Thomas Kuhn e la struttura della scienza

 a cura di Manuel Cappello

In questo articolo vengono prese in considerazione le idee più importanti del libro di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche,
The Structure of Scientific Revolutions (1), fra cui in particolare il concetto di paradigma nella sua componente tacita, automatica, preliminare alla razionalità discorsiva. Viene esplicitato il legame fra la natura del paradigma e la questione dell’incommensurabilità fra le diverse visioni scientifiche, e viene evidenziato il ruolo della comunità scientifica come strumento per fare fronte a tale problema. L’opera in oggetto è presentata come un contributo positivo all’impresa scientifica e non come l’affermazione di un relativismo di origine sociale.

I.      PENDOLI O PIETRE DONDOLANTI? GLI ESEMPI DI KUHN
II.    
IL PARADIGMA: FUNZIONE ED ESSENZA
III.   
IL FUNZIONAMENTO DEL PRESUPPOSTO
IV.   
INTERNALISMO
V.    
LA SCIENZA NORMALE: L’ATTIVITÀ GUIDATA DAL PARADIGMA STABILE
VI.   
INSEGUENDO I ROMPICAPO
VII.  
IL RUOLO DELLA CRISI
VIII. 
LA DEFINIZIONE DI UN VOCABOLARIO?
IX.   
INCOMMENSURABILITÀ E IRRAZIONALITÀ NELLA TRANSIZIONE FRA PARADIGMI
X.    
INTIMITÀ DEL PARADIGMA
XI.   
SMETTERE DI SAPERE
XII.  
UN VERSO NELLA PSICHE
XIII. 
ALCUNE CONCLUSIONI: LA RAZIONALITÀ RITROVATA
Continua a leggere

Daniel Dennett, Coscienza. Che cosa è? Una recensione

a cura di Stefano Comito

I filosofi statunitensi John Searle e Daniel Dennett

I misteri sono eccitanti, dopo tutto fanno parte delle cose che rendono la nostra vita divertente […] Una volta che il segreto è svelato non si può più tornare indietro nello stato di piacevole mistificazione che prima ci ammaliava”(pag.32).

 Con queste parole scritte nella prima parte di Coscienza. Che cosa è. Daniel Dennett lancia la sfida alla filosofia dualista, alla cui base c’è l’idea che la coscienza sia misteriosa e ineffabile e che non può essere spiegata dal metodo tradizionale con cui la scienza indaga la realtà; da Cartesio in poi la coscienza, estromessa dall’ambito di osservazione delle scienze naturali, non è un oggetto da indagare ma un mito avvolto nel mistero. In fin dei conti per Dennett i dualisti sono partiti da qualcosa di fondamentale alla luce delle proprie intuizioni, ma è il filosofo americano ad avvertire: “ Visto il modo in cui […] sguazza nel mistero accettare il dualismo significa rinunciare a capire” (pag.49).

Continua a leggere

Jacques Derrida, “Donare il tempo. La moneta falsa”

a cura di Elisa Scirocchi

 

There’s a PRESENT for you darling!

Se pensate di leggere Derrida una domenica in spiaggia sotto il fresco di un ombrellone, o in mezzo al caos di un tram all’ora di punta vi sbagliate (oppure sapete di avere delle ottime capacità di concentrazione). Non vi spaventate, non è richiesta alcuna speciale abilità, si tratta solo di LEGGERE, di regalarsi del tempo per farlo. Take your time.

Nel 1991 Jacques Derrida dà alle stampe questo affascinante testo dal titolo “Donare il tempo. La moneta falsa”. La sua è una scrittura volutamente complessa. Una scrittura talvolta impertinente. Decostruire, infrangere, lasciare spazio al nuovo, questi sono i termini sui quali dovremmo soffermarci. Decostruzione di parole come eliminazione consapevole di points of view privilegiati da cui guardare il mondo. Dunque, prepariamoci a ritornare indietro sulla stessa pagina, mettiamo in conto di rileggere più volte la stessa frase, e accantoniamo l’idea, ormai superata, di trovare un senso unico alle cose, alle parole, ai gesti, all’umano. Questa è l’essenza intima del lavoro di Derrida, e della sua filosofia, che egli stesso rappresentata proprio come una cartolina spedita, ma mai recapitata.
Continua a leggere

Il tempo come progresso: tra παιδεία e moderno/3 I socratici minori

 

L’esautorazione della città come Stato, nel IV sec. a.C., ingenerò la conquista progressiva, da parte del cittadino, dell’indipendenza dell’organismo politico a beneficio del singolo. Qualcosa di analogo avverrà dopo la morte di Alessandro, quando le sofie e, in particolare, le filosofie ellenistiche, non riconoscendosi più nello spazio comunitario della πόλις, saranno costrette a rifugiarsi nella vita interiore per ricostituire l’armonia perduta con l’esterno a causa del frantumarsi del senso della partecipazione comune. Né può dirsi che lo stesso non accadrà a loro modo a Seneca e allo stesso Cicerone, meritevole quest’ultimo, nonostante gli accaniti pregiudizi del Mommsen, di aver introdotto per primo la filosofia a Roma negli ultimi anni difficili della sua vita per la perdita della figlia Tullia e del suo ruolo politico-istituzionale (ma ancora abbastanza autorevole perché Ottaviano in un primo momento gli si rivolgesse per trarne un avallo politico per se stesso): il suo sarà un complesso ritirarsi nell’otium (pur sempre le opere estreme di Cicerone conservano una paradossale funzione pratica, insita nella mentalità latina, una sorta di uso sociale del cervello ante litteram) ispirato alla Stoà, tra l’altro, e di marca decisamente antiepicurea, appunto per il potenziale di visione politica tuttora espresso.

Una trasformazione simile non fu senza traumi: “ci saranno stati sia nostalgici pronti a lamentare la decadenza dell’ordine antico, sia persone disposte ad identificarsi tout court con il nuovo, e saranno coesistite disperazione e speranza.”[1] Sia la Scuola cinica, con Antistene, sia, su un versante edonistico, fenomenistico, la Scuola cirenaica, con Aristippo, constatarono la felicità umana possibile nella raggiunta autarchia individuale. Addirittura, per i primi il progresso porta all’autodistruzione, e non c’è alcun fine divino in esso. Anzi, esso è qualcosa di immorale: per ritornare alla moralità originaria, l’uomo deve abbandonare le vie della civilizzazione.[2]

Per autarchia, invece, si intende l’αὐτάρκεια, che poi era in discordanza con la democratica πολιτεία, e cioè precisamente si intende l’αὐτάρκεια geografico-domestica, contadina, valida nella concezione economica ellenica, ossia il quasi completo isolamento, o la pressoché totale autosufficienza, predicata dai Cinici. L’individualismo dei Cirenaici vede l’autonomia negli stessi termini.

Si giunge a un risultato significativo: “così iniziarono ad avere un significato pratico i dubbi, espressi già nel quinto secolo, sul fatto che l’esercizio delle arti e della scienza avesse reso l’uomo effettivamente migliore o la vita più felice.”[3]

Qui è il punto di allontanamento di Antistene e Aristippo dal loro maestro Socrate: la civiltà non è disprezzata da Socrate, il quale all’opposto scorge in essa un disegno degli dèi. Egli inoltre non predicò l’isolamento. Non abbastanza socratici, insomma, Antistene e Aristippo esagerarono certamente nel rigetto eccessivo della vita pratica; senza dubbio essi furono contrari all’idea di progresso. Ma va precisato che quella loro separazione dalla civilizzazione era piuttosto avversione per uno sviluppo prevalentemente materiale e/o tecnico, che non proprio contraria al progresso etico. Va altresì recuperata in Antistene e in Aristippo l’“individualità” nei termini relativi (il concetto di individuo è estraneo al pensiero greco) come bene: edonismo, fenomenismo, eudemonismo morale, autosufficienza, “individualismo” (il non-aver-bisogno-di-nulla, τὸ μηδενὸς προσδεῖσθαι), fra Cinici e Cirenaici, sembrano separare l’uomo dalla civilizzazione, senza con ciò porre in pericolo il vero e proprio progresso etico-morale. Cinici e Cirenaici concepivano il progresso alla stregua di un miglioramento in senso prevalentemente materiale, se non addirittura “tecnologico”.


[1] L. Edelstein, L’idea di progresso nell’antichità classica, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 121.

[2] op. cit., p. 124.

[3] op. cit., p. 123.

La comunicazione politica: Vladimir Vladimirovič Putin

Dell’arma della retorica ci siamo già occupati in questo post (link). Inutile dirlo: gli italiani nel Novecento hanno fatto scuola. Goebbels e Hitler, ma anche Stalin, non sarebbero nulla senza la lezione di Benito Mussolini, il quale non andava a letto senza ripassarsi “Psicologia delle masse” del sociologo Gustave Le bon. Sull’invenzione della “propaganda” nel Ventennio italiano, e sulla fabbricazione del consenso, vi è in rete un ottimo documentario con preziosi filmati inediti dell‘Istituto Luce (link). Lui, Benito Mussolini, ha fabbricato un vero e proprio culto della sua persona che dura fin’ora, basti vedere le processioni di “nostalgici” (usando un eufemismo) che ancora si recano a Predappio, luogo della sua tomba. Il fascismo infatti, prima di qualsiasi altra analisi, è stato un fenomeno religioso, su questo basti consultare il prezioso studio di Emilio Gentile  “Il culto del Littorio“. Mussolini si è mostrato a foto, cinegiornali, giornali e radio (rigorosamente di regime) in tutte le salse, organizzando in maniera scientifica (cioè, nulla lasciando al caso) la propria immagine: pater familias, amante leggendario (circondato da mille amanti, capace di possederne 10 al giorno, ma pubblicamente fedele ad una sola), abile ed eterno sportivo, unico stratega, unico generale, musicista, ballerino, devoto (quanto basta, ma ancor più fedele alla patria), aviatore, motociclista, marinaio, agricoltore, operaio, e chi più ne ha più ne metta. Ogni aspetto della vita sociale e politica assumeva in lui un archetipo, un modello. Così, anche l’ antropologia era ben delimitata, con una netta distinzione di ruoli fra maschio e femmina: su questo punto, vedasi il bellissimo film, vero e proprio specchio dell’epoca (ma sicuri che sia tutto finito?), Una giornata particolare (link).

Nella seguente carrellata di immagini (che potrebbe essere molto più lunga, ci siamo limitati parecchio), è possibile notare quanto altri “abili dittatori” postmoderni (usando un altro eufemismo) si affidino ancora a tecniche comunicative già ampiamente sperimentate nel Ventennio fascista italiano. Purtroppo, continuiamo a fare scuola, non solo nella pseudodemocrazia russa, ma anche nelle democrazie occidentali, dove il leaderismo (benchè sfrutti simboli e immagini un po’ meno “archetipe” e guerriere di quelle sottostanti) è diventato la parola d’ordine degli spin-doctor del consenso.





Bertolt Brecht, Vita di Galileo. A cura di Elisa Scirocchi

 “Himmel abgeschafft!”  (Abolito il cielo!)

“[…] Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza […] ”.

Bertolt Brecht non ha certo bisogno di presentazioni. Eppure, se mai qualcuno fosse rimasto indietro, non potremmo che dirgli che egli è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo e regista teatrale. L’originalità dell’approccio con cui ha affrontato temi di carattere prevalentemente sociale, ci porta a considerarlo in modo indiscusso come uno degli autori più innovativi della drammaturgia contemporanea. Protagonista di una critica feroce nei confronti della realtà moderna nei suoi aspetti storici, Bertolt ha analizzato l’umano nelle sue debolezze, e in tutte le sue zone d’ombra. Brecht iniziò a interessarsi alla figura di Galilei in occasione del tre-centenario del processo, subito dal genio pisano, ad opera della Santa Inquisizione, ergo nell’anno 1933. Da quell’anno ha inizio la scrittura travagliata, sofferta, e ragionata di quest’opera: “Vita di Galileo”. La storia di questo testo segue, e accompagna le vicende personali dell’autore, e il contesto storico in cui esso viene scritto. Dopo diverse modifiche, traduzioni, e riedizioni giungiamo alla più celebre versione, ovvero l’edizione berlinese del 1955/56 (Quella che ho letto io, e che vi consiglio vivamente di leggere se non lo avete ancora fatto).Questo dramma è il canto dell’anti-eroe per eccellenza. L’autore non si pone come scopo quello di raccontare la vita del grande Galilei, ma, come si percepisce facilmente anche dal titolo, si prefigge di raccontare la vita di un uomo, dell’uomo Galileo, scienziato non troppo impavido, che ha paura di rivelare ciò che vede dall’altra parte del suo cannocchiale. Brecht ci offre un Galileo umano, preso dalle mille preoccupazioni del quotidiano, intento a gestire lezioni, guadagni, osservazioni astronomiche e calcoli matematici.
Continua a leggere

Dennett, Sweet dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza

Recensione a cura di Stefano Comito

Sweet dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza
è un saggio di Daniel Dennett, più precisamente è una collezione di articoli pubblicati dal filosofo americano, in cui espone le sue convinzioni su uno dei problemi più attuali all’interno della filosofia e della neuroscienza, ossia lo studio della coscienza. Con questo saggio Dennett ha vinto nel 2005 il premio per le pubblicazioni nell’ambito delle scienze cognitive.

Nella prima parte del libro (cap1-4), Dennett disegna la svolta naturalistica nell’indagine sullo studio della coscienza; soprattutto nel primo capitolo, denuncia come buona parte della tradizione filosofica si comprometta aderendo a una metafisica vecchia di duecentocinquant’anni.

In seguito traccia il compito della scienza, ossia quello di indagare la coscienza tramite il metodo dell’eterofenomenologia, che consente di esaminare la coscienza da dati oggettivi. Di conseguenza, è negata la priorità di qualsiasi approccio in prima persona allo studio della mente umana; non c’è nulla che il metodo in prima persona possa dirci sulla coscienza e sugli altri fenomeni mentali che la scienza non possa scoprire. Dopo nega che esista uno spettacolo della coscienza che non possa essere spiegato da meccanismi cerebrali come fatto, all’inizio del secolo scorso, con il fenomeno del déjà-vu. Per ultimo, confuta la tesi dell’esistenza dei qualia, affrontando l’esperimento del change blindness: “i qualia sono la conseguenza di una teoria obsoleta, qualcosa che dovremmo tenere lontano dalla nostra esplorazione della coscienza”. 

Nella parte centrale del libro (cap. 5), Dennett gira le manopole di quella pompa d’intuizione che è l’esperimento mentale di Mary, tanto caro ai dualisti. Per il filosofo americano non c’è niente che si possa sapere oltre alla descrizione di una teoria naturalista. Al termine, il filosofo americano (cap. 6-7) svela la sua teoria della coscienza riconducendola al modello della “fama” o “celebrità celebrale”, evoluzione della teoria delle Molteplici Versioni, cioè un’alternativa alla teoria tradizionale del Teatro Cartesiano secondo cui tutte le nostre esperienze coscienti si riuniscono in un luogo del cervello per essere esaminate dal soggetto. Dennett si contrappone a chi sostiene che la coscienza sia qualcosa di mistico, come predicano i teologi o un’entità misteriosa come asseriscono i filosofi dualisti, da Nagel a McGinn. Questi ultimi pensano che la coscienza sfugga alle concezioni della scienza, la quale studia la realtà in maniera oggettiva e impersonale, e quindi difendono la tesi che la coscienza sia accessibile solo dal soggetto che fa esperienza dei propri stati mentali in prima persona. Per Dennett non è così, infatti, tutte le attività della nostra mente possono essere riprodotte da un’intelligenza meccanica, un computer, un robot; non c’è differenza tra l’elaborazione d’informazione di una macchina intelligente e l’elaborazione della mente umana. I computer sono artefatti che si avvicinano all’uomo: “ i computer riescono a controllare processi in grado di eseguire compiti che richiedono inferenza, memoria, giudizio, anticipazione; sono generatori di nuove conoscenze, scopritori di strutture, in poesia, in astronomia […] che in precedenza solo gli esseri umani potevano sperare di individuare. La semplice esistenza dei computer ha offerto una prova d’innegabile forza: vi sono meccanismi […] che possiedono molte delle competenze assegnate solo alle menti”.  

La teoria che uscirà vincitrice dallo studio sulla coscienza è il funzionalismo, il quale ha già ottenuto successi in altri settori della ricerca scientifica. Così come per calcolare la legge di gravità non è importante conoscere la composizione chimica dei pianeti, per studiare la percezione non è importante sapere il colore degli occhi, allo stesso modo per studiare la mente non è importante il sostrato fisico, l’hardware che implementa il software. Il sostrato materiale può essere composto di transistor, fili elettrici, chip in silicio, ciò che più conta è la computazione indipendentemente dalla materia cerebrale. Così Dennett sostiene un funzionalismo minimalista: “Il funzionalismo è l’idea che il bello è bello in quanto fa bene quello che deve fare […] poiché la scienza è alla ricerca continua di semplificazioni […] il funzionalismo ha un’inclinazione verso il minimalismo, ovvero, che le cose che contano siano meno di quanto si sarebbe potuto pensare”.

Quelli che insistono sul fatto che la coscienza è, in ultima analisi, misteriosa, sono abituati a rimanere sconcertati di fronte all’inesplicabilità degli effetti a noi noti come fenomenologia della coscienza. Il senso comune assegna alla coscienza un velo di mistero e di magia, ma la filosofia di Dennett squarcia il velo; per vedere cos’è realmente lo spettacolo del vivere cosciente, bisogna andare nel retroscena e svelare che quello che sembra uno spettacolo di magia è, appunto, un’illusione come ogni gioco di prestigio che si rispetti. Una volta che saremo in grado di comprendere e riconoscere i modi non misteriosi con cui il cervello lavora, potremo immaginare di costruire una teoria della coscienza senza postulare entità ineffabili. La domanda difficile, l’hard problem, come l’ha definito Chalmers, cioè: “Che cos’è la coscienza?” non ha senso di essere posta, perché non esiste nel nostro cervello un Teatro Cartesiano in cui sono rappresentate tutte le nostre esperienze coscienti, un Sé, un Io, un Re che decide che cosa debba diventare cosciente e cosa invece non ha il diritto di esserlo; al contrario, il cervello è composto di eventi veicolo di contenuto che in maniera anarchica si arrogano il diritto di essere “cerebralmente popolari”, che acquisiscono una certa “fama”. Se la coscienza è l’imperatore e ciò che la costituisce è la sua veste, allora, come dice Voorhees: “ Per Dennett non è l’imperatore senza vestiti, sono i vestiti, piuttosto, che sono senza imperatore”.

Il dialogo finale immaginario tra Psi (psicologia) e Fil (filosofia) ci porta direttamente nella terra dei misteri, la patria dei qualia. I qualia sono le nostre sensazioni soggettive, le nostre esperienze fenomeniche, quello che sperimentiamo in prima persona. I qualia, sostiene Sellars, sono ciò che “rende la nostra vita degna di essere vissuta”. Ad esempio, se ricerco la gioia, lo faccio per quell’intrinseca sensazione soggettiva che mi reca il suo raggiungimento, una sensazione privata e incomunicabile a parole. Ma non esistono i qualia, essi sono il dolce sogno dei filosofi che pensano ancora che esistano proprietà sganciate dalle attività del cervello, che sfuggono alle sue cause ed effetti. In realtà esistono solo proprietà funzionali e relazionali, che possono essere progettate nei sistemi di elaborazione dell’informazione. Per Dennett l’inesistenza dei qualia è un punto non negoziabile all’interno di qualsiasi teoria della coscienza, alla stessa stregua dell’elan vital e della teoria del vitalismo nel momento in cui la scienza ha scoperto, che non solo ne poteva fare a meno ma anche che non esisteva.

Siamo arrivati a un bivio nella ricerca sulla coscienza? Da una parte la coscienza ineffabile e misteriosa e dall’altra la deriva eliminativista ma illuministica di Dennett? Per Dennett una buona teoria della coscienza non tiene conto del Sé, della Volontà Cosciente, dei qualia, e in ultima analisi, della nostra profonda convinzione di essere coscienti. Alla scienza che verrà l’ardua risposta, forse oggi è troppo tardi per la filosofia, aggrappata ancora ai suoi dolci sogni, ma ancora troppo presto per la psicologia.

Stefano Comito

“Il Sole dell’Avvenire” di Valerio Evangelisti, una recensione.

Per una genealogia del proletariato italiano. Potrebbe essere questo un altro sottotitolo possibile per l’ultima produzione letteraria di Valerio EvangelistiIl Sole dell’Avvenire”, edito dalla Casa Editrice milanese Mondadori. Certamente sarà nostra cura inserire il libro in una ipotetica vetrina di interventi letterari (senza necessariamente dover chiamare un “genere” per definirli) che da qualche anno indagano la genesi del nostro protagonismo rivoluzionario e le sue alterne vicende italiane. Nel progetto dell’autore il focus territoriale deve essere senza dubbio l’Emilia Romagna, per un periodo storico che dalla fine dell’Ottocento si inoltra fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Il libro racconta di Famiglia ed Amicizia, narrando le vicende pubbliche e private di una fitta rete comunitaria che attraversa la Storia e, soprattutto, le Storie di ogni Essere umano che la intreccia. Sullo sfondo l’arte della Vita, tra lavoro ed impegno sociale. Compassione e partecipazione. Dove l’impegno sociale non è solo un investimento del tempo libero, o peggio ancora una banale professione, ma una necessità per costruire sopravvivenza collettiva. Pane e Lavoro.

Continua a leggere

“Point Lenana” di Wu Ming 1 e R. Santachiara, una Recensione

copertina

Avvertenza. Ci sono molti modi di leggere un libro. Soprattutto alcuni libri. Questo punto di vista è solo uno dei tanti possibili.

C’è un rimosso fin troppo latente e violento nella travagliata Storia italiana (dall’impresa garibaldina a questi giorni di decadenza berlusconiana) che ritorna sempre con prepotenza maggiore nell’immaginario collettivo. Sono gli anni Venti e dintorni del nostro Novecento. Ce ne sarebbe un altro strettamente connesso, il Rimosso dell’unificazione dello stivale nel 1861 e della resistenza del Mezzogiorno alla colonizzazione piemontese, ma per il momento rimaniamo al materiale storico e narrativo presentato da Point Lenana. Per quanto riguarda il genere si può certamente dire che non sia più una questione di New Italian Epic di cui, proprio i creatori della cornice, hanno decretato il tramonto. C’è ben altro nella necessità collettiva di indagare e mostrare, utilizzando scenari differenti e punti di vista particolari, un periodo costituente di questo nostro vivere insieme che qualcuno chiama Stato, altri Costituzione e qualche stolto, addirittura, azzarda definire Repubblica.

Continua a leggere

Amos Oz, Contro il fanatismo. A cura di Elisa Scirocchi

Mentre il gelato si scioglie

Siamo nel Gennaio 2002. Immaginiamo di essere studenti dell’Università di Tubinga e di avere l’onore di ascoltare le tre lezioni che Amoz Oz è stato invitato a tenere per noi.

Quest’oggi sono qui per parlarvi della mia attività. Operazione incestuosa da parte di un autore, questo disquisire del proprio scrivere. […] Vi racconterò alcune storie su come sono diventato scrittore, su come scrivo e come cancello, e vi esporrò alcune delle mie frustrazioni e altrettanti momenti di gioia.”

Nonostante gli sforzi d’immaginazione, io non ero lì tra gli studenti di Tubinga, non ho potuto godere di quelle lezioni, ma solo della loro raccolta nel testo “Contro il fanatismo”, pubblicato due anni dopo quell’incontro in Germania. In questo libello (che definisco così solo per la brevità che lo caratterizza) lo scrittore Amos Oz ci regala un’analisi ironica, e apparentemente naïf , di una realtà, invece, tanto controversa e sofferente. Lo stile asciutto della narrazione, nasconde in modo straordinario dentro di sé tutte le lacrime che sgorgano da quella terra oramai da millenni.
Continua a leggere

Bataille, Il problema dello Stato e altri scritti politici. Una recensione

 di Elia Verzegnassi

Gli anni turbolenti tra lo scoppio della Grande Guerra e la fine del secondo conflitto mondiale non frenarono le ricerche di George Bataille sul rapporto tra potere e sacro né, d’altra parte, queste riuscirono a trascinarlo lontano dagli rivolgimenti politici e sociali. I numerosi articoli e frammenti raccolti in Georges Bataille, Il problema dello Stato e altri scritti politici (Casa di Marrani, Brescia 2013), datati anni ’30 del Novecento, rispondono a questioni e angosce pressanti, talmente urgenti da non poter essere respinte e accantonate, e così profonde da rimanere tutt’ora attuali. La guerra, nella sua dimensione totale, invase «lo spazio della società civile»1, mutandone profondamente ogni aspetto. Scandagliare gli anni tra il 1914 e il 1945 servendosi della nozione di guerra civile permette di scorgere, al di sotto del conflitto che contrappose gli Stati – pensati nella loro compattezza, come dense masse che convergono nell’urto –, i diversi conflitti che sconvolsero internamente le singole nazioni. Se per Bataille lo Stato è innanzitutto un dispositivo di coesione e aggregazione, capace di ordinare e riassorbire la lotta intestina che agita ogni intero, esso è anche, necessariamente, il limite di ogni spinta rivoluzionaria. La lotta di classe, concepita come vortice disgregante che frammenta la società omogenea borghese e rompe l’equilibrio agonistico proprio dei regimi liberali, non potrà che evidenziare il problema costituito dallo Stato in quanto tale. C’è, infatti, una conclusione ricorrente ogniqualvolta le tensioni si fanno troppo acute ed evadono i confini prestabiliti: è il ritorno dell’unità, dello Stato, come testimoniarono all’epoca tanto lo stalinismo, quanto il fascismo in Italia e Germania. La preoccupazione è viva in Bataille: «Il termine delle lacerazioni provocate dal capitalismo e dalla lotta di classe, il termine del movimento operaio, non sarà, semplicemente, questa società fascista – radicalmente irrazionale, religiosa – in cui l’uomo non vive che per e non pensa che mediante il Duce?»2.
Continua a leggere