Jurgen Habermas, Tra scienza e fede. Una recensione

La secolarizzazione dell’autorità statale e la libertà positiva e negativa dell’esercizio della religione sono due facce della stessa medaglia. Esse hanno protetto le comunità religiose non soltanto dalle conseguenze distruttive dei sanguinosi conflitti fra di loro, ma anche dallo spirito antireligioso di una società laicistica. È vero che lo Stato costituzionale può proteggere i suoi cittadini religiosi e non religiosi gli uni dagli altri soltanto quando questi non solo trovano un modus vivendi nella reciproca frequentazione, bensì vivono per convinzione in un ordinamento democratico. Lo Stato democratico si nutre di una solidarietà che non si può imporre con le leggi, fra cittadini che si considerano reciprocamente membri liberi ed eguali della loro comunità politica” (Jurgen Habermas, Tra scienza e fede)

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La traduzione del titolo in italiano di questo libro è già di per sé un’eloquente estremizzazione di un conflitto, ed una riduzione del conflitto a temi che evocano un problema ideologico più settoriale. Il titolo originale tedesco è infatti “Zwischen Naturalismus und Religion” , cioè “tra naturalismo e religione”, e si sa, un titolo simile evoca battaglie del tutto diverse (e vende molti meno libri). Guidato dalla sua ben nota tesi della “razionalità comunicativa”, il più noto filosofo tedesco contemporaneo, Jurger Habermas, in questo libro percorre un tracciato che si dipana tra lo scientismo e l’intransigenza religiosa, due correnti opposte che ritiene possano minacciare la coesione civica. Ma, come avverte nell’introduzione, i capitoli del libro sono stati scritti in occasioni diverse e non costituiscono un insieme sistematico. Habermas negli ultimi anni si è in effetti occupato di numerose tematiche contemporanee, dal multiculturalismo fino al confine tra la fede e la scienza, compresi temi legati al diritto internazionale. Il volume sarà di sicura utilità per tutti coloro che s’interessano di filosofia sociale, morale e politica così come di filosofia della religione e di filosofia della scienza, e sarà più adatto a coloro che hanno già familiarità con l’autore e hanno il desiderio di conoscere gli ultimi sviluppi del suo pensiero.

I lettori dovrebbero anche essere avvertiti che il libro è scritto in uno stile non certo semplice. Come dice Habermas, la sua vita è stata segnata da un labbro leporino che lo ha costretto a sottoporsi ad un intervento chirurgico che ha reso difficile e frustrante  la comunicazione verbale.  Queste esperienze e alcune umiliazioni passate a causa di questo difetto  svegliarono in lui il senso dell’importanza di comunicare con gli altri rispettando le differenze, finché “la natura sociale degli esseri umani divenne più tardi il punto di partenza per le mie riflessioni filosofiche”. Ma  bambino Habermas ha anche vissuto la seconda guerra mondiale, e nella sua gioventù fu testimone della caduta del regime nazista nonché degli sforzi penosi per riportare nel paese una democrazia funzionante. Habermas confessa che fino al 1980 ha vissuto nella paura di una ricaduta nel fascismo. La pubblicazione nel 1953 delle lezioni di Heidegger del 1935 (Introduzione alla metafisica) senza alcuna modifica, e senza uno esplicito meaculpa del suo collaborazionismo col nazismo, era per Habermas un forte richiamo “dell’oppressiva eredità politica che persisteva ancora nella filosofia tedesca”. E tuttavia il  dopoguerra tedesco sembra aver instillato in Habermas una certa fiducia nel fatto che la democrazia formale e l’intervento della “comunità internazionale” possa promuovere la stabilità politica. Di conseguenza, anche in base ai suoi collegamenti con il marxismo attraverso la Scuola di Francoforte, e col suo attivismo di sinistra su temi che vanno dalle armi nucleari alle leggi in materia di asilo, la principale preoccupazione di Habermas sembra essere quella di forgiare un consenso politico al di sopra delle fondamentali divisione della società. Indefinitiva, la fede di Habermas nella democrazia borghese e nella ragione comunicativa lo distingue dal pensiero di alcuni maestri del sospetto suoi contemporanei, in particolare da quelle “critiche che distruggono la ragione attraverso la sua negazione astratta, come l’analisi oggettivante di Foucault o l’uso di Derrida del paradosso” .

Nei capitoli 2 e 3 Habermas situa il proprio pensiero all’interno di una tradizione alternativa, che include Hegel e Marx e recupera la ragione come pragmatica e storica, come la ragione “nel mondo”.  Ma nel corso della sua lunga carriera Habermas è giunto ad individuare le fondamenta di questa ragione detranscentalizzata o postmetafisica nell’ intersoggettiva costituzione della mente umana, e ancorando la sua filosofia  meno sul materialismo storico che, tra le altre influenze, sull’ ermeneutica o la tradizione interpretativa iniziata da Wilhelm von Humboldt, o sul pragmatismo americano, sulla filosofia analitica del linguaggio, e su Kant.

Il risultato è una pragmatica formale e universalista che fa perno sul concetto di discorso, la procedura con cui gli argomenti sono oggetto di un test pubblico. Il discorso razionale, sostiene Habermas, “si presenta come la procedura appropriata per risolvere i conflitti perché garantisce l’inclusione di tutti gli interessati e la pari considerazione di tutti gli interessi in gioco”. Ma, naturalmente, pari considerazione non significa equalizzare gli interessi  su cui sorgono i conflitti. L’enfasi habermasiana sulla comunicazione  fa parte della più ampia trasformazione  dall’epistemologia in linguaggio (caratteristica tipica della filosofia del ventesimo secolo) una svolta che ha evidenziato un aspetto importante dell’agire umano, ma, poiché il linguaggio di per sé non è emancipazione, non più di quanto la conoscenza lo sia di per sé , non ha realmente rappresentato un significativo passo avanti per la filosofia.

Habermas ritiene che la comunicazione non possa portare tutto il peso del consenso sociale, e così, nel capitolo 4, come parte di una discussione con l’allora cardinale Ratzinger (ora Papa Benedetto XVI) affronta la questione se la democrazia costituzionale si basi su fattori pre-politici come la religione. No, risponde, perchè  “la legittimità viene generato dalla legalità”, ma tuttavia è “nell’interesse dello Stato costituzionale di conservare tutte le fonti culturali che alimentano la solidarietà dei cittadini e la loro consapevolezza normativa”. Che la religione organizzata possa anche essere dannosa per le relazioni umane – come illustrato dallo scandalo della pedofilia  – non è un argomento di questo libro. Implicita nella sua  visione “post-secolare” del ruolo della religione nella società moderna è il riconoscere la religione da parte dello Stato in cambio del suo contributo al mantenimento dell’ordine sociale, motivando i credenti alla partecipazione alla vita politica. Contro la pragmatica formale di Habermas, questo “patto” rappresenta un’ammissione del fatto che la politica moderna dipende in ultima analisi dall’interesse popolare, più o meno motivato alla partecipazione alla società civile.

La preoccupazione di Habermas riguardo i termini di tale partecipazione lo porta a impegnarsi sull’importante dibattito dell’ espressione religiosa in una società democratica. Ripercorrendo con cautela una discussione occorsa fra John Rawls e i suoi critici, egli conclude che lo Stato deve giustificare le sue posizioni politiche in un linguaggio laico, ma non possiamo pretendere che i singoli cittadini facciano la stessa cosa. Si tratta di una conclusione sensata, e la necessità di uno stato laico discenderebbe dal “fatto del pluralismo” rawlsiano.

Nei successivi  capitoli Habermas risponde alla rinnovata polemica sulla libertà scientifica che ha portato ai recenti progressi nel campo delle scienze naturali, in particolare della genetica e della neurobiologia. Volendo sfidare l’anti-mentalista inclinazione della scienza moderna, Habermas si rifà allo “spazio delle ragioni” del filosofo americano  Wilfrid Sellars. Per Habermas questo spazio è soprattutto culturale e inter-soggettivo, in modo che la libertà d’azione appartiene alla “dimensione della mente oggettiva”, vale a dire, a una “mente simbolicamente incarnata in segni, pratiche ed oggetti”, piuttosto che ad una nostra capacità di unire le cause con la ragione, plasmando il mondo oggettivo secondo i nostri scopi soggettivi.

In assenza di un concetto dialettico-materialista di libertà, e in assenza di un progetto di grande trasformazione sociale che potrebbe seguire da esso, Habermas nel capitolo 8 torna alla filosofia della religione kantiana per discutere  su di una appropriazione secolare del contenuto semantico delle tradizioni religiose. Più precisamente, però, più che appropriazione è davvero una riappropriazione, in quanto, per essere traducibili in termini laici, i contenuti religiosi devono essere, nella formulazione stessa di Habermas, “verità profane”,  vale a dire, contenuti laici sotto mentite spoglie.

Ma il desiderio di Habermas di salvare tali contenuti contraddice il suo rifiuto di una critica razionalista della religione in favore di un approccio “dialogico” che non ha la pretesa di “decidere che cosa è vero o falso nella religione”.  Come si può identificare qualsiasi verità profana in una religione  senza un apporccio razionalista? Questa è una domanda che Habermas non si pone, sebbene evidentemente egli abbia il proprio metodo per tradurre la kantiana laicizzazione del regno di Dio in una comunità etico universale. L’universalismo che Habermas vuole non deve essere realizzato in una società futura dove gli esseri umani non si utilizzino più e non si sfruttino a vicenda, ma piuttosto nelle attuali procedure politiche in cui i cittadini ed i gruppi negoziano le loro identità culturali. Di conseguenza, egli sostiene, contro Kant, che “dobbiamo in primo luogo affermare che le concezioni del regno di Dio e di una “comunità etica” sono intrinsecamente plurali”. Ma il pluralismo è solo un mezzo democratico necessario per creare e sostenere una sfera pubblica di fronte al conflitto sociale e religioso. E’ tutto sommato molto meno ambizioso rispetto all’abolizione di tale conflitto, immaginato da Kant, Marx, e da molte dottrine religiose.

I capitoli dal 6 all’8 riguardano la tolleranza. Mentre Habermas evidenzia una netta sensibilità per le differenze culturali, allo stesso tempo pone severi limiti alla tolleranza politica. Uno stato democratico come la Germania  “deve ricorrere all’intolleranza verso i nemici della Costituzione“, sia utilizzando i meccanismi della politica del diritto penale sia vietando particolari partiti politici  e sospendendo dei diritti fondamentali. I nemici che ha in mente includono “l’ideologo politico che combatte lo Stato liberale” nonché “il fondamentalista che attacca violentemente il moderno stile di vita in quanto tale”. Habermas però si dimostra prudente, mostrando in questo caso il pericolo di autoritarismo ricordando che coloro che sono sospettati di essere “nemici dello stato” possono benissimo rivelarsi “radicali difensori della democrazia”. Ma esplorare le contraddizioni tra lo Stato moderno e  la democrazia richiederebbe per Habermas indagare le basi di classiste di quello stato, che è esattamente ciò che il suo approccio in questo caso non fa. Chiaramente, il suo atteggiamento illiberale nei confronti dei nemici della democrazia liberale dipende dalla sua esperienza di un regime nazista che è salito al potere con l’appoggio delle masse, ma sicuramente la stessa esperienza mostra anche i pericoli dei regimi intolleranti.

Nel capitolo conclusivo Habermas afferma il suo sostegno al cosmopolitismo kantiano, ma respinge al tempo stesso il suo sogno utopico di una repubblica mondiale. Avanza proposte che includono la riforma delle Nazioni Unite come un meccanismo per costruire una struttura sovranazionale più solida  di norme;  la formazione di forti alleanze regionali e continentali, e una continuazione del sistema delle nazioni, con il monopolio della forza impedito ad ogni stato. Complessivamente, queste proposte sono piene di pericoli e contraddizioni di cui  Habermas non discute, in parte perché, al momento della scrittura, la sua analisi era  dominata dalla preoccupazione del neo-liberismo che prevaleva sulla sinistra, prima della crisi economica attuale. Se a breve termine gli eventi hanno già reso questo capitolo finale datato, ad una prospettiva a lungo termine il suo drammatico ridimensionamento del cosmopolitismo kantiano illustra meglio di qualsiasi altra cosa in quale surrogato si sia trasformato lo spirito rivoluzionario della filosofia europea . Il che naturalmente non è una riflessione sul carattere del suo autore, ma sui tempi che stiamo tutti vivendo.

Francesco Lorenzi

Un pensiero su “Jurgen Habermas, Tra scienza e fede. Una recensione

  1. A proposito di religione e del ruolo dei credenti, si possono ricapitolare tre tappe nel pensiero di Habermas (Philippe Portier, Parigi-Sorbona, https://www.ufjf.br/ppcir/files/2012/10/conf-1.pdf, fonte consultata il 17 giugno 2016): ① fino alla prima metà degli anni 1980, sparizione della religione dal dibattito democratico, in quanto fattore alienante; ② dal 1985 fino al 2000 approssimativamente, privatizzazione della religione in quanto sollievo delle sofferenze personali; ③ dall’inizio del nuovo millennio, pubblicizzazione, cioè ritorno della religione nella sfera pubblica in quanto riserva di \”intuizioni morali\” capaci di introdurre la verticalità nella gestione delle esistenze collettive nel senso di una \“società post-secolare\”. Tuttavia Habermas rimane fermo sul punto che si deve sempre escludere ogni apologetica, metafisica, discussione di fondo e quindi ogni preoccupazione per la verità (o meno) del dogma religioso, in contrasto con l’approccio cattolico omnicomprensivo.

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