Perchè i colori non suonano? di Kevin O’Regan

Recensione di Stefano Comito

Kevin O’Reagan in questo libro propone la sua teoria rivoluzionaria della coscienza e della percezione visiva. La sua concezione è definita da lui stesso: teoria sensorimotoria ed appartiene all’ala deviazionistica della scienza cognitiva. Oggi, nelle scienze cognitive prevale la tesi che, secondo alcuni “dissenzienti” ed “eterodossi” è diventata un’ideologia, prevede che ogni processo cognitivo e percettivo sia possibile grazie alla capacità del cervello di elaborare l’informazione e costruire la rappresentazione tridimensionale e stabile del mondo esterno, come nel caso della visione (di cui parlerò); inoltre, sempre secondo questa ideologia, il cervello è necessario e sufficiente per spiegare l’esperienza conscia, basta semplicemente cercare i correlati neurali della coscienza fenomenica che il nostro psicologo definisce con il termine di pura sensazione.

Nella prima parte del libro O’Reagan tratta il problema della percezione visiva (cap. 1-5), mentre nella seconda parte elabora la sua teoria radicale della coscienza (cap.6-15). Secondo la psicologia cognitiva classica, il cervello elabora l’informazione che proviene dall’occhio, generando una rappresentazione tridimensionale stabile e dettagliata del mondo esterno. Questa teoria, detta anche del “riempimento”, è stata accettata a partire dal fatto che, in realtà, l’occhio è imperfetto, come dimostra il fatto che nel campo visivo in particolari condizioni di illuminazione e angolazione, si produce quella che è definita: “macchia cieca”, cioè, una particolare zona del campo visivo dove non è possibile effettivamente vedere. Altra particolare caratteristica dell’occhio è nella parte posteriore della retina dove è prodotta l’immagine del mondo esterno (la cosiddetta “immagine retinica”) già scoperta da Keplero e Cartesio. Il problema è che l’immagine è capovolta, bidimensionale e povera nei dettagli: come facciamo, allora, a percepire la realtà in maniera sorprendentemente ricca e dettagliata? La scienza cognitiva assume, ancora una volta, che il cervello corregga questa povertà di informazione grazie alla sua capacità di elaborarla e produrre una rappresentazione interna del mondo esterno. Ecco, allora, il primo problema rilevato da O’Reagan: se la mente elabora la rappresentazione del mondo, deve esserci qualcuno all’interno, un occhio della mente, che scruta questa rappresentazione o immagine pittorica. È la cosiddetta “fallacia dell’omuncolo” che nel teatro cartesiano della nostra mente osserva l’immagine del mondo esterno e ci porta sul crinale pericoloso di un regresso all’infinito (chi guarda l’immagine nella mente dell’omuncolo? e così via…). Preso atto del “disastro dell’occhio” (pag.3), O’Reagan teorizza che la visione nasca dall’interazione con il mondo esterno, meglio, dalla qualità dell’interazione con esso sulla base di una concezione sensorimotoria alla percezione visiva. L’occhio ha capacità esplorative e, molto importante, l’informazione non è elaborata dal cervello, ma direttamente estratta dal mondo da parte del sistema visivo. La visione nasce dal rapporto dinamico tra il movimento dell’animale e l’input sensoriale, quest’ultimo, si modifica a seconda dell’interazione dell’agente cognitivo con esso. Questa teoria si basa sull’approccio ecologico dello psicologo americano J.J. Gibson che nel suo L’approccio ecologico alla percezione visiva (1979), parlava in maniera diretta della capacità da parte dell’organismo di estrarre l’informazione dall’ambiente esterno in maniera dinamica, attiva ed esplorativa, in quanto viviamo in un mare di informazioni acustiche, visive, tattili, uditive, olfattive. Anche il filosofo Alva Noe in Perché non siamo il nostro cervello, assume che il cervello non riassume in sé tutta la storia relativa alla percezione e che molto da dire rimane sulla relazione dinamica tra il cervello, il corpo, l’ambiente: non siamo “cervelli in una vasca” come sosteneva, invece, il filosofo Hilary Putnam e come è raccontato nel celebre film di fantascienza, The Matrix. Niente paura, il mondo non è un’illusione prodotta dall’attività del cervello, ma è la nostra casa.

O’Reagan durante una conferenza Talk

Dopo avere fatto propria la distinzione di Ned Block tra coscienza d’accesso e coscienza fenomenica, nella seconda parte del libro O’Reagan applica la teoria sensorimotoria alla spiegazione di quest’ultima, l’hard problem dei filosofi, che O’Reagan definisce con il termine di “pura sensazione”. La “pura sensazione è qualsiasi cosa le persone riferiscono quando parlano dei più fondamentali aspetti della loro esperienza…quello che i filosofi chiamano qualia, la qualità fondamentale dell’esperienza o “ciò che si prova in essa” (pag. 142). L’approccio dominante ritiene che si debbano cercare i correlati neurali della coscienza fenomenica. Invece, per O’Reagan, non è possibile trovare i neurotrasmettitori fondamentali dell’esperienza perché è incommensurabile il divario tra i meccanismi cerebrali e le pure sensazioni; anche postulare i sensatomi (atomi di sensazione), cioè, i mattoni fondamentali della coscienza fenomenica (il corrispettivo della massa, del peso e della gravità nelle scienze fisiche) renderebbe necessario spiegare perché proprio quei meccanismi neurali generano quel particolare tipo di fenomenicità e non un altro: “Ci sono centinaia di articoli nella letteratura sulla coscienza che propongono meccanismi altisonanti come “la riverberazione cortico-talamica”, le “oscillazioni sincroniche” diffuse, “i fenomeni di gravità quantistica nei microtubuli neurali…ognuno di quei meccanismi, non importa quanto altisonante sia, lascerà sempre aperta un’altra questione: perché il meccanismo produce questa sensazione piuttosto che un’altra?” (pag.150). O’Reagan teorizza che anche la coscienza fenomenica nasca sulla base della qualità della nostra interazione con il mondo esterno, cioè, delle differenti cose che facciamo quando entriamo in relazione con l’ambiente sulla base di astratte leggi sensorimotorie; di conseguenza la fenomenicità non è generata dal nostro cervello, anche se questo è necessario per interagire in maniera efficiente con il mondo. Per O’Reagan i qualia non sono ineffabili e non sono più un mistero, anzi, c’è un senso per cui non esistono nemmeno (come sostiene Dennett), ma dobbiamo in qualche modo rendere giustizia del sentire comune che teorizza l’esistenza dell’esperienza della pura sensazione e il nostro psicologo lo fa all’interno di una cornice che in futuro potrà essere scientifica.

L’approccio sensorimotorio alla coscienza e alla percezione si colloca all’interno del contesto più generale della teoria della scienza cognitiva incorporata (embodied), situata (embedded) che si concludono con la riscoperta del corpo e dell’ambiente. Queste posizioni ritengono si debba dare una svolta decisiva alle scienze cognitive, perché il cervello non è il luogo giusto dove collocare l’esperienza conscia e si spingono più in là teorizzando l’estensione delle nostre facoltà cognitive al di là della frontiera costituita dalla nostra pelle, il loro potenziamento e la diffusione nell’ambiente esterno, anche a scapito dell’immagine tradizionale dell’essere umano.

L’origine del COVID-19. Nel 2012, David Quammen la spiegava così

Questo è quello che scriveva, nel 2012, lo scrittore e divulgatore scientifico David Quammen, nel suo famosissimo “Spillover. L’evoluzione Delle Epidemie“.  Nessun laboratorio segreto, nessun complotto. La prossima pandemia, il Big One, per Quammen sarebbe nata o in mercato cittadino della Cina meridionale o in una foresta equatoriale. Per motivi ben noti alla comunità scientifica e all’ecologia, che lo scrittore delineava efficacemente.
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In un elenco dei momenti topici e più ansiogeni di questa saga, oltre a Machupo non possono mancare Marburg (1967), Lassa (1969), Ebola (1976, con un nuovo coinvolgimento in prima persona di Karl Johnson), HIV-1 (riconosciuto indirettamente nel 1981, isolato nel 1983), HIV-2 (1986), Sin Nombre (1993), Hendra (1994), influenza aviaria (1997), Nipah (1998), febbre del Nilo occidentale (1999), SARS (2003) e la tanto temuta ma in ultima analisi poco grave influenza suina (2009). Ci sono più drammi e virus in questa storia di quanti ne ospitasse la povera cavalla di Vic Rail.

Si potrebbe pensare che questa lista sia una sequenza di eventi tragici ma non correlati, una serie di sfortunate coincidenze che ci hanno colpito per motivi imperscrutabili. Messa così, Machupo, HIV e SARS sono, in senso sia figurato sia letterale, «calamità naturali», dolorosi accidenti alla pari di terremoti, eruzioni vulcaniche e meteoriti, di cui si possono forse minimizzare le conseguenze ma che rimangono inevitabili. È una posizione passiva e quasi stoica, ed è sbagliata.

Che sia chiaro da subito: c’è una correlazione tra queste malattie che saltano fuori una dopo l’altra, e non si tratta di meri accidenti ma di conseguenze non volute di nostre azioni. Sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica e una sanitaria. Sommandosi, le loro conseguenze si mostrano sotto forma di una sequenza di malattie nuove, strane e terribili, che emergono da ospiti inaspettati e che creano serissime preoccupazioni e timori per il futuro negli scienziati che le studiano. Come fanno questi patogeni a compiere il salto dagli animali agli uomini e perché sembra che ciò avvenga con maggiore frequenza negli ultimi tempi? Per metterla nel modo più piano possibile: perché da un lato la devastazione ambientale causata dalla pressione della nostra specie sta creando nuove occasioni di contatto con i patogeni, e dall’altro la nostra tecnologia e i nostri modelli sociali contribuiscono a diffonderli in modo ancor più rapido e generalizzato. Ci sono tre elementi da considerare.

Uno. Le attività umane sono causa della disintegrazione (e non ho scelto questa parola a caso) di vari ecosistemi a un tasso che ha le caratteristiche del cataclisma. Tutti sappiamo come ciò avvenga a grandi linee: la deforestazione, la costruzione di strade e infrastrutture, l’aumento del terreno agricolo e dei pascoli, la caccia alla fauna selvatica (strano, quando lo fanno gli africani è «bracconaggio», quando lo fanno gli occidentali è uno «sport»), l’attività mineraria, l’aumento degli insediamenti urbani e il consumo di suolo, l’inquinamento, lo sversamento di sostanze organiche nei mari, lo sfruttamento insostenibile delle risorse ittiche, il cambiamento climatico, il commercio internazionale di beni la cui produzione comporta uno o più problemi sopradescritti e tutte le altre attività dell’uomo «civilizzato» che hanno conseguenze sul territorio. Stiamo, in poche parole, sbriciolando tutti gli ecosistemi. Non è una novità recentissima. Gli esseri umani hanno praticato gran parte di queste attività per molto tempo, anche se a lungo con l’ausilio di semplici strumenti. Oggi però siamo sette miliardi e abbiamo per le mani moderne tecnologie, il che rende il nostro impatto ambientale globale insostenibile. Le foreste tropicali non sono l’unico ambiente in pericolo, ma sono di sicuro il più ricco di vita e il più complesso. In questi ecosistemi vivono milioni di specie, in gran parte sconosciute alla scienza moderna, non classificate o a malapena etichettate e poco comprese.

Due. Tra questi milioni di specie ignote ci sono virus, batteri, funghi, protisti e altri organismi, molti dei quali parassiti. Gli specialisti oggi usano il termine «virosfera» per identificare un universo di viventi che probabilmente fa impallidire per dimensione ogni altro gruppo. Molti virus, per esempio, abitano le foreste dell’Africa centrale, parassitando specifici batteri, animali, funghi o protisti, e questa specificità limita il loro raggio d’azione e la loro abbondanza. Ebola, Marburg, Lassa, il vaiolo delle scimmie e il precursore dell’HIV sono un campione minuscolo di quel che offre il menù, della miriade di altri virus non ancora scoperti che in alcuni casi stanno quieti dentro ospiti a loro volta ignoti. I virus riescono a moltiplicarsi solo all’interno delle cellule vive di qualche altro organismo, in genere un animale o una pianta con cui hanno instaurato una relazione intima, antica e spesso (ma non sempre) di mutuo soccorso. Nella maggioranza dei casi, dunque, sono parassiti benevoli, che non riescono a vivere fuori del loro ospite e non fanno troppi danni. Ogni tanto uccidono una scimmia o un uccello qua e là, ma le loro carcasse vengono rapidamente metabolizzate dalla giungla. Gli uomini non se ne accorgono quasi mai.

Tre. Oggi però la distruzione degli ecosistemi sembra avere tra le sue conseguenze la sempre più frequente comparsa di patogeni in ambiti più vasti di quelli originari. Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale ha due possibilità: trovare una nuova casa, un nuovo tipo di casa, o estinguersi. Dunque non ce l’hanno con noi, siamo noi a esser diventati molesti, visibili e assai abbondanti. «Se osserviamo il pianeta dal punto di vista di un virus affamato» scrive lo storico William H. McNeill «o di un batterio, vediamo un meraviglioso banchetto con miliardi di corpi umani disponibili, che fino a poco tempo fa erano circa la metà di adesso, perché in venticinque-ventisette anni siamo raddoppiati di numero. Siamo un eccellente bersaglio per tutti quegli organismi in grado di adattarsi quel che basta per invaderci» 7 I virus, soprattutto quelli di un certo tipo, il cui genoma consiste di RNA e non DNA e dunque è più soggetto a mutazioni, si adattano bene e velocemente a nuove condizioni.

Tutti questi fattori non hanno portato solo all’emergere di nuove malattie e di tragedie isolate, ma a nuove epidemie e pandemie, di cui la più terribile, catastrofica e tristemente nota è quella provocata da un virus classificato come HIV-1 gruppo M (ne esistono altri undici parenti), cioè quello che causa la maggior parte dei casi di AIDS nel mondo. Ha già ucciso trenta milioni di persone dalla sua comparsa una trentina di anni fa e oggi altri trentaquattro milioni circa sono infetti. Nonostante la sua diffusione planetaria, pochi conoscono la fatale combinazione di eventi che portò il virus HIV-1 gruppo M a uscire dalla remota giungla africana dove i suoi antenati stavano ospiti delle scimmie, in apparenza senza causare danni, e a entrare nel corso della storia umana. Ben pochi sanno che la vera storia dell’AIDS non inizia tra la comunità omosessuale americana nel 1981 o in qualche metropoli africana negli anni Sessanta, ma cinquant’anni prima, alle sorgenti di un fiume chiamato Sangha, nella giungla del Camerun sudorientale. Ancora meno hanno avuto notìzia delle sorprendenti scoperte degli ultimi anni, che ci hanno permesso di aggiungere dettagli alla storia e di rivedere le nostre posizioni. Ne parleremo nel capitolo 8; però sappiate fin d’ora che se anche l’argomento delle zoonosi fosse limitato all’emergere dell’AIDS basterebbe da solo a richiedere seria attenzione e sforzi da parte nostra. Ma come abbiamo già visto, c’è molto altro in ballo: pandemie e catastrofi sanitarie del passato (la peste bubbonica, l’influenza), del presente (la malaria, l’influenza) e del futuro.

Le malattie del futuro, ovviamente, sono motivo di grande preoccupazione per scienziati ed esperti di sanità pubblica. Non c’è alcun motivo di credere che l’AIDS rimarrà l’unico disastro globale della nostra epoca causato da uno strano microbo saltato fuori da un animale. Qualche Cassandra bene informata parla addirittura del Next Big One, il prossimo grande evento, come di un fatto inevitabile (per i sismologi californiani il Big One è il terremoto che farà sprofondare in mare San Francisco, ma in questo contesto è un’epidemia letale di dimensioni catastrofiche). Sarà causato da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale?

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Due ricercatori dell’Università di Edimburgo hanno pubblicato nel 2005 uno studio che ha esaminato 1407 specie note di patogeni umani: ha scoperto che il 58 per cento sono di origine animale. Solo 177 sul totale si possono considerare emergenti o riemergenti, e tre quarti dei patogeni emergenti provengono dagli animali. In parole povere: ogni nuova e strana malattia, con grande probabilità, arriva dagli animali. Un altro studio condotto in parallelo dal gruppo di Kate E. Jones, della Zoological Society di Londra, è stato pubblicato su «Nature» nel 2008. Gli autori esaminavano più di trecento malattie infettive emergenti (EIDS, Emerging Infections Diseases, nella scrittura abbreviata dell’articolo) apparse tra il 1940 e il 2004, interrogandosi sulle variazioni di tendenza nonché sui pattern spaziali del fenomeno. Benché la loro lista di «eventi» fosse indipendente dall’elenco di patogeni dei ricercatori di Edimburgo, Kate Jones e colleghi trovarono quasi la stessa percentuale di zoonosi (il 60,3 per cento). «Inoltre il 71,8 per cento di questi eventi EIDS zoonotici erano causati da patogeni provenienti da animali selvatici», 8 distinti quindi da quelli domestici. Essi citavano Nipah in Malesia e la SARS nella Cina meridionale. Inoltre, la maggiore incidenza delle malattie associate alla fauna selvatica, a differenza di quelle dovute agli animali domestici, tendeva ad aumentare nel tempo: «Le zoonosi di origine selvatica rappresentano la più consistente e crescente minaccia alla salute della popolazione mondiale tra tutte le malattie emergenti» è la conclusione degli autori. «Le nostre scoperte mettono in evidenza la necessità ineludibile di monitorare lo stato di salute globale e di identificare nuovi patogeni potenzialmente trasmissibili all’uomo nella fauna selvatica come misura preventiva nei confronti di future malattie emergenti». Sembra una proposta ragionevole: teniamo d’occhio gli animali selvatici, perché mentre li stiamo assediando, accerchiando, sterminando e macellando, ci passano le loro malattie.

Thomas Nagel, Questioni mortali. Una recensione

(di Stefano Comito)

Thomas Nagel è un filosofo serbo, naturalizzato americano, il cui campo di interesse spazia dall’etica fino alla filosofia della mente, all’interno dell’ambito di indagine della filosofia analitica. Tra i suoi scritti più importanti si devono annoverare, tra gli altri, saggi come: Uno sguardo da nessun luogo, La possibilità dell’altruismo e anche il più recente La mente e il cosmo. Quest’ultima opera è una critica radicale al materialismo, che permea di sé la scienza, e alla possibilità del fisicalismo di fornire una spiegazione esauriente del cosmo, a partire dall’assunzione dell’esistenza di esseri senzienti dotati di caratteristiche mentali.

Questioni mortali è un’opera del 1979, ma è ancora attuale al giorno d’oggi dopo quarant’anni, in quanto affronta problematiche che sono ancora vive all’interno del dibattito filosofico odierno, anzi, possiamo dire che il nostro filosofo abbia precorso i tempi. Basti pensare al suo anti-riduzionismo in filosofia della mente che resiste agli attacchi di qualsiasi filosofia riduzionista o eliminativista, vedi Daniel Dennett o Paul e Patricia Churchland, nei riguardi dell’indagine nel campo degli studi sulla coscienza. Non solo, è contenuta all’interno dell’opera, una strenua opposizione all’etica utilitarista o consequenzialista, che dominava il panorama etico-politico negli anni ’70 e una critica molto aspra nei riguardi dell’intervento militare statunitense in Vietnam accusato di avere sacrificato la vita di migliaia di innocenti, donne, bambini e popolazione inerme, in virtù di obiettivi di carattere più generale come l’esito finale del conflitto. Questioni mortali affronta diverse problematiche: la morte, l’assurdo, il sesso, la sorte morale, l’etica, il problema mente-corpo.
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Come uscire dalla caverna. La filosofia di Westworld

 

Sotto l’onnipresente musica del Debussy di “Reverie”, che contribuisce a creare un paesaggio onirico in cui si ridefinisce il concetto stesso di realtà, gli sceneggiatori/divinità Jonathan Nolan e Lisa Joy costruiscono un palcoscenico teatrale in cui uomini e macchine si scambiano i propri copioni/programmazioni, ed in cui si riedificano, come da buona tradizione della letteratura classica e fantascientifica, l’identità, il concetto di soglia, quello di autocoscienza e di libertà. Westworld è uno dei più meravigliosi prodotti di letteratura cinematografica degli ultimi anni,  travalicando l’etichetta di “fantascienza” per approdare ad un racconto esistenziale sui confini dell’umano: e come ben si sa, vivere ai confini significa rendersi conto dei vari “interregni” tra una zona e l’altra. Per guardarsi finalmente con occhi diversi.   (ATTENZIONE, SEGUE SPOILER)
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Perchè un referendum come questo è un grande laboratorio psicosociale

Recalcati alla Leopolda illustra le sue "ragioni" per il sì. Psicanalizzando e quasi patologizzando le ragioni del NO, ma non le sue

Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un giocattolo della tua “grande ragione” (Friedrich Nietzsche, Dei dispregiatori del corpo, in Così parlò Zarathustra)

Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per “la gente comune” e le “sane opinioni del popolo” […] invece di indignarsi o di prendere gioco, a guisa dei “mezzo addottrinati”, sempre pronti a “fare i filosofi” e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune” (Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane)

Il referendum costituzionale italiano, non molto dissimile da quello pseudo referendum che ha animato la campagna dualista delle elezioni americane, con la logica binaria dei sì e dei no, e con l’accavallarsi di “pseudo ragioni” da tutte le parti coinvolte, è un prezioso laboratorio di psicologia sociale che ci riporta ad un dato di fatto che affiora prepotentemente proprio in questi casi, ma che è onnipresente nelle nostre vite di ogni giorno. Questa verità riguarda il proprio posizionamento e il concetto stesso di “decisione”. In questa giostra, sono coinvolte persone più o meno istruite, ma il risultato è sostanzialmente invariabile. Una delle principali differenze tra intellettuali e “popolo” è che i primi motivano i propri pregiudizi in maniera sontuosa; il secondo non li motiva affatto o lo fa in maniera grossolana. In tutti e due i casi, altro non si fa che dare a se stessi e agli altri delle ragioni di precedenti scelte o pseudo-tali fatte sulla base d’impressioni o di altre componenti psicologiche e sociali. Queste giustificazioni posteriori cambiano a seconda del proprio capitale educativo, e perciò posson essere più o meno complesse, più o meno raffinate. Fatto sta che prima scegliamo, o ci avviciniamo nettamente alla scelta, poi la giustifichiamo, razionalizzando.
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La più bella delle teorie


(Il presente articolo è tratto da “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli)

Da ragazzo, Albert Einstein ha trascorso quasi un anno a bighellonare oziosamente. Era a Pavia, dove aveva raggiunto la famiglia, dopo avere abbandonato gli studi in Germania. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, fatto che spesso dimenticano i genitori degli adolescenti. Era l’inizio della rivoluzione industriale, e il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in Italia. Poi Albert si era iscritto all’Università di Zurigo e si era immerso nella fisica. Pochi anni dopo, nel 1905, aveva spedito tre articoli in un’unica busta alla principale rivista scientifica del tempo, gli «Annalen der Physik». Ciascuno dei tre valeva un Nobel. Il primo mostrava che gli atomi esistono davvero. Il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, di cui spero di dire qualcosa in futuro su questa pagina. Il terzo presentava la Teoria della Relatività (oggi chiamata «relatività ristretta»), che chiarisce che il tempo non passa eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente. Einstein diventa un fisico rinomato e riceve offerte di lavoro da diverse università. Ma qualcosa lo turba: la sua Teoria della Relatività non quadra con quanto sappiamo sulla gravità. Se ne accorge scrivendo un articolo di rassegna sulla nuova teoria, e si chiede se la vetusta e paludata «gravitazione universale» del grande padre Newton non debba essere riveduta anch’essa, per renderla compatibile con la nuova relatività. S’immerge nel problema. Ci vorranno dieci anni per risolverlo. Dieci anni di studi pazzi, tentativi, errori, confusione, idee folgoranti, idee sbagliate. Finalmente, nel novembre del 1915, manda alle stampe un articolo con la soluzione completa: una nuova teoria della gravità, cui dà nome «Teoria della Relatività Generale», il suo capolavoro. La «più bella delle teorie» l’ha chiamata il grande fisico russo Lev Landau.
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Searle, La riscoperta della mente. Una recensione

a cura di Stefano Comito

Searle contro Dennett

John Searle, filosofo americano, inizia la sua carriera incentrando il proprio interesse sulla filosofia del linguaggio, ma con il passare del tempo i suoi studi si spostano nell’ambito della filosofia della mente, tant’è vero che è lui stesso a considerare la filosofia del linguaggio un ramo della filosofia della mente. Tuttavia, il rapporto tra Searle e i filosofi della mente non è idilliaco. Infatti ha talvolta sostenuto come in questo ramo della filosofia analitica vi siano persone che hanno acquisito fama e notorietà, senza avere fornito alcun contributo rilevante alla comprensione dei fenomeni mentali. Potremmo dire che ogni riferimento da parte di Searle a Dennett non è per niente casuale considerando anche l’assoluta divergenza tra le teorie che propongono i due pensatori.  La riscoperta della mente è il testo più appassionato della produzione di Searle, in cui tenta di scardinare la tesi, sostenuta da Dennett e dai materialisti, che concepisce la mente come il software che “gira” nell’hardware cerebrale e che paragona dunque la mente a un programma per calcolatore. Searle aveva già argomentato con l’esperimento mentale della stanza cinese che in realtà la metafora della mente come un programma per computer è fuorviante ma in questo saggio va ancora più in profondità, contestando anche il progetto di ricerca della psicologia cognitiva che concepisce il cervello come un elaboratore di informazioni.

I primi due capitoli sono dedicati ad abbattere le tesi materialiste eliminativiste dei vari Dennett, Paul e Patricia Churchland, Rorty e Stich e il comportamentismo di Wittgenstein e Ryle. Il terzo capitolo Searle lo dedica all’esposizione di alcuni esperimenti mentali al fine di chiarire come non vi sia necessariamente una connessione tra coscienza e comportamento. La parte centrale del saggio è dedicata a esporre la sua teoria della coscienza; infine, negli ultimi due capitoli critica il programma di ricerca della psicologia cognitiva.

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Il catalogo degli schemi retorici più usati contro i vegetariani

Si può essere vegetariani incoerenti. Ma anche onnivori incoerenti. E allora?

Per correttezza mettiamo le carte in tavola, e lo facciamo nel primo rigo di questo intervento: chi scrive segue una dieta vegetariana. Nessun giudizio su chi non lo fa. Al contrario: spesso il nostro problema è solo quello di difenderci, in quanto, psicologicamente, essere vegetariani può rappresentare per alcune categorie di onnivori (per fortuna limitate) una sorta di accusa implicita alle altrui abitudini, e provoca spesso reazioni. Queste reazioni sono poi condizionate dalla madre di tutti gli errori: la dissonanza cognitiva. L’impossibilità, per i più,  di convivere con la propria naturale ed inestinguibile incoerenza, o con un qualsiasi senso di colpa, ci costringe a cambiare i fatti che ci circondano. Quindi accade che se io non riesco a cambiare il mio comportamento (per sanare contraddizioni e sensi di colpa), allora devono essere i fatti che mi fanno star male ad essere sbagliati. Ci accaniamo contro dei fatti, come fa la volpe con l’uva, distorcendoli per accontentare le nostre esigenze psicologiche. Ma a proposito di reazioni:  su facebook ed internet in generale, però, le accuse si fanno pesanti: pullulano giudizi molto severi (è doveroso dirlo, da entrambe le parti): gruppi, gruppetti, sette e “controsette” in lotta continua fra loro. I meccanismi da social network estremizzano le idee e le posizioni, creano continuamente e strumentalmente false dicotomie, polarizzazioni e partiti, semplificano la realtà, fomentano estremizzazioni spesso per fini solamente economici e pubblicitari (i siti internet vivono di click e banner pubblicitari, i gruppi su facebook più scatenano risse e più aumentano di popolarità). La nostra mente, come scriveva l’antropologo Lévi-Strauss, funziona già per opposizioni  binarie come crudo/cotto, la rete non fa che sfruttare questa tendenza. Uno dei temi più “semplificati” in rete con la creazione di false dicotomie è appunto un argomento che meriterebbe più rispetto ed un dibattito serio: l’alimentazione vegetariana/vegana. Questo intervento, che vuole essere un cantiere aperto, cerca di problematizzare alcune semplificazioni in cui ci si imbatte non solo su internet, ma vivendo quotidianamente. Cominciamo col dire che prossimamente pubblicheremo un vademecum della retorica di vegani e vegetariani. Per ora, iniziamo dall’altra parte. Questi schemi nella stragrande maggioranza delle volte non sono usati consapevolmente, nel senso che è la nostra mente, la nostra cultura e il nostro linguaggio che funziona così. E questo non solo quando vegetariani, vegani, onnivori e carnivori litigano fra loro, ma in tanti altri argomenti e casi argomentativi. Usiamo schemi retorici nella stragrande maggioranza delle volte perché la comunicazione spesso ci “obbliga” a difendere una argomentazione e sminuire quella del nostro avversario, e per far questo usiamo non mezzi razionali (argomentazioni), ma irrazionali (spesso più efficaci). E lo facciamo senza averli studiati. Nelle seguenti frasi, che analizzeremo come exemplum di casi simili, spesso ci sono più combinazioni di fallacie. Saranno analizzati solo gli stereotipi retorici più comuni usati contro vegetariani /vegani, non certo le tante affermazioni usate da alcuni onnivori per difendere le proprie posizioni, come può esserlo la frase “mangio carne perché gli animali  non sono soggetti morali”. Certo, il confine fra i due casi può divenire labile. Ma il secondo  tipo di lavoro meriterebbe un libro a parte e non è nel nostro interesse scriverlo.
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Anelli dell’Io, di Douglas Hofstadter. Una recensione di Stefano Comito

Il titolo originale del libro è “I’m a strange loop” (2007)

Douglas Hofstadter è un brillante neuroscienziato, filosofo e divulgatore scientifico che insegna psicologia e informatica all’Università dell’Indiana negli Stati Uniti. Anelli nell’Io è un’opera recente, infatti, è pubblicata nel 2008 a molti anni di distanza dal saggio che ha fatto conoscere Hofstadter al mondo intero, ossia, Gödel, Escher, Bach o GEBHofstadter ammette che Anelli nell’Io nasce anche sull’onda emotiva di GEB, poiché ha sempre avuto l’impressione che il messaggio centrale contenuto in Gödel, Escher, Bach non sia mai stato compreso in tutta la sua pienezza. Tuttavia, GEB non è l’unica opera che ha reso famoso Hofstadter; molto prolifica e intensa è stata la sua collaborazione con Daniel Dennett insieme con il quale, nel 1981, ha contribuito alla pubblicazione dell’opera L’io della mente che ottenne molto successo. L’influenza della collaborazione con il filosofo americano si ripercuote nelle idee di Hofstadter e si riscontra anche in Anelli nell’Io in cui il capitolo XVI è dedicato interamente allo scambio di e-mail tra i due in un periodo buio della vita di Hofstadter, ovvero, quello successivo alla scomparsa della moglie Carol.

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Il Robocop di Dennett

…when the machine fights the system releases signals into Alex’s brain… making him think he’s doing what our computers are actually doing. I mean, Alex believes right now he is in control. But, he’s not. It’s illusion of free will….” (il dottor Norton Dennett)

Il remake di Robocop è un autentico condensato di filosofia della mente e scienze  cognitive, oltre che un’inquietante riflessione sull’indistinzione postumana fra macchina e mondo biologico. Il dottore che trasforma il poliziotto Alex Murphy in un ibrido biomeccanico si chiama Dennett Norton, un chiaro riferimento al filosofo americano Deniel Dennett. In un passaggio inequivocabile del film, mentre tecnici e medici testano le capacità dell’ibrido in modalità “offensiva”, si fa riferimento proprio alla teoria della coscienza di Dennett: Murphy crede di essere a capo del suo corpo biomeccanico, mentre ne è solo il passeggero. Un concetto che il neurochirurgo e saggista Arnaldo Benini riassume così: “innumerevoli studi di neuropsicologia, di neuroimaging e di neurologia tendono a dimostrare che la coscienza di ogni decisione è preceduta da un aumento d’attività nelle aree specifiche della corteccia celebrale. La coscienza è informata – con l’illusione di esserne artefice – quando l’evento è già in atto, a volte con un ritardo di 10 secondi.  […] Non è una scelta, è un meccanismo spontaneo del cervello che anticipa la coscienza. Il sistema nervoso non agisce a comando, ma spontaneamente

Inoltre: la teoria di Antonio Damasio riquardo l’indispensabilità alla vita umana dei bias cognitivi (Alex Murphy nel prendere decisioni “aperte” e nel percepire emozioni rallenta le sue prestazioni rispetto alle altre macchine non ibride. Per funzionare in maniera efficiente ed efficace come le altre macchine, l’essere umano deve essere diminuito) è il sottofondo dell’intero film. In ultima analisi, i bias e le collegate emozioni sono l’umanità che ancora rimane nell’ibrido, senza i quali l’indistinzione uomo-macchina sarebbe totale. In questo nulla di assolutamente nuovo, ma il tutto è raccontato in maniera visivamente incisiva.


Thomas Kuhn e la struttura della scienza

 a cura di Manuel Cappello

In questo articolo vengono prese in considerazione le idee più importanti del libro di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche,
The Structure of Scientific Revolutions (1), fra cui in particolare il concetto di paradigma nella sua componente tacita, automatica, preliminare alla razionalità discorsiva. Viene esplicitato il legame fra la natura del paradigma e la questione dell’incommensurabilità fra le diverse visioni scientifiche, e viene evidenziato il ruolo della comunità scientifica come strumento per fare fronte a tale problema. L’opera in oggetto è presentata come un contributo positivo all’impresa scientifica e non come l’affermazione di un relativismo di origine sociale.

I.      PENDOLI O PIETRE DONDOLANTI? GLI ESEMPI DI KUHN
II.    
IL PARADIGMA: FUNZIONE ED ESSENZA
III.   
IL FUNZIONAMENTO DEL PRESUPPOSTO
IV.   
INTERNALISMO
V.    
LA SCIENZA NORMALE: L’ATTIVITÀ GUIDATA DAL PARADIGMA STABILE
VI.   
INSEGUENDO I ROMPICAPO
VII.  
IL RUOLO DELLA CRISI
VIII. 
LA DEFINIZIONE DI UN VOCABOLARIO?
IX.   
INCOMMENSURABILITÀ E IRRAZIONALITÀ NELLA TRANSIZIONE FRA PARADIGMI
X.    
INTIMITÀ DEL PARADIGMA
XI.   
SMETTERE DI SAPERE
XII.  
UN VERSO NELLA PSICHE
XIII. 
ALCUNE CONCLUSIONI: LA RAZIONALITÀ RITROVATA
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Daniel Dennett, Coscienza. Che cosa è? Una recensione

a cura di Stefano Comito

I filosofi statunitensi John Searle e Daniel Dennett

I misteri sono eccitanti, dopo tutto fanno parte delle cose che rendono la nostra vita divertente […] Una volta che il segreto è svelato non si può più tornare indietro nello stato di piacevole mistificazione che prima ci ammaliava”(pag.32).

 Con queste parole scritte nella prima parte di Coscienza. Che cosa è. Daniel Dennett lancia la sfida alla filosofia dualista, alla cui base c’è l’idea che la coscienza sia misteriosa e ineffabile e che non può essere spiegata dal metodo tradizionale con cui la scienza indaga la realtà; da Cartesio in poi la coscienza, estromessa dall’ambito di osservazione delle scienze naturali, non è un oggetto da indagare ma un mito avvolto nel mistero. In fin dei conti per Dennett i dualisti sono partiti da qualcosa di fondamentale alla luce delle proprie intuizioni, ma è il filosofo americano ad avvertire: “ Visto il modo in cui […] sguazza nel mistero accettare il dualismo significa rinunciare a capire” (pag.49).

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