Bataille, Il problema dello Stato e altri scritti politici. Una recensione

 di Elia Verzegnassi

Gli anni turbolenti tra lo scoppio della Grande Guerra e la fine del secondo conflitto mondiale non frenarono le ricerche di George Bataille sul rapporto tra potere e sacro né, d’altra parte, queste riuscirono a trascinarlo lontano dagli rivolgimenti politici e sociali. I numerosi articoli e frammenti raccolti in Georges Bataille, Il problema dello Stato e altri scritti politici (Casa di Marrani, Brescia 2013), datati anni ’30 del Novecento, rispondono a questioni e angosce pressanti, talmente urgenti da non poter essere respinte e accantonate, e così profonde da rimanere tutt’ora attuali. La guerra, nella sua dimensione totale, invase «lo spazio della società civile»1, mutandone profondamente ogni aspetto. Scandagliare gli anni tra il 1914 e il 1945 servendosi della nozione di guerra civile permette di scorgere, al di sotto del conflitto che contrappose gli Stati – pensati nella loro compattezza, come dense masse che convergono nell’urto –, i diversi conflitti che sconvolsero internamente le singole nazioni. Se per Bataille lo Stato è innanzitutto un dispositivo di coesione e aggregazione, capace di ordinare e riassorbire la lotta intestina che agita ogni intero, esso è anche, necessariamente, il limite di ogni spinta rivoluzionaria. La lotta di classe, concepita come vortice disgregante che frammenta la società omogenea borghese e rompe l’equilibrio agonistico proprio dei regimi liberali, non potrà che evidenziare il problema costituito dallo Stato in quanto tale. C’è, infatti, una conclusione ricorrente ogniqualvolta le tensioni si fanno troppo acute ed evadono i confini prestabiliti: è il ritorno dell’unità, dello Stato, come testimoniarono all’epoca tanto lo stalinismo, quanto il fascismo in Italia e Germania. La preoccupazione è viva in Bataille: «Il termine delle lacerazioni provocate dal capitalismo e dalla lotta di classe, il termine del movimento operaio, non sarà, semplicemente, questa società fascista – radicalmente irrazionale, religiosa – in cui l’uomo non vive che per e non pensa che mediante il Duce?»2.

È un atto di autorità personale – il momento della decisione schmittiana – a riunire la nazione, serrandone i ranghi e spazzando via i fattori di disgregazione. Il capo, il leader, è ora alla testa della società, segnata da una svolta autoritaria. Questa figura dai tratti divini, propria della monarchia regale, porta al centro della riflessione la dinamica del sacro, definibile, seguendo Rudolf Otto, come totalmente altro. Scrive Bataille: «si deve distinguere una polarizzazione fondamentale, primitiva, alto e basso e un’opposizione sussidiaria sacro e profano, o piuttosto eterogeneo (fortemente polarizzato) e omogeneo (debolmente polarizzato)»3. In questi termini, la società è resa omogenea, poco polarizzata, pacificata da conflitti e lacerazioni ora disinnescati, grazie all’azione di un elemento altamente eterogeneo e polarizzato. La società si riconosce e rispecchia in questo elemento, che è inoltre garante della coesione della stessa: è dunque a partire dall’eterogenea testa che si costruisce la trama del corpo omogeneo.

L’eterogeneo non è solo rappresentato dal capo, bensì anche da ogni totalmente altro rispetto all’omogeneità. Quindi, all’altro polo della regalità, anch’essi fortemente polarizzati e con ampio potere di contaminazione, si trovano la vita miserabile e le cose abbiette – in quest’insieme esterno e autonomo dalla società rientrano anche, nell’analisi di Bataille, l’esercito e la polizia. Puro e impuro sono le due estremità continuamente rigettate dall’omogeneità e, nella dinamica del sacro, di cui la separazione e la polarizzazione sono i movimenti costitutivi, l’elemento alto respinge l’elemento basso, escludendolo. L’abbietto è rigettato dalla purezza regale che, così facendo, salvaguardia se stessa e la società, rendendola omogenea proprio grazie a quest’atto di esclusione. Bataille affonda, parlando il linguaggio dell’antropologia, nel cuore delle problematiche a lui contemporanee, illuminando l’azione del sacro4 che caratterizza la coesione dello Stato contro le convulsioni rivoluzionarie, così come delineando i rapporti tra Stato e fascismo, e tra fascismo e figura del capo. La domanda è tutt’ora pressante: se ogni conflitto, quando diviene troppo acuto – si potrebbe suggerire: quando la lacerazione si consuma –, è necessariamente riassorbito da un’operazione di autorità personale che riunifica la società, ciò significa che non c’è spazio che per società autoritarie? È questa la sola e ricorrente conclusione, ovviamente esposta a nuove scosse e agitazioni, però sempre pronta a riproporsi?

Scrive Bataille, «una simile unità non deve essere considerata volgarmente come un mostro», essendo invece la forma «normale e sana» – l’unità è primitiva e naturale, afferma con sensibilità da antropologo. Sono piuttosto le lotte sociali, le spinte centrifughe, a rappresentare una «situazione patologica il cui termine è necessariamente una riunione autoritaria»5. Altrove suggerisce di «introdurre, nella regione stessa in cui si costituisce la forza imperativa, il principio di una decomposizione permanente», per sabotare gli operatori di coesione e «usurpare il valore imperativo che giustifica la sovranità dello Stato»6. Come accostare questi due passaggi? Da un lato risuona il vecchio e tranquillizzante adagio della disgregazione dell’intero come patologia, che afferma allo stesso tempo la normalità sana di un’unità costitutivamente pacifica o rifondata dopo una pacificazione e finalmente priva di turbamenti interni (bellicosa e conflittuale solo verso l’esterno), dall’altro si parla della decomposizione di ciò su cui si regge lo Stato. Che lo scarto sia rappresentato proprio dal termine «permanente», capace di rompere il ciclico ritorno delle società autoritarie? O tutto si gioca su quel «decomposizione», in grado di affermare l’immensa distanza che intercorre tra una situazione patologica curabile, anormalità temporanea in attesa di una rapida soluzione, e uno strutturale cambio di status dell’oggetto contaminato da un principio capace di corromperlo, consegnandolo a un disfacimento ormai avviato e ora inarrestabile? «La paura tipica deriva da una decomposizione dell’omogeneo nel suo progetto attraverso il tempo – in seguito all’intervento di un elemento qualunque minacciante di distruzione l’omogeneità»7.

Note:

1Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007, p 104.

2Georges Bataille, Il fascismo in Francia, in Id., Il problema dello Stato e altri scritti politici, casa di marrani, Brescia 2013, p. 22.

3Ivi, p. 64 (La polarità umana…).

4Questa «sfocia, alla lunga, nella riduzione all’unità», Ivi, p. 53 (La regalità dell’Europa classica).

5Ivi, p. 24 (Il fascismo in Francia).

6Ivi, p. 13 (Né Dio né padroni).

7Ivi, p. 79 (Il disgusto).

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