“One Big Union”, di Valerio Evangelisti. Una recensione

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One Big Union” è una lettura indispensabile, oggi. Una lettura che contribuisce a creare cultura politica ed a definire soggettività. Insomma, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Non sappiamo se il New Italian Epic (NIE), come viene indicato nei memoriali di Wu Ming 1, sia davvero finito nel 2008 con la grande masturbazione della “italian left” (la prima pagina de “il Manifesto” del 15 aprile 2008 rimarrà a lungo un nostro pezzo di storia). In realtà non ci interessa saperlo. One Big Union, come altre pubblicazioni, rientra a pieno titolo in quel potente percorso letterario che contribuisce, ogni giorno (ed ancora oggi), a creare cultura ed a farci Singolarità. Potenza della letteratura. Basta mettere le pagine in contro-luce, cercando l’attualità dietro le parole. Potrebbe essere interessante leggere il 15 ottobre 2011 attraverso questo canale. Si aprono spazi di comprensione e di resistenza. Comprensione della storia e delle sue dinamiche. Consapevolezza del Movimento (più o meno operaio). Perchè, come scriveva Mario Tronti: “ai capitalisti fa paura la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno, la seconda l’hanno accolta nei palazzi di governo“. E la storia del Movimento operaio è storia di lotte, di antagonismo e di organizzazione. E’ storia di trasformazioni e di adattamenti. E’ storie di lotte di classe e di condensazioni delle soggettività in lotta. One Big Union traccia uno spazio di questa lotta attraverso l’esperienza degli Industrial Worker of the World (IWW), una delle organizzazioni sindacali statunitensi più presenti ed attive nel primo Novecento. Nata dalle ceneri di strutture più “mistiche”, come i Knights of Labor, caratteristica dei wobblies (gli iscritti al IWW) era quella di organizzare i lavoratori orizzontalmente, senza cadere nella verticalità delle divisioni produttive. Sullo stesso piano, nelle stesse lotte, erano coinvolte soggettività con mansioni lavorative anche molto differenti. Tutti erano partecipi di quell’idea di nuova Società che era compresa ed ispirava la vita quotidiana del Sindacato. Inoltre l’organizzazione era aperta a tutti, senza preclusione per i migranti (spesso tenuti fuori dalle strutture “tradizionali”). Il “leit motiv” che rappresentava il senso comune di appartenenza all’organizzazione era: An injury to one is an injury to all.

Tessera del Sindacato IWW

“Già. E anche i ricchi sono colpiti. Tutti siamo colpiti. E’ una crisi generale. Ne conosci le cause?”
“Sbarcano troppi stranieri” rispose d’impulso Bob. “La concorrenza dei cinesi e degli slavi…”
Furlong lo interruppe. […] “Quello è uno dei motivi, ma non il principale. Nemmeno le truffe dei banchieri che riempiono i giornali lo sono. La verità è un’altra, più tragica. L’operaio americano sta diventando un fannullone”.
“Si, è vero” rispose Bob meccanicamente. […]
“Pretende di guadagnare senza produrre a sufficienza. Accampa diritti che si immagina lui. Vuole lavorare solo otto ore. Non capisce che la sua fortuna è legata a quella del datore di lavoro. Se questi soffre, soffre anche l’operaio”.

“I disturbatori li troviamo sempre lì: nel cuore stesso della nascita di un sistema. Sono la ruggine che corrode il metallo appena forgiato. Sono l’equivalente dei tarli per il legno”.

Quel giorno i “fannulloni” arrivarono numerosi. Dipendenti pubblici, docenti, precari di ogni risma, sesso, razza ed età. Riempirono presto la Piazza. Noi eravamo tra di loro. Fannulloni come loro. Era la giornata ideale. Il sole splendeva e non faceva troppo freddo. Era la metà di ottobre del 2011, il quindici ad essere precisi, ma l’inverno sembrava ancora troppo lontano. Mille bandiere ornavano il cielo, nessuna sigla avrebbe potuto contenere quella meravigliosa eccedenza. Ogni singolarità ci metteva qualcosa di personale. Ingovernabile. Non organizzabile. La grammatica moltiplicava continuamanete figli ingrati che, ben presto, vagavano di bocca in bocca come una bottiglia di primitivo novello. Parole senza grammatica, come radici senza albero. Alcune volte si creano concetti e si lanciano come petardi che non esplodono. Non hanno senso. Una delle parole coniate dallo Stato che più davano fastidio a quella massa informe era proprio “fannulloni”. Quale sarebbe il criterio di valore che divide il “fannullone” da un elemento socialmente “produttivo”, non ci è dato sapere. O forse si. L’accettazione di un compromesso al ribasso con il “padrone”. E’ “fannullone” chi non capisce che la propria sorte è strettamente legata a quella di chi “concede” lavoro. Se le Aziende “vanno bene” e non hanno problemi finanziari, anche il Lavoro migliora, si estende. Si perfeziona. In caso contrario si contrae. E’ nell’interesse del “produttivo” accettare con gioia e subordinazione le scelte del “padrone” sugli orari, sulla busta paga e sulle tutele. Non si può, o non si dovrebbe, fare altrimenti. All’opposto c’è l’ingratitudine verso il “magnate”. “Fannulloni”, appunto. Qualcuno, con la laurea ancora fresca nella tasca posteriore di un jeans con le toppe sulle ginocchia, cercava di abbozzare qualche analisi più dettagliata. L’Economia sociale di Mercato è il paradigma di questo modello di Società. La concertazione che diventa pratica di controllo e gestione delle marginalità. Chi non “concerta”, diventa un fannullone. Un “disturbatore”. E non è un caso che i maggiori “disturbatori” siano i dipendenti pubblici, gli operai ed i lavoratori intellettuali. Fannulloni per eccellenza. Perchè su di loro passa la ristrutturazione “reale” che fa cadere pezzi di CCNL nella precarietà e, di conseguenza, nella impossibilità di essere organizzati dai maggiori Sindacati, indebolendo la forza dell’antagonismo. Tutto questo nella beata ignoranza delle stesse organizzazioni sindacali (ed anche partitiche), troppo interessate a mantenere i propri privilegi piuttosto che ad adattarsi all’attualità.

Ragionò sulla risposta da dare. “La parte che resta è la peggiore, Thelma. Sono i lavoratori che invidiano i ricchi solo perchè ricchi. Credono di essere vittime di un’ingiustizia. Non capiscono che ognuno, negli Stati Uniti, è data la possibilità di evolversi, di migliorare la propria condizione. Non siamo in Europa, dove certe fortune dipendono dal sangue e dal casato. Qui la base di tutto sono il duro lavoro e uno stile di vita morale, parco e onesto”.

“In questo paese c’è chi è venuto con l’intenzione di affossare il sistema americano e l’assieme di valori, anche religiosi, su cui si fonda. Lavoro duro, affermazione personale”.

Il corteo cominciava a muoversi mentre gli ultimi pullman parcheggiavano in periferia. Ci voleva poco tempo per raggiungere il centro della Città con i mezzi pubblici. La mobilitazione era stata più ampia del previsto. Per almeno un paio di mesi ogni struttura, più o meno organizzata, ha diffuso la necessità di partecipare, di esserci. In maniera confusa e disordinata, come da prassi. L’Evento straordinario, la Manifestazione con la M maiuscola, stava per riuscire. Era riuscita. La Piazza non poteva contenere tutti, per questo il corteo cominciò a muoversi senza aspettare. Gli ultimi si sarebbero uniti più tardi, non appena raggiunto il luogo dell’incontro. Noi eravamo praticamente a metà. Spezzoni diversi si misero in cammino, mille striscioni. Mille parole. Mille ritornelli. Mille note da cantare. I Partiti dietro, le Associazioni avanti, le esperienze di lotta al centro. Ai lati gli ubriachi e chi non riusciva a camminare senza marciapiede. Eterogeneità assoluta. L’allegoria della soggettivazione degli ultimi trent’anni è stata quella dell’imitazione. Della mimesi neoliberale. Il dispositivo funziona in maniera molto semplice. Basta prendere un modello e copiarlo. Nell’atteggiamento, nell’abbigliamento, nell’apparenza e, soprattutto, nelle visioni. Fare e pensare tutto quello che dice il modello. Il berlusconismo non è stato banalmente una forma di governo ma un modello di Esistenza che ha vinto, creando ed ottenendo un consenso molto più che egemonico ma democratico. L’Essere umano trasformato in Capitale Umano, in elemento utile solo quando produce valore generando aspettative esclusivamente individuali. E’ il senso del liberalismo.

Nello scorrere il bollettino degli IWW, Bob scoprì varie cose. L’organizzazione era agli sgoccioli, e lo si sapeva. In un congresso previsto in autunno a Chicago, correnti e sottocorrenti si sarebbero affrontate in una lotta senza quartiere. Pareva – per il bene della società – che l’estrema sinistra fosse eternamente impiegata a dibattere su sfumature. Partecipare al voto o no, privilegiare l’organizzazione operaia o valorizzarne la spontaneità. Mentre il capitale era rapido a coagularsi, l’antagonismo si perdeva in differenziazioni di dubbia rilevanza.

Dopo poche centinaia di metri un gruppo di manifestanti, senza nessuna bandiera, si fermò al centro del viale posando gli zaini pesanti sull’asfalto. Ne vennero fuori indumenti scuri che ognuno di loro cominciò ad indossare, con estrema naturalezza. Il corteo continuava ad andare avanti senza curarsene troppo. Qualcuno si fermava a guardare, incuriosito ma senza prestare troppa attenzione. Tra le centinaia di migliaia di Esseri umani c’erano anche ragazze e ragazzi completamente nudi, altri vestiti di viola, altri ancora conciati in decine di modi strani. Anche quella sembrava una semplice rappresentazione, come tante altre. Poco più avanti un altro gruppo consumò lo stesso rituale. Una trasformazione e poi divisa nera, passamontagna e via in avanti. Successe altre volte. Non volevano essere fotografati, minacciando chissà cosa chi provasse a farlo. Dopo qualche minuto li vedemmo correre, provenienti da parti diverse, verso la testa del corteo. La sensazione che qualcosa stesse accadendo, oltre i nostri occhi, si faceva concreta. Colonne di fumo si alzavano dai lati delle strade. I nostri telefoni squillavano in continuazione. Sembrava che il mondo volesse aggiornarci sugli avvenimenti che pure stavamo vivendo. Istituti bancari con le vetrine rotte, macchine incendiate. Questo il primo scenario. Poi lo schieramento della Polizia a centinaia di metri di distanza, per non intervenire direttamente nel corteo in caso di disordine. Quando la parte più “attiva” del sindacalismo di base arrivò quasi alla fine del percorso, con il palco già allestito per i Comizi dei politicanti, si scatenò la furia. Gruppi di “passamontagna” contro la Polizia che cominciò a caricare la testa del corteo. L’intenzione dei “passamontagna”, forse, era quella di coinvolgere quelle parti di Sindacato più militanti nella carica della Polizia per ingrassare esponenzialmente il fronte della violenza. Fortunatamente non accadde.

Al termine della Manifestazione, a terra, non c’erano solo sanpietrini divelti e fumogeni scarichi. C’era la nostra storia. Quella del Movimento, quella dei Movimenti. C’era una “estrema sinistra” che continua a non parlarsi ed a litigare su questioni che hanno poco significato. C’era la divisione, gli aut-aut sui giornali. C’erano le interviste che colpevolizzavano persone diverse, i nuovi “cattivi maestri”. C’era la demonizzazione dei giornali “benpensanti”. C’era l’incapacità di organizzare le nuove forme del Lavoro e di rintracciare la composizione di quelle marginalità che potrebbero essere utili ai fini dell’organizzazione. A terra c’era la Cultura del Movimento, che non crea più immaginario. Non canta più, non scrive più, non disegna più. Non si chiede come rendersi “comprensibile”. Non si preoccupa di capire.

“Fratelli” esordì “hanno cercato di persuadervi che il capitalismo sia inevitabile, che la disoccupazioneche flagella il paese sia una catastrofe naturale. Ebbene, vi dico che non è così. La crisi non cade dal cielo: alla base ha il vostro spostamento oltre il lecito e l’avidità di sfruttatori che campano con il lavoro altrui. In questo stesso momento, i ristoranti di lusso di Chicago, di Saint Louis e di New York sono pieni, e voi lo sapete. […] Sono gli stessi che parlano di crisi. I politicanti e i giornalisti al loro servizio invocano la solidarietà nazionale”.

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