Ceci n’est pas un pope

 

Iconografie vecchie e nuove, ibridi postmoderni

Il mito dell’Abbé Pierre dispone di una carta preziosa: è la sua testa.  E’ una bella testa, che presenta chiaramente tutti i segni dell’apostolato: lo sguardo buono, il taglio francescano, la barba missionaria, tutto ciò completato dal giubbotto prete-operaio e dalla canna del pellegrino. In tal modo si uniscono le cifre della leggenda e quelle della modernità” (Roland Barthes, Iconografia dell’Abbé Pierre in Miti d’Oggi)

Novità, gesto rivoluzionario? Un ulteriore gesto titanico? Ritorno al passato?  Parliamone. Della filosofia e teologia dell’ultimo binomio di papi della Chiesa Cattolica ci siamo già occupati qui e qui. Tutto cambia, tutto resta uguale. Ma ora si tratta di un inaspettato colpo di coda del pastore tedesco. Qualcuno ha paragonato queste quasi laiche “dimissioni” (quasi fosse un lavoro “profano”, tanto il linguaggio stesso è rimasto spiazzato) al gesto di Celestino V, l’ingenuo monaco eremita contemporaneo di Dante  costretto al “rifiuto” dall’animale politico Bonifacio VIII, che di lì a poco divenne uno dei principali burattinai d’Europa. Forse, Celestino V fu addirittura assassinato da Bonifacio VIII nella sua reclusione coatta di Fumone. Se vogliamo riferirci alla storia, essa è piena di figure che rompono l’iconografia moderna pontificia. Piena di papi atipici: anti papi, papi guerrieri,  papi con figli, papi avvelenati, papi avvelenatori, papi cospiratori, papi eretici, papi astrologi,  papi rapiti, catturati e detenuti, e morti in cattività lontani da Roma. Papi scomunicati da imperatori, umiliati da generali, da eserciti e re, papi scomunicati da anti papi. Papi, al contrario, che umiliano i potenti. Specie prima del concilio di Trento. Nel caso di Ratzinger, non è possibile fare paragoni storici, e ogni paragone storico è funzionale a costruire modelli più o meno impropri, mitologici o, al contrario, irriverenti. Quel che però si può dire da laici del gesto di Ratzinger è in realtà un ricorso storico più generale: un tornare a  quella umanità sempre maledetta e sempre esorcizzata, individuale certo, ma anche funzionale, politica e machiavellica del ruolo papale, così adombrata (almeno al grande pubblico popolare) negli ultimi secoli dell’era tridentina della Chiesa Cattolica, quando seguendo un certo storico trend si è addirittura arrivati a proclamare dogmaticamente, in chiave antimoderna, antidemocratica e antilluminista, contro il demone del liberalismo, l’infallibilità ex cattedra del papa.

Lo stesso  Giovanni Paolo II, l’ultimo grande comunicatore della Chiesa, da buon polacco aveva esaltato, e non diminuito, l’iconografia eroica e mistico-passionale del papato, anche grazie al suo tristissimo fine-vita, per giungere alla sua morte cristica trasmessa come un Death-Reality nelle case del mondo cristiano e non. Concetti e miti intramontabili per gruppi considerevoli di cattolici, rappresentati pienamente da dinosauri fossili e passionisti come Stanislaw Dziwisz, che ora dichiara: “Wojtyla restò, riteneva che dalla croce non si scende”. Il teologo e filosofo Ratzinger, l’accademico (di curia) e l’uomo che ha vissuto tutta la vita nei suoi libri, e diciamolo, almeno quelli, i “suoi libri”, li conosceva abbastanza bene (probabilmente più di quanto conoscesse gli squali della sua curia), ha ritenuto che decomporsi in pubblico seguendo il Cristo martire volontario raccontato nei Vangeli, nonché il suo padrino Karol, non è poi così dignitoso né eroico. E pure se fosse eroico, non gli interessava una beneamata. Specie quando non poteva nemmeno difendersi dai suoi maggiordomi e vescovi spioni. Ora di lui si dirà di tutto: letture cospirazioniste o storico-hegeliane, alleandosi, racconteranno che la funzione-Ratzinger (non l’individuo) è stata costretta dalla politica, dalla curia, dalle banche (che ora vanno così di moda) e dal Nanni Moretti nazionale al suo gesto. Altri diranno, al contrario, che è il gesto di un individuo che ha scelto liberamente la sua vita e il suo fine-vita. Mediando fra le due note posizioni (e fra i due stili di pensiero), quel che è certo: è un piccolo passo verso la normalità, un piccolo passo  di una Chiesa ancora modellata su miti archetipi e mediatici come il padre-re-pastore, l’eroe martire,  espiazioni didattiche, sangue, croci e qualche chiodo. Ancora fisso. In estrema sintesi, le sue dimissioni sono uno “straordinario” gesto laico (straordinario perché raro) e antimitico da parte di un teologo-papa-di-biblioteca che da frequentare utilissimi compagni di merenda come Karl Rahner si convertì purtroppo alle paludi del tomismo,  ma che probabilmente è sempre rimasto fedele (e le sue “dimissioni” lo confermano) ad una visione molto umanistica e pratica, decisamente poco mistica, della sua vita e del suo ruolo. Si direbbe uno stile da basso profilo, da anti epopea, da anti santino, senza Valchirie, senza Anelli da gettare nel monte Fato e  Nibelunghi. Tipicamente tedesco, visto che ai cliché siamo abituati. “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”: era la beatitudine laica di un altro noto tedesco del Novecento.

 

L’ Animal Laborans in Hannah Arendt

Hannah Arendt e Richard Sennett

UNA RIVISITAZIONE DEL CONCETTO DI ANIMAL LABORANS IN HANNAH ARENDT. A cura di Alessio Perigli

Introduzione

I L’animal laborans nella storia

I.1 Strumentalità e animal laborans

I.2 La vittoria dell’animal laborans

II L’animal laborans nei regimi totalitari

II.1 L’animal laborans nel regime nazista

II.2 L’animal laborans nel regime stalinista

III L’animal laborans e l’homo sacer

III.1 L’ambivalenza del sacro

IV L’animal laborans e l’uomo artigiano

IV.1 L’uomo creatore di sé stesso

IV.2 L’esperienza come mestiere

 Conclusioni

 Bibliografia
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Martin Hengel, Ebrei, Greci e Barbari. Una recensione

Tempio di Oropos (Attica). Di qui proviene l'iscrizione del più antico ebreo ellenizzato della storia: "Mosco, figlio di Moschione, giudeo, in seguito a un sogno su ordine del dio Anfiarao e di Igea"

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Ebrei, greci e barbari. Aspetti dell’ellenizzazione del giudaismo in epoca precristiana (Studi biblici)

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Il presente studio, editato dall’autore nel 1981, è la meta a cui egli è arrivato dopo anni di intense ricerche compiute sulla storia giudaica; ricerche che hanno trovato forma di espressione nella rivista che da anni accoglie i più importanti studi sul versante storico del giudaismo, la Cambridge History of Judaism. Tale opera dunque non è altro che la riproposizione in forma più vasta, aggiornata e compita dei precedenti contributi che egli pubblicò su tale rivista. Erudito in discipline storiche e filosofiche, l’autore riprende un tema tanto caro nella sua precedente produzione letteraria: l’incontro-scontro culturale del giudaismo con l’ellenismo con particolare riferimento alla Palestina fino alla seconda metà del II sec. a.C. L’autore stesso afferma: “questo lavoro rappresenta in molti punti una continuazione della ricerca svoltavi. I nuovi reperti archeologici che continuano a venire alla luce, come pure i continui progressi della ricerca, forniscono un ricco materiale a questo scopo”. Il presente contributo si colloca perciò nella stessa prospettiva dei precedenti: il tema preso costantemente in questione dall’autore è “l’incontro tra il giudaismo e la cultura ellenistica” in tutti i suoi aspetti, anche filosofici. L’autore, professore di N.T. all’Università di Tubinga, tratta questo argomento con l’intento di chiarire questo tema limitatamente a “quel periodo della storia giudaica tuttora oscuro per la precarietà delle fonti, in quanto egualmente lontano per gli studiosi dell’Antico Testamento come per quelli del Nuovo“, dal momento che proprio in tale periodo “vennero posti i fondamenti decisivi per l’autocoscienza del popolo giudaico dell’«epoca neotestamentaria» e non solo della diaspora nell’area di lingua greca, ma anche della madrepatria, la Palestina”.

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La filosofia di Taxi Driver

Martin Scorsese incontra Jan Paul Sartre  (a cura di Asaxelar)

“Che cosa c’è da temere da un mondo così regolare?”.

“Ho paura di quello che sta per nascere, che sta per impadronirsi di me… e trascinarmi, dove?”

 Nelle citazioni di apertura, tratte dal libro La Nausea (1938) di  Jean-Paul Sartre, ci vengono posti due quesiti che potrebbero essere l’uno la risposta dell’altro: ciò che dovrei temere da un mondo così regolare (la nostra società) sono quelle paure che nascono nei suoi abitanti, si impadroniscono di loro e li guidano verso reazioni imprevedibili. Tali reazioni invece di essere studiate, al fine di comprendere ciò che le ha scatenate e quindi provvedere a prevenire tali comportamenti, vengono metabolizzate e trasformate in spettacolo; occultando le motivazioni che le hanno provocate. E’ sufficiente osservare il ruolo dei media: essi ci forniscono una serie di notizie superficiali che si fa fatica a considerare informazioni; più legate all’area dello show business che a quella del giornalismo. Per questo motivo possiamo considerarci più confusi che informati. Tale disordine ci porta a vivere in una realtà allucinata, completamente diversa da quella che viene pubblicizzata tramite le immagini e i messaggi che quotidianamente ci vengono inviati. Ci troviamo perciò a vivere in una società che, pur mostrandosi splendida e perfetta, nel suo interno sta marcendo. In breve, questo è quanto ci mostra Martin Scorsese in Taxi Driver (Taxi Driver, 1976).

 La rovente estate newyorchese del 1975 fa da sfondo naturale a Travis Bickle (Robert De Niro), un marines reduce dal servizio militare in Vietnam, che si fa assumere come tassista notturno al Manhattan Cab Garage. Egli soffre di insonnia e il suo senso di vuoto e di solitudine lo portano ad annullare i giorni tra cinema a luci rosse e viaggi a vuoto per la città. Travis si invaghisce di Betsy (Cybill Shepherd), una ragazza intravista nella folla, sostenitrice del senatore Charles Palantine (Leonard Harris); ma, a causa di uno sfortunato appuntamento, lei lo respinge. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso e il tassista si trasforma in un angelo vendicatore che individua nel senatore Palantine la causa di tutti i mali della società. Fallito il tentativo di ucciderlo, Travis sfoga la sua rabbia su Sport (Harvey Keitel), protettore della prostituta minorenne Iris (Jodie Foster), conosciuta casualmente durante un turno di lavoro. Liberandola dal giogo del delinquente, il tassista si trasforma in un eroe per caso e sparisce nelle maglie della società che ora lo riconosce parte di sé.

 Scorsese ci trasporta in una realtà popolata da quelli che Sartre definisce “porcaccioni“. Anche il protagonista de La Nausea, Antonio Roquentin, alla stregua di Travis, è un personaggio solitario. Anche lui ha vissuto particolari esperienze fuori dal suo paese e si ritrova nella condizione di reintegrarsi in una società che non gli appartiene più. Anche Antonio è un “reduce”; non di una guerra combattuta ma di una società che darà vita ad una guerra enorme che scoppierà di lì a pochi anni: la seconda guerra mondiale. Tuttavia vi è una differenza sostanziale tra le due opere, che va riscontrata nelle dinamiche creative che hanno dato vita a Taxi Driver. In quest’ultimo si trovano sviluppate tre poetiche fondamentali: quella della Violenza, della Nostalgia e dell’Iper-realismo. In questo contesto tralasceremo volontariamente l’ultima (legata soprattutto allo stile visivo del film e quindi da contestualizzare anche nel periodo storico in cui questo è stato realizzato) e ci soffermeremo sulle altre due.

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Il cervello Hegeliano

 

“Questo volume presenta il sapere nel suo divenire. La ricchezza dei fenomeni in cui lo spirito si manifesta, che a un primo sguardo si presenta come caos, è ricondotta a un ordine scientifico, che li presenta secondo la loro necessità…” (GWF Hegel, Annuncio bibliografico della pubblicazione della Fenomenologia dello Spirito, Bamberger Zeitung, 28 Giugno 1807)

Chi si accinge alla lettura del testo hegeliano prima o poi viene preso da un senso di smarrimento, quando non di sconforto… In “presenza” di Hegel è facile ritrovarsi di fronte a un bivio: o si era capito male quello che si credeva di avere ben chiaro almeno nelle linee generali, o si inizia a temere di non essere nella migliore condizione mentale per affrontare la “leggendaria difficoltà” del pensatore di Stoccarda, non per niente indicato dai suoi contemporanei come “l’Eraclito redivivo”, in quanto “oscuro come l’Efesio”.

A me capita invece una cosa strana…

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Il cervello della cappella Sistina. Michelangelo fra neoplatonismo e… neuroanatomia

Fece per la chiesa di Santo Spirito della città di Firenze un Crocifisso di legno, che si pose ed è sopra il mezzo tondo dello altare maggiore a compiacenza del priore, il quale gli diede comodità di stanze; dove molte volte scorticando corpi morti, per istudiare le cose di notomia, cominciò a dare perfezione al gran disegno ch’egli ebbe poi“. (Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo)

Forse il primo uomo (documentabile) ad avanzare l’ipotesi dell’anatomia del cervello celata nel dipinto di Michelangelo è stato qualche anno fa un medico americano,  Frank Meshberger, notando che le figure dietro Dio e il mantello formano una figura pienamente corrispondente alla sezione sagittale della corteccia cerebrale. E Michelangelo, nel Rinascimento, non era l’unico a studiare l’anatomia dai cadaveri ed a riportarla fedelmente nelle sue opere. Inoltre, al tempo di Michelangelo, gli anatomisti credevano che il prezioso ben dell’intelletto, dono di Dio, avesse la sua sede nel cervello. In base a questa ipotesi, nell’affresco tradizionalmente chiamato “Creazione di Adamo” (qui il link per vedere la Cappella Sistina in 3d), potrebbe essere simboleggiato un messaggio molto particolare.

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Omaggio al maestro. Recensione a Tristi tropici di Claude Levi-Strauss

L'antropologo Claude Levi-Straus in Amazzonia, 1936

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Ricordo quando, da matricola in filosofia, lessi quest’avventura antropologico-filosofica. Purtroppo, non mi fu proposta da docenti né da qualche gruppo universitario, ma mi capitò fra le mani in maniera quasi accidentale, come una mela in testa. Mi rimase dentro, e la sento tutt’ora, vivida, nella mia formazione. Il mio fu un viaggio mentale: uscii dalle mie certezze, dalla mia cultura, dalla mia università, dalle mie discipline, dal mio mondo. Il viaggio muta il pensiero, è come un pellegrinaggio religioso, ma quando si viaggia non si può essere mai del tutto neutri, “tabula rasa” come vorrebbe la più ingenua delle antropologie culturali. Claude Levi-Strauss, morto nel 2009 a cent’anni di vita (tutt’altro che passati in solitudine) era convinto che quando si viaggia si è sempre qualcosa, qualcuno. Scriveva Chateaubriand che ogni uomo “porta in sé un mondo composto di tutto ciò che ha visto e amato, a cui ritorna continuamente anche quando percorra e sembri abitare un mondo straniero”. Recensire il più classico dei libri di antropologia del più noto antropologo del ventesimo secolo non è certo facile. “Tristi tropici” è un’avventura della conoscenza, un cruciale viaggio mentale al quale ci hanno abituato solo i grandi filosofi. Un romanzo più che un saggio scientifico. Ma non solo. E’ finalmente anche un viaggio reale e non solo mentale, con questi appunti e riflessioni del suo avventuroso studio etnologico in Brasile, immediatamente dopo aver conseguito la sua laurea in filosofia a Parigi. Un viaggio in piroscafo che illuminerà la cultura europea e mondiale che allora stagnava nelle paludi del razzismo, dell’ottimismo tecno-scientifico, della guerra, del darwinismo sociale, nel mito lineare del progresso e in una crisi economica mondiale che certo non migliorava le cose, anzi, spesso le peggiorava. Contrariamente a quello che potrebbe sembrare, la carriera di questo studioso nasce da cose semplici e inconfessabili, da ben noti istinti sociali (o a-sociali) primordiali. Scrive: “Ho ricercato la mia strada molto a lungo… in etnologia son un completo autodidatta. Una prima rivelazione l’ho avuta per ragioni inconfessabili: smania di evasione, desiderio di viaggiare”. Subito dopo la laurea, arrivato nel 1934 in Brasile per ricoprire una cattedra di sociologia a San Paolo, Levi-Strauss organizza dei viaggi in una nazione ancora inesplorata, che lo porteranno a contatto con popolazioni già contaminate dalla colonizzazione ma non ancora distrutte. Questa atmosfera di crisi e decadenza regna in tutto il libro. Qualche critico l’ha definita un’atmosfera lucreziana, ed è infatti una citazione di Lucrezio che Claude riporta nella prima pagina del suo libro: “nec minus ergo ante haec quam tu cecidere cadentque” (il senso di questa frase, nel suo contesto originale è: tutte le cose che ti sono precedute sono morte, allo stesso modo soccomberanno quelle che verranno dopo di te). Una decadenza che andava in netto contrasto, per esempio, con quel clima teleologico, quel vitalismo spiritualista e meliorista della storia che si respirava in Europa, creato e vissuto, fra gli altri, dalle voci più insospettabili come quella di Henri Bergson, allora di moda in tutta l’Europa, non solo in Francia. Pochi anni più tardi, il secondo conflitto mondiale ed il suo tremendo carico di morti avrebbe insanguinato l’Europa ed il mondo intero. All’interno del libro troveremo, fra le altre cose, abbozzi di quelle straordinarie intuizioni e riflessioni, sviluppate in altri suoi lavori, che faranno di lui l’innovatore dell’antropologia mondiale, ferma da lungo tempo a quelli stessi schemi mentali e filosofici che combatte nel corso del libro. Da Freud, Levi-Strauss impara che le antinomie statiche come “razionale” e “irrazionale” erano “non altro che giochi senza senso”. E, nel suo modo tipicamente antiprogressista ed eclettico di fare ricerca, trovò ispirazione perfino dalla geologia, una scienza che studia la natura dimostrando “la diversità vivente” e che “giustappone un’ età all’altra e le perpetua”. Ma oltre all’allora nascente strutturalismo, di cui lui è uno dei pincipali fondatori, è stato il marxismo che ha contribuito a completare il suo straordinario percorso intellettuale.

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Bias utili, i limiti della ragion pura. Recensione a “L’errore di Cartesio” di Antonio Damasio

Il capitano Kirk e Spock, emblemi cinematografici rispettivamente delle passioni umane e della ragione. Nonostante siano in antitesi, i due protagonisti sono uniti da una profonda amicizia

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E’ da sempre un imperativo categorico. Separare l’emozione dal ragionamento. E così facendo, si perdono le basi stesse di ciò che chiamiamo ragionamento, ciò che lo anima, lo motiva, né da i valori, il respiro, qualche volta anche il metodo. C’è una moda culturale che ha origini antiche fra gli studiosi che si occupano del problema mente – cervello: quella di concentrarsi sul ragionamento e sulle facoltà logiche, e di considerare le emozioni come una “complicazione” piuttosto deplorevole, di nessuna reale importanza per la reale comprensione di come funzioni la mente. Se invece danno importanza alle emozioni, se sembrano considerarle nelle loro teorie, le vedono come qualcosa di separato dall’attività intellettuale, come se la nostra mente fosse l’equivalente malfunzionante di un computer (una riduzione che spiega benissimo Roberto Marchesini nel suo Post Human, qui la recensione). Questa moda culturale, secondo Antonio Damasio, è l’”errore di Cartesio”, Cartesio a cui è notoriamente attribuita la frattura moderna fra mente e corpo, fra ragione ed emozioni. Damasio è un neurologo portoghese molto eclettico che si è convinto, tramite le sue osservazioni su pazienti con danni cerebrali, che quell’astrazione che chiamiamo “ragione” e che separiamo dei sentimenti, da sola, sia insufficiente per il buon funzionamento dell’intelletto. Danni a certe aree del cervello, in particolare alla corteccia prefrontale, possono lasciare il paziente apparentemente in buona salute, ma incapace di prendere decisioni complesse. Tale paziente, per esempio, può comprendere i fattori coinvolti nella conduzione della propria attività economica, ma può tuttavia elaborare decisioni che sono palesemente disastrose. Il processo decisionale così asettico e robotico descritto da molti scrittori di fantascienza, quello che caratterizza i processi mentali di super computer o di Spock della ciurma di Star Trek è in realtà tipico di individui cerebrolesi, ma non funziona nel mondo reale. In altre parole, abbiamo bisogno dei nostri pregiudizi emotivi (bias) per prendere decisioni, e per la nostra vita. Altrimenti, “non funzioniamo”.

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Il volto femminile della filosofia. Una recensione

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Il “Volto femminile della filosofia” vuole essere più di un libro, saggio o ricerca filosofica: è anzitutto un esame attento delle vite dei grandi pensatori del passato, uno sguardo curioso sulle loro dinamiche familiari, sulle condivisioni affettive ed esperenziali, per carpirne, come e quanto, queste ne abbiano influenzato pensiero e produzione. È un excursus biografico e bibliografico, che vede le donne compagne di viaggio, autrici nascoste di gesti, parole, azioni, che hanno condizionato, qualche volta indirizzato o addirittura educato il pensiero maschile. Eroine silenti di gesta quotidiane: mogli, madri, figlie, sorelle che, a modo loro, spesso come sagge consigliere, alle volte come presenze ingombranti, hanno contribuito a rendere grandi i filosofi.

Socrate, Seneca, Agostino, Immanuel Kant, Sigmund Freud per esempio abbiamo scoperto aver ricevuto ottimi esempi di vita rispettivamente da Fenarete, Elvia, Monica, Anna Regina e Amalie. sono nomi di donne comuni che la storia non ricorda perché non hanno scritto nulla, né tantomeno compiuto niente di eclatante, eppure il loro insegnamento, la loro esemplarità di vita, il loro carattere e pensiero hanno forgiato spiriti attenti, menti geniali e uomini di spessore. E il loro ruolo, non solo di genitrici ma anche di consigliere, viene riconosciuto pubblicamente da molti dei figli. Dirà per esempio Sant’Agostino ne Le Confessioni di Monica: “ci amò come se di tutti fosse stata la madre e ci servì come se di tutti fosse stata la figlia”, e Antonio Gramsci scrive alla madre “tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato tutte le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli” e ancora Giovanni Gentile dirà della genitrice: “la sua voce ancora e sempre dentro mi suona”.

 Da figli a padri, perché i pensatori hanno avuto vere e proprie lezioni di vita dalle stesse figlie, così per esempio Galileo Galilei, che nel periodo del processo e poi dell’abiura, veniva premurosamente sostenuto dalla figlia suor Maria Celeste, che così scriveva al padre: “considerando io (…) la giustizia della causa e la sua innocenza in questo particolare momento, mi consolo e piglio speranza di felice e prospero successo, con l’aiuto di Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai d’esclamare, e raccomandarla con tutto quell’affetto e confidenza possibile. Resta solo ch’Ella stia di buon animo, procurando di non pregiudicare alla santità con il soverchiamente affliggersi, rivolgendo il pensiero e la speranza sua in Dio, il quale, come padre amorevolissimo, non mai abbandona chi in Lui confida e a Lui ricorre”. Altre figlie come Jenny Marx e Anna Freud, calcheranno in tutto per tutto le orme dei loro illustri padri, divenendo attente discepole di un pensiero a cui daranno col tempo il loro contributo femminile.

Un posto nella storia dei filosofi è riservato anche alle sorelle: anime consanguinee, presenze attente alle volte anche fastidiose. Donne che si ritrovano a condividere parte della loro esistenza con uomini insicuri, fragili e desiderosi di consigli (sarà così per esempio per Blaise Pascal nei confronti della sorella Jacqueline), o riottosi, iracondi ed ermetici nelle riflessioni, spesso infastiditi da suggerimenti femminili non richiesti (è notoria a tal proposito l’insofferenza nutrita da Friedrich Nietzsche per la sorella Elisabeth).

E infine ci sono le donne amate, compagne di vita, in grado di lasciare nell’animo del filosofo pensieri malinconici tali da diventare stralci di poesie, così per esempio scriveva di Emilie, Voltaire “Non ho perso un’amante, ho perso la metà di me stesso”, mentre arrabatandosi nel suo dolore Kierkegaard affermava di Regina Olsen “La legge di tutta la mia vita è che lei ritorna in tutti i punti decisivi”; mentre Beccaria scriveva alla moglie Teresa sono in mezzo alle adorazioni, agli encomi, i più lusinghieri, considerato come compagno e collega dei più grandi uomini dell’Europa, guardato con ammirazione e con curiosità […] e pure io sono infelice e malcontento perché lontano da te”. Quando vicine le donne amate diventano invece preziose alleate, stelle polari, punti di riferimento nel cammino esistenziale, amiche che ascoltano e guidano, muse ispiratrici. Uno per tutti Karl Popper disse di Josephine Anna Henninger: “Senza di lei (…) molto di ciò che ho fatto non sarebbe mai stato realizzato“.

Nell’opera di Miriam Rocca, dunque, uomini straordinari di ieri e di oggi sono sempre affiancati da donne: donne che vivono nell’ombra, donne ispiratrici, donne impavide, fredde o generose, perché, come affermava Maritain: “… l’essere umano non è compiuto se non nell’uomo e nella donna presi insieme“.

Foucault e le donne del Premier. Una lettera – recensione a “Filosofia di Berlusconi”

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Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere (Culture)

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Articolo dal Corriere della Sera

Quei liberismi tra Foucault e il Bagaglino

In questo modello di emancipazione, le donne ricordano i primi salariati che affrancatisi dalla servitù della gleba misero in vendita la propria forza lavoro

Caro direttore,
c’è una curiosa tendenza, tutta italiana, a oscillare tra le più raffinate posizioni critiche e dissidenti (specie nella sinistra) e la barbarie, tra Foucault e il Bagaglino per intenderci. Mi pare invece che sia giunto il momento di andare in piazza ed essere numerose perché questo non è il tempo dei distinguo, delle raffinate discussioni fra le diverse anime del femminismo italiano, questo è il tempo della piazza. Questo è il tempo delle donne in piazza: l’indignazione, infatti, si dice in molti modi, non solamente annunciando che in Italia esistono donne per bene che studiano e lavorano – e che quindi si distinguono, in maniera autoevidente, da coloro che preferiscono fare altro – ma anche denunciando il semplice fatto che lo scambio fra sesso, denaro e potere sia divenuto il principale ambito di reclutamento «politico» delle donne. Che cosa hanno da dire su questo le donne? Va tutto bene, dunque?

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Quello che c'è da dire…

Certi Eventi non hanno nomi, entrano nell’immaginario collettivo per rimanervi. Per non essere dimenticati, perchè i drammi non si dimenticano. Si affrontano. Non hanno bisogno di essere nominati, di avere un volto. Perchè ogni volto si potrebbe sovrapporre all’altro. Ogni nome si potrebbe scrivere allo stesso modo. Perchè quello che racconta l’Evento è solo la materialità di una condizione umana. Una condizione comune, che non si scompone per ogni Essere umano che vi partecipa ma che comprende tutti. Siamo tutti compresi in questa giostra che produce massacro. I drammi, quindi, non dovrebbero essere negati bensì affrontati. I rimossi si fanno pesanti, sempre e comunque, e prima o poi ritornano come tragedie. Le sconfitte vanno sviscerate, per non cadere vittima dello sconfittismo.

Anche se, pensandoci, la vera tragedia è la nostra inconsapevolezza, la leggerezza con cui ci approcciamo al Mondo che ci circonda, sperando sempre nella sistemazione finale come “manna dal cielo”. Proprio la raffigurazione biblica della Manna sembra essere la più adatta a descrivere una certa attesa. Siamo nel deserto, ormai da troppo tempo. Cominciamo a vivere individualmente, costruendoci feticci di carta perchè ognuno ha bisogno di qualcosa in cui credere e, quando non c’è il Lavoro, il Reddito, spesso ci si rivolge al Cielo. Neghiamo ogni senso comune, ogni percezione collettiva delle cose e, soprattutto, degli Esseri umani.

La Verità, come ha detto qualcuno, è che “se cercate il colpevole, non c’è che da guardarsi allo specchio”. La responsabilità di questi Eventi e nostra, solo nostra. E’ una responsabilità collettiva, una sconfitta comune. Perchè siamo caduti tutti insieme in questo grande meccanismo di divisione che si chiama Mercato del Lavoro e non siamo mai riusciti a trovare elementi per fare rete, per condividere le Esperienze, per generalizzare un Conflitto. Stiamo insieme, ma ognuno si riflette nel proprio specchio. Anzi, ognuno sta fermo a guardarsi nel proprio pezzo di specchio (caducità del postmoderno). Camminiamo isolati, non pensando a nulla. Questa è la nostra sconfitta.

Da leggere: La Repubblica, Link, Prestazione Occasionale, Alfredo Ferrara.