loro essere gratuite, e attraverso di loro ritroviamo noi stessi. La nausea è un romanzo che racconta la nostra condizione priva di senso, una lettura che ci coinvolge da vicino. La nausea siamo noi.

 Elisa Scirocchi

 

 

Marías, Domani nella battaglia pensa a me. Una recensione di Roberta Savino

Javier Marias

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Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sopra la tua anima, che io sia piombo dentro al tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori”

Javier Marías affida il titolo del suo  romanzo  a  un  passo  del  Riccardo  III  di  Shakespeare. La scelta di tale citazione non è casuale, l’autore ci si sofferma e la ripropone più volte,  evidenziando il forte legame  tra il rimando  shaksperiano  e  il  romanzo  stesso.  La morte,  la vita,  la  battaglia  come  metafora  della  vita, il peso  dei  ricordi e  dei  rimpianti  che  come  piombo  si  posa  sul  petto  di  chi  resta,  di  chi  non  muore, di  chi  continua  a  vivere.  “Domani  nella  battaglia  pensa  a  me” appare  come  una  minaccia  scagliata  dal  defunto  nel  mentre della  sua  dipartita.  E’  un’ esortazione  a  non  dimenticare,  a  non  voltare  la  faccia  alla  morte. Scrivere   della   morte  non  è  affatto  conveniente.  Se  va  bene  si  rischia  che  il  lettore  si  affidi  al romanzo  con  sospetto  e  inquietudine;  se  va  male  le  probabilità  che  si  abbandoni  la  lettura  si  fanno assai  alte. Il  punto  nevralgico  della  questione,  ciò  che  svela  il  motivo  di  questa  mia  arringa,  risiede nel  fatto  che  la  Morte,  oggi,  fa  una  paura  tremenda.  Tutte  le  più  grandi  spiegazioni  su  di  essa risultano  obsolete.  I  ferventi  cattolici  si  aggrappano  alla  consolante  idea  che  “la morte  è  solo  un passaggio,  dopo  si  andrà  nel  regno  dei  cieli”,  le  filosofie  new age,  per  le  quali  io  nutro  profondo sospetto,  propongono  invece  la  tesi  della  reincarnazione  e  così  sia.  Ma  gli  scettici,  con  cosa  si consolano?  Il  capolinea  della  modernità  è  stato  quello  di  svelare  l’illusione,  con  le  parole  care  a Nietzsche,  di  una  grossa  bufala.  E  ne  paghiamo  le  amare  conseguenze. Lo  scrittore  madrileno   Javier  Marias,  vincitore  di  numerosi  premi  letterari,  racconta  della  morte come  un oratore  che  si  affida  al  suo  flusso  di   coscienza  dinanzi  a  una  platea  seria  e  mal  disposta  al  tema.  La  morte  appare  oggi  il  mistero  dei  misteri.  Eppure,  è  un  mistero  di  cui  non  si  parla,  non si  deve  parlare. Ecco  che  Marias  ci  prende  per  mano, e  senza  censure  ci  catapulta  in  una  situazione che  ha  del paradossale.

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Sartre, L’angelo del morboso. Una recensione

Altweiser in una cartolina del 1968

Era un altopiano dei Vosgi dai fianchi irsuti. I monti circostanti si elevavano o discendevano come montagne russe, tutti ombreggiati dalla loro chioma d’abete, ora zazzera scossa dai venti, ora pettinata con cura, tosata sui lati, che rivelava agli occhi riposati l’oasi di un prato verde o di una casa rossa. Quei tetti lontani, fabbricati a mattoni, dovevano alla foresta che li circondava l’abbellimento di un contrasto: erano diventati la meta delle passeggiate, per il piacere di incontrare degli uomini dopo la traversata di un luogo solitario; rappresentavano la vita umana, poveri sostituti che implicavano tuttavia una quantità di idee mondane e lussuose radicatesi là misteriosamente, probabilmente col favore della distanza. Sull’altopiano era spuntato un villaggio, Altweier, accuratamente diviso, come tutti quelli dell’Alto Reno, in due parti: la frazione cattolica e la frazione protestante. Ciascuna aveva la sua chiesa e le case si raggruppavano, sottomesse, attorno ai due campanili. Il partito cattolico si era impossessato della cima: più modesto o venuto tardi, il partito protestante si era installato un po’ più in basso, annodato dalle tortuosità della strada. Il calzolaio, carattere forte, s’era sistemato ancora più in basso per far vedere che faceva gruppo a parte. Certi alberghi ermafroditi servivano da tramite, da intermediari. In uno di essi (che si era chiamato Hôtel di Sedan dal 1870 al 1918, e che prese dopo l’armistizio il nome di Hôtel della Marna, senza del resto cambiare proprietario), Louis Gaillard andava a villeggiare, durante i tre mesi di vacanza che l’università accorda ai suoi professori. Arrivò, caricato di una valigia, vestito con l’indispensabile gabardine e l’aria imbronciata che è il suo correlativo abituale. Aveva caldo e sete, aveva litigato, senza averla vinta, col conducente della corriera; e il disgusto, la nausea di fine viaggio che rivolta i nostri poveri corpicini sedentari, pesavano su di lui. Era un mediocre, smarrito dalle cattive compagnie: come è dannoso per un giovane povero vivere nella scia di ragazzi ricchi, così può nuocere il commercio di persone più intelligenti di sé”.

Inizia in questo modo il breve, asciutto e intenso racconto che nel 1922, presumibilmente d’autunno, scrive, con voce adulta e sicura (anche se il timbro appare, soprattutto nelle prime righe, molto più lirico di quello a cui di norma si è abituati, e con uno stile davvero personale e ironico, nonché particolarmente ricco di colti riferimenti letterari, spesso tutt’altro che ostentati) un ragazzo, già diplomato, e iscritto in una classe letteraria di preparazione al concorso della Scuola Normale Superiore, ma di soli diciassette anni d’età: quel ragazzo è Jean-Paul Sartre. Questa è la sua prima pubblicazione.

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“Lire 26900” di Frédéric Beigbeder. Recensione del manuale scomodo dei pubblicitari e del marketing

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Siamo il prodotto di un’epoca. O forse no. Così diventa troppo facile dare la colpa ad un’epoca. Più che altro siamo prodotti e basta. Merce posta in uno scaffale. Il mondo neoliberale non discute con degli uomini, non li ha minimamente presente fino a che essi non diventino dei prodotti seriali schematizzabili in note dinamiche del desiderio riproducibili in una macchina di Turing. E’ solo allora che può cominciare a discutere con dei soggetti, che ci ha presente. Le sue regole trasformano le persone in yogurt deperibili, in drogati di spettacoli pubblicitari, show, drammi e commedie. Consumatori di desideri creati a tavolino, consumatori di vite non proprie. L’unico spazio di libertà dalla pubblicità è trascinare il nome del prodotto nel cestino del vostro desktop, e poi selezionare “Svuota cestino”. Sperando, ovviamente, che con esso sparisca pure il desiderio. E qui entra in gioco la filosofia. Il desiderio: l’unico vero mostro che ci appartiene, che possiamo controllare e che dobbiamo forgiare, anche grazie alla filosofia. Quando ho finito di leggere “Lire 26900” di Frédéric Beigbeder ho avvertito sollievo, come se fosse finito un incubo. La stessa sensazione che ho provato dopo aver visto lo straordinario Requiem for a dream di Darren Aronofsky, un film solo un po’ più terribile e nichilista impegnato su un tema simile, la dipendenza (uno dei segreti del marketing è creare dei “dipendenti”). Certo, argomenti triti e ritriti, che la filosofia e la letteratura, il cinema e la musica hanno ampliamente sviscerato. Ma se scritti bene e con uno stile abbastanza originale (come in questo caso), vale ancora la pena di una ripassata. Il libro è una analisi cinica del desiderio, ed un abbozzo pratico e nichilista verso una filosofia della pubblicità. E’ anche un metodo affidato alla letteratura per scoprire la sindrome di Madame Bovary che è in ciascuno di noi, così efficacemente analizzata da quel geniaccio di Gustave Flaubert senza scomodare Lacan e Freud. Magari voi stessi state leggendo questa recensione perché attratti da una immagine, da una parola, o da un aforisma particolare che hanno suscitato curiosità e risvegliato un desiderio. Chiamati qui magari da un social network come facebook dove le nostre vite spesso si riducono a comunicazione pubblicitaria e reality. Come scrive Beigbeder “uno scrittore in pubblicità è l’autore di aforismi che vendono”, se state leggendo vuol dire che vi siete imbattutiti in un bravo pubblicitario (oppure uno fortunato). La prossima volta, pensateci prima di cliccare. La libertà è prima di tutto un atto radicale di anticonformismo.

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“One Big Union”, di Valerio Evangelisti. Una recensione

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One Big Union” è una lettura indispensabile, oggi. Una lettura che contribuisce a creare cultura politica ed a definire soggettività. Insomma, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Non sappiamo se il New Italian Epic (NIE), come viene indicato nei memoriali di Wu Ming 1, sia davvero finito nel 2008 con la grande masturbazione della “italian left” (la prima pagina de “il Manifesto” del 15 aprile 2008 rimarrà a lungo un nostro pezzo di storia). In realtà non ci interessa saperlo. One Big Union, come altre pubblicazioni, rientra a pieno titolo in quel potente percorso letterario che contribuisce, ogni giorno (ed ancora oggi), a creare cultura ed a farci Singolarità. Potenza della letteratura. Basta mettere le pagine in contro-luce, cercando l’attualità dietro le parole. Potrebbe essere interessante leggere il 15 ottobre 2011 attraverso questo canale. Si aprono spazi di comprensione e di resistenza. Comprensione della storia e delle sue dinamiche. Consapevolezza del Movimento (più o meno operaio). Perchè, come scriveva Mario Tronti: “ai capitalisti fa paura la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno, la seconda l’hanno accolta nei palazzi di governo“. E la storia del Movimento operaio è storia di lotte, di antagonismo e di organizzazione. E’ storia di trasformazioni e di adattamenti. E’ storie di lotte di classe e di condensazioni delle soggettività in lotta. One Big Union traccia uno spazio di questa lotta attraverso l’esperienza degli Industrial Worker of the World (IWW), una delle organizzazioni sindacali statunitensi più presenti ed attive nel primo Novecento. Nata dalle ceneri di strutture più “mistiche”, come i Knights of Labor, caratteristica dei wobblies (gli iscritti al IWW) era quella di organizzare i lavoratori orizzontalmente, senza cadere nella verticalità delle divisioni produttive. Sullo stesso piano, nelle stesse lotte, erano coinvolte soggettività con mansioni lavorative anche molto differenti. Tutti erano partecipi di quell’idea di nuova Società che era compresa ed ispirava la vita quotidiana del Sindacato. Inoltre l’organizzazione era aperta a tutti, senza preclusione per i migranti (spesso tenuti fuori dalle strutture “tradizionali”). Il “leit motiv” che rappresentava il senso comune di appartenenza all’organizzazione era: An injury to one is an injury to all.

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“Anatra all’Arancia meccanica” di Wu Ming, una recensione

Anatra all'Arancia meccanica

Se acquisti il libro da questo link hai uno sconto significativo: Anatra all’arancia meccanica. Racconti 2000-2010 (Einaudi. Stile libero big)

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Sono passati dieci mesi dalla pubblicazione di “Anatra all’Arancia meccanica“, autore il Collettivo Wu Ming. Questo il thread di “lancio”. Qui, ed anche qui, una raccolta di interventi, opinioni e recensioni. Una panoramica interessante che misura il reale “assorbimento culturale” (dov’è l’opinione pubblica?) dell’ultima fatica dei “senza nome”.

La nostra recensione sarà un’anti-recensione, come al solito, perchè i libri bisogna viverli e non riassumerli. Ed ognuno vive le parole a proprio modo (fortunatamente!). Ognuno crea la sua resistenza a propria immagine e somiglianza. Siamo come piccoli demiurghi diffusi che, attraverso la creatività, producono gioia e rivoluzione. Gioia e Rivoluzione. Saremo, quindi, banali. Estremamente banali. Perchè la banalità rende le cose per quello che sono realmente, senza nasconderle dietro l’ipocrisia del marketing o l’auto-referenzialità della scrittura.

Anatra all’Arancia meccanica è una raccolta ontologica di 16 racconti pubblicati da Wu Ming su vari spazi. Una raccolta “ontologica” (no, non è un refuso) perchè racconta la genesi di un decennio di movimento e di soggettivazione (i fantastici “Anni Zero”). Un decennio di avvenimenti (l’11 settembre americano, Genova 2001, il berlusconismo…) e di nuovi strumenti (internet, le discussioni via mail, i blog, i social network…). Una genesi straordinaria che, dalle allegorie rivoluzionarie, si riproduce in dinamiche “umane, troppo umane“. Perchè non solo tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare.

Queste 16 narrazioni sono la cornice dentro cui viene raccontato un nuovo Mondo. Un Mondo in potenza e la sua potenza fallita. Sono storie che intrecciano la realtà. Sono livelli di realtà che diventano storie. Perchè Anatra all’Arancia meccanica è la critica della Narrazione con la N maiscuola. E’ la critica della Storia con la S grande. E’ una cornice dentro cui le nostre Vite cominciano a vivere in mille modi. Attraverso stili differenti, visioni alternative ed anti-retoriche. Non c’è la grande Città pronta a sussumere ogni meccanismo sociale nelle sue viscere metropolitane (non siamo tutti metropolitani). Ci sono le periferie, le province. Piccoli mondi futuri che urlano le loro contraddizioni e reclamano spazi di visibilità.

E poi c’è la violenza. Un filo conduttore che lega le narrazioni. Violenza dell’Essere umano su se stesso. Violenza dell’Essere umano sugli elementi naturali della Terra. Ma su questo sarebbe meglio far sedimentare qualche altra riflessione.

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