Thomas Nagel, Questioni mortali. Una recensione

(di Stefano Comito)

Thomas Nagel è un filosofo serbo, naturalizzato americano, il cui campo di interesse spazia dall’etica fino alla filosofia della mente, all’interno dell’ambito di indagine della filosofia analitica. Tra i suoi scritti più importanti si devono annoverare, tra gli altri, saggi come: Uno sguardo da nessun luogo, La possibilità dell’altruismo e anche il più recente La mente e il cosmo. Quest’ultima opera è una critica radicale al materialismo, che permea di sé la scienza, e alla possibilità del fisicalismo di fornire una spiegazione esauriente del cosmo, a partire dall’assunzione dell’esistenza di esseri senzienti dotati di caratteristiche mentali.

Questioni mortali è un’opera del 1979, ma è ancora attuale al giorno d’oggi dopo quarant’anni, in quanto affronta problematiche che sono ancora vive all’interno del dibattito filosofico odierno, anzi, possiamo dire che il nostro filosofo abbia precorso i tempi. Basti pensare al suo anti-riduzionismo in filosofia della mente che resiste agli attacchi di qualsiasi filosofia riduzionista o eliminativista, vedi Daniel Dennett o Paul e Patricia Churchland, nei riguardi dell’indagine nel campo degli studi sulla coscienza. Non solo, è contenuta all’interno dell’opera, una strenua opposizione all’etica utilitarista o consequenzialista, che dominava il panorama etico-politico negli anni ’70 e una critica molto aspra nei riguardi dell’intervento militare statunitense in Vietnam accusato di avere sacrificato la vita di migliaia di innocenti, donne, bambini e popolazione inerme, in virtù di obiettivi di carattere più generale come l’esito finale del conflitto. Questioni mortali affronta diverse problematiche: la morte, l’assurdo, il sesso, la sorte morale, l’etica, il problema mente-corpo.

I primi due capitoli sono dedicati alla problematica dell’assurdo e della morte; dal capitolo tre fino al decimo sono affrontati problemi di natura etica; infine, gli ultimi quattro capitoli sono dedicati al problema del rapporto mente-corpo e all’analisi finale del conflitto che sorge dalla contrapposizione tra un punto di vista oggettivo, e impersonale della realtà, e uno che dipende dal punto di vista personale. In realtà la tensione tra i due punti di vista sul cosmo, potremmo dire, pervade tutta l’opera.

La dimensione etica del pensiero di Nagel comincia con l’analisi di un tema importante che è quello della sorte morale. Se per Kant, la sorte morale non può esistere perché un’azione è buona se compiuta con una buona intenzione, a prescindere da quelli che saranno i risultati effettivi, per Nagel, in realtà la moralità di un’azione dipende dall’esito che si verificherà. Noi, nella quotidianità giudichiamo moralmente un individuo a seconda del risultato della sua azione: “Se la rivoluzione americana fosse fallita nel sangue dando luogo a una grande repressione, allora Jefferson, Franklin e Washington avrebbero ancora fatto un nobile tentativo, e non avrebbero dovuto rinnegarlo…andando al patibolo, ma si sarebbero dovuti biasimare per quello che avevano contribuito a fare ai loro compatrioti” (pag.60-61). La discussione sulla sorte morale si caratterizza per un paradosso, infatti, una persona è moralmente responsabile per quello che fa, ma quello che compie dipende da una serie di eventi contingenti che sfuggono al controllo della sua volontà. Quindi un individuo è giudicato moralmente responsabile per quello che fa, ma non è responsabile nei riguardi di quella serie di situazioni che hanno caratterizzato il risultato della sua azione, e probabilmente nemmeno di ciò che egli stesso è. Le nostre azioni si instaurano all’interno di un mondo che non abbiamo creato noi.

Nei capitoli successivi la discussione etica si sposta sull’analisi della condotta militare degli Usa in Vietnam e di riflesso nella seconda guerra mondiale, con lo sganciamento delle atomiche su Nagasaki e Hiroshima. Gli Usa, per Nagel, hanno “giocato sporco” nelle due guerre perché hanno agito sull’individuazione del nemico non ristretta a coloro che potevano essere dannosi in guerra, ma anche alla popolazione inerme oppure all’apparato sanitario. Analisi di tipo utilitaristiche basate sull’interesse nazionale, sul futuro della pace, sulla libertà o sulla prosperità economica “possono essere addotte per arrivare ad alleggerire la coscienza di quelli che sono responsabili di un certo numero di bambini bruciati”. (pag.101). I metodi adottati in guerra dagli americani non si sono rivolti al vero oggetto della contesa, ma a obiettivi periferici che sono, in realtà, vulnerabili in base al fatto che giustificano conseguenze che sono all’apparenza più convenienti. L’assolutismo in guerra, al contrario, secondo Nagel è espressione del fatto che non tutto, neppure in guerra, può essere giustificato. Ad esempio, la tortura e l’omicidio indiscriminato della popolazione innocente, non devono mai essere compiuti nemmeno in un conflitto bellico, perché nessuna quantità di bene che ne può derivare è giustificata. Infine, nella sua analisi della dimensione etica che si è aperta nel terzo capitolo, Nagel affronta la frammentazione del valore. E’ un termine che indica l’esistenza dei dilemmi morali nella vita degli individui e dell’inesistenza di un fondamento unico della moralità. Esistono ragioni per agire basate sul principio consequenzialista della felicità del maggior numero di persone: è un principio impersonale, freddo e basato sul calcolo. Ma, esistono anche condotte di azioni basate sull’agente, il quale rivendica il diritto di agire a prescindere dagli interessi della moltitudine. Quest’ultimo è un punto di vista personale, che si basa sulla realizzazione di sé stesso e non delle persone con cui capita di interagire. Tuttavia, per Nagel esiste un criterio di condotta che si applica quando abbiamo vagliato tutto con la massima razionalità, quando si constata un equilibrio fra ragioni conflittuali: la saggezza, la phronesis aristotelica, il giudizio che si applica al caso particolare.

Nel capitolo Etica senza biologia, Nagel assume la posizione che giustificare l’etica in base alla biologia, come vorrebbe Patricia Churchland, per esempio, è un tentativo insensato; ma lo è anche cercare di fondare la fisica su basi biologiche. Sicuramente partiamo da risposte elementari e da percezioni che sono frutto della nostra biologia, ma siamo in grado di discostarcene sviluppando strumenti di misura, invece che basarci sul tatto o sulla vista; siamo in grado di sviluppare teorie matematiche, invece, di indovinare le quantità numeriche; siamo capaci di sviluppare un’immagine della realtà lontana dalle apparenze. Allo stesso modo l’etica si allontana dal comportamento preriflessivo e immediato, per creare forme di condotta che possono essere criticate o modificate da un atteggiamento intellettuale che trascende il punto di partenza, cioè, la sua natura biologica.

I capitoli finali, che precedono l’analisi della contrapposizione tra punto di vista oggettivo e soggettivo, sono dedicati al problema del rapporto mente-corpo. Nagel, nel celebre saggio riproposto qui, cioè, Che effetto che fa essere un pipistrello, si arrocca su una posizione filosofica che sostiene l’irriducibilità del mentale, cioè, l’impossibilità di spiegare la coscienza nei termini di un’analisi materialistica e fisica. E’ lo stesso Nagel a sostenere che il problema mente-corpo perderebbe interesse se non fosse per la coscienza. Come accennato, Nagel è uno degli ultimi baluardi che resistono all’idea, ormai sempre più diffusa, di un’analisi naturalistica della coscienza e della mente, in virtù di un’analisi del ruolo causale degli stati mentali, di una loro riduzione a una base biologica, o di una loro spiegazione imperniata sull’analisi del comportamento, il cosiddetto comportamentismo. Tutte queste teorie non tengono conto dell’esperienza soggettiva, dell’”effetto che fa” essere in un certo stato mentale, essere un agente cognitivo. In altri termini, fanno astrazione dell’esistenza di un “punto di vista”, di una dimensione personale che non può essere spiegata su basi oggettive e scientifiche (per lo meno, sulla base della struttura della scienza odierna), in funzione di una presupposta realtà delle cose al di là della loro apparenza. Questo, perché, l’apparenza è la realtà e allontanarci dall’apparenza del dato soggettivo, significa anche allontanarci dalla realtà: una posizione assunta da un filosofo importante come Searle recentemente. Probabilmente, una teoria che cerchi di connettere la coscienza alla base fisica è in principio corretta, il fatto è che non abbiamo alcuna idea di come possa essere una simile teoria e di come debba essere strutturata la scienza per accogliere all’interno delle sue teorie la dimensione esperienziale del soggetto. Un modo per esorcizzare, per così dire, il dato soggettivo è quello di eliminarlo totalmente dalla realtà, perché, come direbbe Dennett, le spiegazioni mancate sono le spiegazioni riuscite, ma, probabilmente per Nagel, e per il filosofo anti-riduzionista, questo significherebbe non prendere sul serio la coscienza e i limiti della ricerca scientifica, ammesso che questi esistano.

L’ultimo capitolo è dedicato all’analisi del conflitto fra una dimensione oggettiva della realtà e una soggettiva. Questa opposizione è palese sia in etica che nella filosofia della mente. In etica con l’opposizione tra una dimensione impersonale, utilitaristica e una personale incentrata sull’agente. Ossia, un’etica basata sull’individuo che è uno tra gli altri, e una basata sul soggetto che vive la sua vita sempre da un punto di vista particolare. In filosofia della mente si esplica nella tensione tra l’apparenza soggettiva e la spiegazione oggettiva tipica della scienza. In realtà, afferma Nagel, una concezione scientifica della realtà deve prendere in considerazione anche l’aspetto esperienziale del soggetto, ma questa teoria generale è al di fuori della capacità della scienza. Se il dato soggettivo e personale non viene inglobato all’interno dell’oggettività non vuole dire che non esista, ma che è un aspetto peculiare della realtà. E’ lo stesso filosofo serbo-statunitense ad ammettere alla fine che: “La coesistenza di punti di vista conflittuali, che variano a seconda del distacco da un sé contingente, non è soltanto un’illusione praticamente necessaria, ma un fatto irriducibile della vita” (pag.302)

Stefano Comito

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