Daniel Dennett, Coscienza. Che cosa è? Una recensione

a cura di Stefano Comito

I filosofi statunitensi John Searle e Daniel Dennett

I misteri sono eccitanti, dopo tutto fanno parte delle cose che rendono la nostra vita divertente […] Una volta che il segreto è svelato non si può più tornare indietro nello stato di piacevole mistificazione che prima ci ammaliava”(pag.32).

 Con queste parole scritte nella prima parte di Coscienza. Che cosa è. Daniel Dennett lancia la sfida alla filosofia dualista, alla cui base c’è l’idea che la coscienza sia misteriosa e ineffabile e che non può essere spiegata dal metodo tradizionale con cui la scienza indaga la realtà; da Cartesio in poi la coscienza, estromessa dall’ambito di osservazione delle scienze naturali, non è un oggetto da indagare ma un mito avvolto nel mistero. In fin dei conti per Dennett i dualisti sono partiti da qualcosa di fondamentale alla luce delle proprie intuizioni, ma è il filosofo americano ad avvertire: “ Visto il modo in cui […] sguazza nel mistero accettare il dualismo significa rinunciare a capire” (pag.49).


Il libro si divide in tre parti. Nella prima parte (cap. 2-4) Dennett espone il metodo d’indagine dell’eterofenomenologia, ossia la fenomenologia in terza persona, che è un modo oggettivo e impersonale per indagare i fenomeni della mente umana. Nella seconda parte (cap. 5-9) il filosofo americano prende in esame la metafora del Teatro Cartesiano e indica come debba essere soppiantata dal modello delle Molteplici Versioni; inoltre, avanza la sua teoria della nascita della coscienza per selezione naturale, aggiungendo un tassello in più alla demistificazione della coscienza. Infine, nella terza parte (cap. 10-14) si preoccupa di confutare l’idea filosofica dei qualia e quella del Sé e fa’ il punto su cosa ci rimane della nostra immagine tradizionale della coscienza.

Il metodo dell’eterofenomenologia è utilizzato anche in antropologia e in letteratura e Dennett lo usa per scandagliare il nostro mondo fenomenologico. Con il termine fenomenologia, sia gli psicologi sia i filosofi che lo usano intendono indicare quell’insieme di oggetti che costituiscono il nostro essere cosciente, dal dolore al profumo di un fiore.  Il mondo eterofenomenologico è una realtà fittizia e gli oggetti che lo popolano non sono dei “concreta” (pag.113) ma degli “abstracta” (pag.113) che non hanno una reale esistenza. Per Dennett non esiste un processo mentale che accompagna il lavorio cerebrale. Così come il dio degli indigeni è solo il frutto delle credenze e delle affermazioni di coloro che lo adorano, alla stessa maniera il mondo della fenomenologia è il risultato delle affermazioni degli individui e non è una realtà a sé stante.

 Nella seconda parte del libro Dennett mette in crisi la tradizionale teoria della coscienza come Teatro Cartesiano sostituendola con il modello delle Molteplici Versioni dopo avere esaminato alcuni esperimenti psicologici effettuati in laboratorio. La metafora del Teatro Cartesiano è talmente persuasiva che ha permeato la nostra idea di coscienza fino ai nostri giorni, è un’immagine talmente profonda e intuitiva che permane anche se ci sbarazziamo della sostanza mentale, tant’è vero che dà vita a quello che è chiamato Materialismo Cartesiano, cioè, l’idea che esista un punto d’arrivo nel cervello in cui tutte le esperienze diventano coscienti. Secondo il nostro filosofo americano: “Non solo la ghiandola pineale non è […] l’ufficio presidenziale del cervello, ma nemmeno lo sono altre porzioni specifiche del cervello stesso […] non c’è ragione di supporre che il cervello abbia un […] santuario interno al quale è necessario e sufficiente arrivare per avere un’esperienza cosciente” (pag.124). Nel cervello non esiste una presentazione, per così dire, canonica e definitiva di ciò che deve diventare cosciente, ma avvengono revisioni multiple di ciò che accade in cui tutte le versioni competono, l’una contro l’altra, per diventare quella che definiamo l’esperienza cosciente del soggetto. In definitiva abbiamo un continuo flusso di coscienza che crea differenti livelli di narrazione e “se si vuole stabilire che qualche momento nell’elaborazione del cervello debba valere come il momento della coscienza si deve sapere che questo è arbitrario”. Non esiste una linea d’arrivo della coscienza ma in ogni momento ci sono molteplici versioni di frammenti narrativi in vari luoghi del cervello.

La coscienza umana oltre a non avere la caratteristica di una sostanza a sé stante, non è nemmeno esistita da sempre. La sua nascita è avvenuta per tre motivi principali: l’evoluzione genetica, la platisticità del cervello e l’evoluzione dei memi. Il cervello ha la caratteristica principale di essere plastico, infatti, ha la capacità di riprogettare se stesso nel momento in cui si trova in un ambiente ostile e influenzato da processi caotici, ossia, quando il futuro non è come il presente. La riprogettazione è un processo meccanico che altri organismi organizzati rigidamente non hanno l’opportunità di mettere in pratica: “Questa capacità è essa stessa un prodotto dell’evoluzione genetica tramite evoluzione naturale, non solo dà all’organismo che la possiede un vantaggio […] ma si riflette sul processo dell’evoluzione genetica e lo accelera. Questo fenomeno è noto come Effetto Baldwin” (pag.209).

 Tuttavia, c’è un processo di evoluzione che va più veloce rispetto all’evoluzione naturale, ed è quella culturale. Dennett introduce il concetto di meme che è il corrispettivo culturale della nozione di gene, ed è un termine che è stato usato per la prima volta da Richard Dawkins nel libro Il gene egoista. I memi sono unità di trasmissione culturale e con questo termine ci si riferisce alle idee che permeano e che hanno influenzato la nostra civiltà, come: educazione, consapevolezza ambientale, decostruzionismo; ma anche idee dannose come quelle di antisemitismo o di terrorismo. I memi hanno come obiettivo l’autoreplicazione, parassitano il cervello, lo plasmano e la mente umana è la loro nicchia preferita: “I geni sono invisibili […] Anche i memi sono invisibili e sono trasportati dai veicoli dei memi: immagini, libri, frasi […] Anche gli strumenti, gli edifici, e le invenzioni in generale sono veicolo dei memi: un carro con due ruote non trasporta solo il grano o il suo carico […] trasporta anche la brillante idea di un carro con due ruote da una mente all’altra, l’esistenza di un meme dipende dalla sua realizzazione fisica in qualche mezzo; se tutte le sue realizzazioni fisiche vengono distrutte, quel meme si è estinto” (pag.229).

 Uno dei principali oppositori dell’idea di meme è il filosofo americano John Searle. Secondo Searle, un’idea non scaturisce da forze brute e cieche come quelle che determinano la replicazione di un gene, ma da obiettivi coscienti diretti a uno scopo, per cui l’identificazione tra meme e gene per Searle è fuorviante. Per Dennett, invece, la stessa coscienza deve essere concepita come: “Un complesso di memi (o più esattamente, di effetti provocati dai memi nel cervello) che si può comprendere egregiamente pensando al funzionamento di una macchina virtuale neumanniana implementata sull’architettura parallela di un cervello che non era progettato per un’attività del genere” (pag.236). Le operazioni di un calcolatore, di una macchina di Von Neumann, secondo Dennett, possono essere estese fino a comprendere tutti nostri pensieri razionali e anche irrazionali. La coscienza umana non è nient’altro che un software implementato sull’hardware cerebrale, siamo macchine molto complesse e sofisticatissime e il sostrato della nostra coscienza può essere anche qualcosa di differente dal cervello: “E’ certamente controintuitivo, difficile da mandar giù, inizialmente offensivo come ci aspetteremmo da un’idea che possa aprirsi il varco attraverso secoli di mistero, controversie e confusioni” (pag.244).

 A questo punto del libro l’opera di demistificazione della coscienza è quasi giunta al termine, resta da scardinare l’idea filosofica dell’esistenza dei qualia e quella, all’apparenza incontrovertibile, del Sé, cioè di un Io unitario che controlla il ponte di comando della nostra psiche. I qualia sono le nostre esperienze intrinseche, la qualità delle nostre sensazioni soggettive e in realtà per Dennett non sono nient’altro che una fantasia filosofica. L’idea che esistano proprietà sganciate dai processi cerebrali è alla base della teoria dell’epifenomenalismo e per il filosofo americano è una pura assurdità. Infine, se il Teatro Cartesiano è solo una metafora priva di senso, allora non esiste nemmeno un soggetto per il quale è celebrato la rappresentazione teatrale. Il nostro Sé è un’entità che nasce dal linguaggio, veicolo dei memi, che produce l’illusione di un centro di gravità narrativa. Questo Io psicologico o narrativo non ha un’esistenza propria ma è il risultato di dinamiche sociali: “Non esiste niente come il Sé su cui sono fondati il capitalismo e il romanzo classico” (pag.456) e, in ultima analisi: “Tu sei quello che ti dice” (p.457). L’eliminativismo di Dennett lascia fuori la coscienza, i qualia, il Sé, l’Io intermedio che pensiamo governi i nostri modelli di comprensione e di azione, tuttavia “Il fatto che qualcosa venga lasciato fuori non è una caratteristica delle spiegazioni mancate, ma delle spiegazioni riuscite” (pag.507).

Non ci rimane molto della coscienza come l’hanno immaginata i filosofi e il senso comune da Cartesio in poi, forse delle semplici metafore e Dennett non ha fatto nient’altro che sostituire la metafora del Teatro Cartesiano con quella delle Molteplici Versioni, il Figmento mentale con il Software, ma “Le metafore non sono solo metafore, sono gli strumenti del pensiero” (p.508), senza di esse non è possibile indagare noi stessi.

Stefano Comito

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