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La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz. Una recensione
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La ormai classica novità di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz (BUR 2009²), pubblicato la prima volta nel 1930, consiste innanzi tutto nel fatto che il libro ripercorre tre letterature, inglese francese e italiana, isolando la sensibilità erotica degli autori romantici, in aperta sfida alla critica idealistica del tempo, e provocando la moralistica stroncatura di Benedetto Croce, che pretendeva una maggiore complessità per il romanticismo e per la vita stessa in cui non doveva prevalere «la patologia sessuale» e che «vuole la distinzione e con ciò l’armonia di tutte le sue parti». Tant’è vero che viene a un certo punto fatto di domandarsi, rileggendo Praz (e questa non è che una delle tante fascinazioni di questo testo, di segno spesso esoterico), quando, e addirittura se, sia davvero finito il Novecento (romantico), dal momento che, in secondo luogo, la più grande e seducente intuizione critica di Praz è stata quella di rimettere radicalmente in discussione le formule storiografiche ricorrenti, dandoci come un unicum indivisibile sia il romanticismo (e non solo le sue propagginazioni più abitualmente riconosciute come tali) sia la scapigliatura sia il verismo sia lo stesso decadentismo, prolungando il periodo romantico come un tutt’uno fino a gran parte della letteratura dello stesso Novecento, o almeno di quello a lui contemporaneo (Praz è morto nel 1982). Secondo Croce, era illegittimo da parte di Praz segnare in modo tanto debole la differenza tra romanticismo e decadentismo, e spingersi a «far consistere il cosiddetto romanticismo nella formazione di una sensibilità nuova, quella appunto che si manifesta nelle tendenze e figurazioni che egli così largamente espone». Nell’Avvertenza alla seconda edizione del 1942 Praz gli risponderà in modo articolato, peraltro basandosi proprio sulla crociana Storia d’Europa nel secolo decimonono, che la sua non è una sintesi del romanticismo tout courtbensì una monografia su particolarità tematiche della sensibilità romantica.
«L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrate nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili.» Comincia così la monografia comparatistica di Praz, e subito segue l’osservazione che critica letteraria presuppone storia della cultura: «storia della cultura d’un ambiente e storia della cultura d’un individuo». Si continua per più di quattrocento pagine fittissime, infarcite di autori, personaggi, citazioni in francese, generi letterari, epoche, ambienti, miti, passioni, ripercorrendo le costanti tematiche della bellezza medusea cantata da Shelley, della metamorfosi diabolica in Byron, di Sade antecedente diretto dei romanzi di Flaubert, della bellezza diabolica celebrata da Keats, della Salomè di Wilde, dell’algolagnia sadomasochistica di Swinburne, dei plagi di D’Annunzio, messe in relazione con le innumerevoli varianti offerte dal contesto di volta in volta analizzato. Un gioco a incastri, aperture, intagli, passaggi sotterranei di cui è impossibile dare un resoconto esaustivo.
Di epicurei dall’immaginazione cattolica risulta piena la grande letteratura decadente a partire da Chateaubriand. Huysmans va d’accordo col marchese de Sade cogliendo una verità da trasgredire proprio in quanto creduta (diversamente non ci sarebbe nulla da violare). C’è il sospetto che Praz tratti la nevrosi di questi autori come un appianamento (o un sollievo) nella delectatio morosa, con un inevitabile residuo di irrisolto nella vita. A questo irrisolto lui sembra aderire perfettamente, perché è anche il suo, e resta il suo quando lo contesta o contestualizza in un’infinità di rimandi, giustamente proiettivi o esclusivi, coinvolgendo i generi minori e le arti figurative, soprattutto la pittura preraffaellita. In altri termini un cristianesimo torbido era già presente in Dostoevskij, investendo l’irrealtà quale giustificazione e soddisfacimento della pulsione: il peccato in convento o rivolgersi alla messa dopo la compulsione sessuale equivale sul piano filosofico ad assumere il sacro come profondità del profano e non come sua necessaria contraddizione. Huysmans predilige il latino post-classico perché si ritrova nella mancanza di equilibrio senecana e nel compiacimento di Petronio, molto più che nel tentativo del periodo cristiano di costringere a una mediazione il paganesimo e la nuova religione. Gide riceve una sostanziale stroncatura, eternamente oscillante tra la paura di compromettersi – a differenza di Wilde, che sfidò quella paura ribaltandola nella provocazione, fino a uno stupido errore di calcolo masochista (l’algolagnia) – e il desiderio di compromettersi. Gide è visto da Praz come un «ermafrodito morale, sospeso tra diverse possibilità e, in conclusione, negativo, sterile.» Ciò che dispiace di questo libro è semmai la considerazione in cui l’autore mostra di tenere Sainte-Beuve (già nell’Avvertenza del ’42, o per i rapporti tra Byron e Chateaubriand, per es., e comunque non sempre portato a modello), che, come è risaputo, non comprese Stendhal.
Quando si parla di Praz non si può non pensare alla sua casa. L’abitazione privata di Praz, oggi museo, era l’oggettivazione dell’io di Mario Praz, come se fosse una casa della morte. Non l’io sperimentale, anagrafico o pratico, bensì un io profondo, che stava al di qua degli oggetti – la sua collezione di arti minori – e al di là anche del suo caro e semplice io. Quella mancanza di vita, in un rispecchiamento dell’io sublime che si riconosceva negli oggetti raccolti nella casa-museo di Praz, era una contemplazione della morte sottoforma di vita, restituita dalle conversation pieces. Era inconfondibile il sentimento di claustrofobia che doveva venirgli dalle arti minori, dove si rispecchiava e ritrovava quel suo io: «Con i colori più caldi, con l’amorosa sensualità melodica che Tasso e Rubens avevano nutrito nella sua penna, – ha scritto Pietro Citati – provava a immaginare quella vita pura e senza oggetti che forse avrebbe potuto conoscere. Gli sembrava di aver fallito in tutto, riempiendo la casa di cose morte, uccidendo attimi incorporei di tempo possedendo un’esistenza che non gli apparteneva.» Tutto doveva restare immune dalla contaminazione del mondo, a prezzo dell’isolamento, perché tutto fosse perfetto e intangibile nella contemplazione della bellezza.
Ma la vita ha una forza incontrollabile e presenta svolte immoralistiche, completamente imprevedibili. Vicino a Mario Praz, esattamente al piano superiore della casa di via Zanardelli, dopo la lavorazione di Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Visconti, per caso andò ad abitare Mario Schifano, che aveva dichiarato di voler abbandonare la pittura e dedicarsi al cinema, da lui giudicata arte viva. Detestava lo psicologismo di Bacon, non gli interessava Morandi, non lo riguardava Pollock, apprezzava Raushemberg come uomo e non come pittore. Amava de Chirico, Boccioni, Balla, Picabia, Picasso, Jasper Johns, Jim Dine. Come artista si dava alle più sperimentali incursioni maledettistiche fin nel mondo delle droghe pesanti e Praz era vistosamente imbarazzato di averlo come vicino. Schifano faceva un gran chiasso, era scomposto assordante ambiguo senza ritegno, inquinava il silenzio della sua solitudine, lo disturbava. Il professore era infastidito, aveva perso la pace, senza neppure ritrovare la vitalità smarrita nella perfetta collezione delle sue conversation pieces. Questa singolare situazione circolò nel mondo artistico-letterario romano dei primi anni Settanta, colpì Luchino Visconti, già malato, dopo la trilogia tedesca, per la portata profetica che il suo film veniva ad assumere in questa determinata circostanza. A Praz come alter-ego del regista e alle sue miniature, alla sua casa-museo, alla sua rinuncia al mondo esterno, alla defunzionalizzazione del suo sapere (e, d’altro canto, a Mario Schifano trasfigurato a posteriori nella volgare e attraente famiglia di inquilini, emblema dell’invivibilità del presente, che vengono a invadergli l’abitazione), si era infatti ispirato Enrico Medioli per il personaggio del professore. Visconti ne fece un Kammerspiel, un film-requiem tutto girato in interni, come a teatro, citando la Recherche, dove si parla di un inquilino immaginario al piano di sopra che si aggira, inquietante, misterioso, come una metafora della morte.
Les maitres fous (documentario). Le nuove religioni in contesto coloniale e neocoloniale
Come direbbe Michel Leiris: “Due culture sembrano fondersi in un affascinante, ambiguo abbraccio, soltanto perchè l’una possa infliggere all’altra una più evidente negazione” (Frele bruit). “I maestri folli” (Les maitres fous) è un documentario girato in Ghana nel 1955 dal regista francese Jean Rouch, qui sottotitolato dal nostro sito “filosofiprecari”. Mostra le pratiche rituali di una setta religiosa nata negli anni del dominio coloniale. Nell’appezzamento del loro gran sacerdote, dopo una confessione pubblica dei peccati, gli adepti iniziano il rito della possessione. Convulsioni, tremiti, respiro affannoso: comincia l’imitazione della struttura sociale dei bianchi. Stati di parossismo psicologico che ricordano rituali endorcistici ed esorcistici di molte religioni e culture del mondo… sono i segni dell’arrivo degli “spiriti della forza”, spiriti che hanno i nomi dei dominatori bianchi: il “caporale di guardia”, il “governatore”, il “dottore”, il “conducente di locomotiva”… Il culmine della cerimonia si ha con il sacrificio di un cane che sarà poi mangiato dai “posseduti”. Il giorno dopo, gli iniziati tornano alle loro occupazioni quotidiane.
Per una genealogia dell’Eroe!
“Fino a che punto siete pronti ad aiutare il vostro prossimo?”
Sulla genealogia dell’Eroe è stato scritto molto. Un contributo importante, se non fondamentale, a questo argomento viene dal Collettivo Action30, ma si potrebbe citare anche (ancora) L’Eroe imperfetto di Wu Ming 4. Dal modello del Supereroe “classico”, tutto muscoli e superiorità “biologica”, si è passati decisamente ad altro. La mitologia è in continuo divenire. Non sono più necessari superpoteri particolari, esposizioni a qualche sostanza oltre la Natura terrestre oppure essere nati in una diversa dimensione dello Spazio. La “normalità” degli Esseri umani sembra essere diventata la caratteristica distintiva del nuovo modello di Eroe, propagandato in pompa magna tanto dalla fumettistica quanto dalla cinematografia. E’ sempre una normalità che riesce ad andare molto “oltre” la normalità, ma le capacità sono “umane, troppo umane“. Fin troppo umane, perchè spesso sembra bastare la volontà ed una buona dose di inconsapevolezza del pericolo. Ironico come, da Friedrich Nietzsche, in questo caso, si possano prendere alcuni elementi “cardine” della Filosofia: la Volontà di Potenza, l’Über-Mensch (l’oltreuomo) e, appunto, l’Umano troppo Umano. Un treno concettuale che dal passato ci riporta al presente. Il dubbio è che, in questa frantumazione-diffusione dell’eroismo, si vada verso una moltiplicazione, anche abbastanza fascistoide, di presunti “guardiani” dell’ordine e della disciplina, perchè la violenza diventa parte integrante di questa rappresentazione. Facile pensare alle “Ronde” metropolitane che spesso si producono per reazione a qualche “bassa” ingiustizia.
L’ultimo film che segna questa evoluzione della figura dell’Eroe (ed anche del modo in cui l’Eroe viene percepito dalla sua Comunità) è Kick-Ass. Una divertente parodia del processo di “eroificazione” che mostra come, nei fatti, sia stata ormai abbandonata la pomposa retorica del Superuomo, capace di cambiare i destini del Mondo, costruita ad hoc negli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta (insomma, in piena Guerra Fredda).
Reality show e filosofia
L’esperimento di Stanley Milgram : condotto nel 1961, aveva l’obiettivo di studiare il comportamento di soggetti a cui un’autorità (nel caso specifico uno scienziato) ordina di eseguire delle azioni che confliggono con i valori etici e morali dei soggetti stessi. L’esperimento cominciò tre mesi dopo l’inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Più di quaranta anni dopo, le cose cambiano. A svolgere il ruolo dell’autorità è il reality show, una conduttrice, le telecamere, il pubblico. Ad infliggere le scosse elettriche sulla vittima sono i partecipanti del reality. Sto parlando dell’esperimento sociologico condotto in Francia e spacciato per reality show, chiamato “La zona estrema”. In sintesi: 80 persone sono state selezionate per partecipare al nuovo reality. Ogni concorrente in studio e’ in squadra con un altro giocatore, che si trova invece isolato in una sala. A quest’ultimo viene chiesto di memorizzare alcune associazioni di parole, sulle quali gli vengono poi poste delle domande. Se sbaglia, il concorrente in studio lo deve punire, procurandogli scariche elettriche fino ad oltre 400 volt. In realta’ e’ tutta una messa in scena. Le scariche elettriche sono finte. Il giocatore che strilla dal dolore e’ un attore e cosi’ anche il pubblico e la presentatrice (Tania Young), che per tutto il tempo incitano i concorrenti alla tortura. Gli 80 partecipanti ignari si ritrovano cosi’ protagonisti involontari di un esperimento shock: solo pochissimi loro rifiutano di infliggere la pena, gli altri obbediscono senza ribellarsi.
Piccole considereazioni: nel reality, praticamente vi erano 80 conconcorrenti chiamati a torturare ripetutamente un concorrente, e che rinunciavano (o mettevano in sordina) il loro apparato decisionale per delegarlo all’autorità, i media. Rispetto all’esperimento di Millgram, l’autorità che impartiva “ordini” non era un medico con il camice bianco, ma il pubblico, la presentatrice, le telecamere, il “copione televisivo”. Considerando che si passa mediamente davanti alla TV il 50 % della vita, mi chiedo quanto i valori e le decisioni dei “sudditi” dei media siano autonomi. Dice il filosofo: nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo.
Filosofia nei manga. Una recensione
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Nell’immaginario comune, il mondo dei manga e degli anime è generalmente ritenuto soltanto uno svago per bambini e adolescenti, privo di contenuti con spessore.
La realtà è però ben diversa, come dimostra efficacemente Marcello Ghilardi, ricercatore e autore di Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo (Mimesis, pp. 162, € 14).
Dopo aver tracciato un profilo storico-culturale dei manga, comprendente le tappe più importanti (dagli schizzi di Hokusai alle influenze sull’arte di Van Gogh) con riferimenti alla tradizione artistica ed estetica della Cina e del Sol Levante, lo studioso si sofferma su alcuni aspetti significativi dei fumetti del Sol Levante, spesso sfuggenti a un lettore digiuno di rudimenti filosofici e di un’approfondita conoscenza del contesto nipponico. Si pensi, per esempio, ai numerosi accenni all’etica e alle vicende dei samurai, o ai valori del buddhismo e dello shintoismo, trasparenti solo a una minoranza di occidentali.
Uno dei temi portanti dell’opera è rappresentato da un’approfondita e documentata riflessione sul complesso rapporto intercorrente tra uomini, robot e cyborg, e ai legami intercorrenti fra le tre categorie; da essi Ghilardi tenta di estrinsecare una sorta di ontologia dell’automazione, riflettendo sulle cause che l’hanno generata e sulle ragioni che hanno decretato il suo successo. Nel fare ciò, illustra le teorie di Gomarasca in merito (le storie di robot racchiudono una metafora sociologica, una psicologica e una storica); in parallelo alla trattazione teorica, l’autore presenta testimonianze concrete, sviscerando alcuni aspetti tanto interessanti quanto poco noti di manga e anime più o celebri (Neon Genesis Evangelion, Gunslinger girl, Ghost in the shell, etc.).Nel denso contributo di Marco Pellitteri, Giappornologie, vengono evidenziati altri elementi caratterizzanti la produzione nipponica contemporanea, vale a dire quelli legati al mondo del sesso e del porno, con un’attenzione particolare verso le loro radici socio-antropologiche e le dinamiche sottese; anche in questo caso, la figura dell’automa (in particolare della donna cyborg) e quella della bambola gonfiabile assumono un significato ben preciso, in quanto esseri passivi, non minacciosi e facilmente controllabili.
Conclude il volume La verità dell’illusione, dedicato al regista Satoshi Kon che, con le sue commistioni di onirico e reale, umano e cibernetico, ha dato vita a nuovi orizzonti cinematografici e semantici, in cui l’apparenza – non di rado dall’impronta postmoderna – si confonde e si sposa con ciò che siamo abituati a chiamare (riduttivamente?) realtà.
(dal blog www.bibliotecagiapponese.it)
Italiani, brava gente!
Ha scatenato un mese di polemiche questo intervento di Roberto Benigni al Festival di Sanremo, ripreso qualche giorno fa dall’interessante contributo (da noi già citato) di Wu Ming che ricostruisce la Storia del nostro inno nazionale (dimostrando come, in realtà, faccia riferimento ad episodi che con l’Unità d’Italia c’azzeccano poco e niente). La cartina di tornasole utilizzata da Wu Ming è l’articolo di Alberto Mario Banti pubblicato da Il Manifesto il 20 Febbraio (che ha suscitato numerose reazioni, alcune anche molto violente). Banti, in sostanza, accusa: “con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale“. Perchè la sua lezione farebbe discendere il nostro “chi siamo” dai Romani, dalla Lega Lombarda, dai Vespri sicialiani e da Balilla (“ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci“). Tutti Eventi che, con l’Unità d’Italia, non avevano nulla a che vedere. Anzi, in certi casi erano rivolti contro gli stessi Piemontesi. Attenzione al neo-nazionalismo, conclude Banti, perchè si annida sempre nel nostro ventre. E, a vedere i festeggiamenti per il 17 Marzo, forse non ha avuto torto. Evocare con tanta enfasi l’auto-incoronazione di un Re (Vittorio Emanuele II) come momento fondamentale del nostro “chi siamo“, sembra davvero fuori epoca. Siamo così deboli che basta un sventolio di bandiere per riempire il vuoto di Comunità e di Terra che abbiamo.
Criticare Roberto Benigni, però, è un pò come provare a criticare (seppur bonariamente) Roberto Saviano. Quasi impossibile (si farebbe “Lesa maestà“, scrive provocatoriamente Il Fatto Quotidiano). L’immaginario collettivo trasforma troppo facilmente gli Esseri umani in “manifestazioni eroiche dello Spirito”. La ragione è semplice: è fin troppo comodo delegare la propria creatività ad altri piuttosto che praticarla quotidianamente per provare a trovare alternative di Vita. Troppo comodo stare davanti alla TeleVisione, partecipare all’audience oppure leggere un libro, senza esserne direttamente protagonisti.
Ad ogni modo, tornando all’argomento, un filo spinato divide due territori: patriottismo e nazionalismo. Anche assumendo (senza dare nulla per scontato, perchè di dubbi ce ne sono fin troppi) che uno sia cattivo e l’altro buono, il cuore del discorso sembra essere un altro. Come, giustamente, hanno fatto notare molti commentatori: siamo in piena euforia “italiana” senza renderci conto di cosa questo voglia dire. Non abbiamo mai fatto i conti con le nostre brutalità in Grecia, nella ex Jugoslavia ed in Africa. Tutto è stato censurato ed insabbiato, anche grazie (e, forse, a causa) dell’amnistia togliattiana. Wu Ming ricorda che la “Nazione” nasce, romanticamente, dall’intreccio idealtipico di Suolo e Famiglia (anche Engels parla di questo legame ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Questa è l’idea “conservatrice” della Patria. Ora, è su questo connubio costituente si dovrebbe ragionare. Stato/Patria/Nazione, Suolo e Famiglia sono elementi che si riconfigurano nell’attualità attraverso il Governo neoliberale dell’Emergenza. E’ questa nuova modalità che, da un lato, crea forme sociali di Comunità-Territorio (progressiste, come in Val di Susa; reazionarie, come la Lega Nord) che sostituiscono i legami Suolo-Famiglia e dall’altra genera una sorta di neo-nazionalismo identitario e poco incline alla riflessione. Basta una Bandiera per sentirsi parte di qualcosa, nel bene o nel male.
Di seguito Il Leone del Deserto, film diretto da Moustapha Akkad con Anthony Quinn censurato in Italia nel 1982 perché, secondo l’allora Primo Ministro Giulio Andreotti, “danneggia l’onore dell’esercito“.
Filosofia giapponese della catastrofe (2). Film, anime e ambiente
Sembra che le visioni terribili e post apocalittiche di Miyazaki (Conan, Nausicaa) e di Kurosawa (il film Sogni, nell’episodio “Fujiama in rosso” – clicca qui per vedere l’inizio) abbiano trovato una concretizzazione parziale. Scenari da guerra atomica e di devastazione, come se davvero si fosse concretizzato il mostro pop più famoso del Giappone, Gozilla, la somma di tutti i disastri dell’immaginario e dell’esperienza giapponese. A Sendai, dopo tsunami, terremoto e radiazioni della vicina centrale, sembra concretizzarsi anche il tema di ragazzi e bambini senza genitori che camminano fra le macerie: nei fumettisti e negli animatori giapponesi è un topos psicologico più che una moda, un archetipo originatosi dalla tragedia di Hiroshima e dai postumi della seconda guerra mondiale. Basti pensare a cartoni animati con cui siamo cresciuti, come l’Uomo Tigre (il protagonista è un orfano che si prende cura di orfani e scappa da una società militarizzata, Tana delle Tigri), Coccinella (l’eroina, orfana, vive cresciuta dai fratelli maggiori), e tanti altri esempi. Il tema viene portato alla sua massima compiutezza con Miyazaki: i suoi protagonisti sono sempre bambini senza genitori, giovani e forti, sani, che parlano con gli animali, rispettano la natura, sono puri, buoni (Lana in Conan, la stessa Nausica), vivono in nome dell’amicizia e dell’amore, valori sconosciuti agli adulti. Gli adulti (quelli della guerra, i tecnocrati, quelli che hanno distrutto il pianeta) sono sempre malvagi, utilitaristi o incapaci di capire (l’adulto, nei capolavori di Miyazaki, è sempre negativo). Conan è orfano, cresce col nonno che gli muore subito, deve riedificare una civiltà un po’ luddista ma a contatto con la terra, lontana da Indastria e dallo sfrutamento dell’uomo sull’uomo, lontano da quella minacciosa ed avanguardistica “energia solare” (parafrasi di quella atomica), nell’isola idilliaca di Hyarbor (un’isola davvero molto simile all’idillio dell’ultimo episodio di Sogni di Kurosawa) dove si è tornati alla terra e si pratica una particolare forma di socialismo. L’ ultimo residuo di quella umanità malvagia ed egoista che ha devastato il pianeta è il dottor Rao: il suo tremendo segreto sta nel fatto che è lui lo scopritore di quella diabolica energia, quell’energia che lui e altri scienziati volevano adoperare a fin di bene ma che ha sconvolto la storia e lo stesso il pianeta. Sarà proprio lui a riscattarsi ed a sacrificarsi, consegnando il futuro a Conan e Lana, novelli Adamo ed Eva. Indastria, l’ultimo residuo della tecnologia e del potere dispostico della civiltà antica anteguerra, sprofonda in mare in seguito ad un grande Terremoto. Manco a farlo a posta, un maremoto (oggi diremmo uno tsunami) colpisce la stessa Hyarbor, ma del resto il tema del cataclisma purificatore lo si respira nel titolo stesso dell’opera da cui è tratta la serie animata, e cioè La Grande onda (A Big Tidal Wave).
Oratoria, retorica, il saper parlare. Analisi del discorso di Marco Antonio
Il discorso di Marco Antonio, qui reso in versione cinematografica da uno statuario e olimpico Marlon Brando (italiano, qui doppiato dal grande Emilio Cigoli, voce forse più coinvolgente di quella originale), è uno degli esempi più incredibili dell’uso dell’arte oratoria. E’ uno degli esempi più illuminanti di quello che è il vero fine di un discorso: la gestione dell’emotività dell’interlocutore. Shakespeare, anche in questo caso (come nel Mercante di Venezia, ma in tante altre opere) dimostra che a saper convincere un pubblico sono sempre coloro che usano particolari accorgimenti retorici.
Cosa sono le nuvole? Una recensione
Otello burattino: Ma qual è la verità? E’ quello che penso io de me, o quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là lì dentro [indica il burattinaio]
Jago burattino: Cosa senti dentro di te? Concentrati bene… cosa senti, eh?
[pausa di silenzio]
Otello burattino: Sì, sì, si sente qualcosa che c’è!
Jago buratinno: Quella è la verità! Ma sssssshhh… [si porta l’indice sulle labbra] non bisogna nominarla, perchè appena la nomini, non c’è più…
(Cosa sono le nuvole?, regia di Pier Paolo Pasolini, 1967)
Ve lo ricordate? A me è capitato di rivederlo qualche sera fa. Cosa sono le nuvole?, un capoloavoro del cinema Italiano. Pasolini mise sullo stesso palco Totò, Ciccio Ingrassia, Franco Franchi, Laura Betti, attori di avanspettacolo, maschere come Pulcinella, attori bistrattati e violentati dal cinema di massa degli anni 50 e 60. Attori che ora appartengono al mondo delle ombre. Pasolini provò a ridarli dignità, e provò a farli essere loro stessi, come sempre tentava di fare con chi lavorava nei suoi film. Con questa pluriannale pratica Pier Paolo scoprì così che erano attori fusi con il loro personaggio, con la loro produzione artistica, con la maschera che si erano costruiti addosso. Non esite un Totò diverso dal ruolo che impersona, nel cinema/vita di Pasolini. Con lo stesso principio Pasolini faceva recitare nei suoi film attori comuni – presi dalla strada – come Ninetto Davoli (il tenero Otello del film) con attori professionisti.
Gli Ausmerzen delle isole Marshall
L’amore odio per il corpo tinge di sé tutta la civiltà moderna. Il corpo, come ciò che è inferiore ed asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come cioè che è vietato, reificato, estraniato. Solo la civiltà conosce il corpo come una cosa che si può possedere, solo in essa esso si è separato dallo spirito – quintessenza del potere e del comando – come oggetto, cosa morta, corpus. […] Col pieno trapasso del dominio alla forma borghese, mediata dal commercio e dal traffico, e ancor più con l’industria, ha luogo un mutamento formale. L’umanità si lascia asservire, anziché dalla spada, dall’apparato colossale, che alla fine, peraltro, torna a forgiare la spada. Così è scomparso il senso razionale dell’esaltazione del corpo virile; i tentativi romantici di rivalutazione del corpo nell’Ottocento e nel Novecento non fanno che idealizzare qualcosa di morto e di mutilo. Nietzsche, Gauguin, George, Klages, videro la stupidità indicibile che è il frutto del progresso. Ma ne trassero una conclusione errata, e invece di denunciare l’ingiustizia di oggi, idealizzarono quella di una volta. L’ostilità alla meccanizzazione è divenuta un semplice ornamento della cultura industriale di massa, che non può fare a meno di un bel gesto. Gli artisti hanno preparato per la pubblicità, senza volerlo, l’immagine perduta dell’unità di anima e corpo. L’esaltazione dei fenomeni vitali, dalla bestia bionda all’isolano dei mari del Sud, sfocia inevitabilmente nel film “esotico”, nei manifesti pubblicitari delle vitamine e delle creme di bellezza, che tengono solo il posto del fine imminente della rèclame: del nuovo, grande e nobile tipo umano, dei capi e delle loro truppe. I capi fascisti riprendono direttamente in mano gli strumenti di morte, abbattono i loro prigionieri a colpi di pistola e di frusta – non in virtù di una forza superiore, ma perché quell’apparato colossale e i suoi veri padroni, che ancora non lo fanno, consegnano loro le vittimi della ragion di stato nei sotterranei degli altri comandi. […] Quelli che in Germania esaltavano il corpo, ginnasti e camminatori, hanno sempre avuto la massima affinità all’omicidio, come gli amici della natura alla caccia. Essi vedono il corpo come un meccanismo mobile, le parti nelle loro articolazioni, la carne come imbottitura dello scheletro. Essi maneggiano il corpo, trattano le sue membra come se fossero già separate. La tradizione ebraica conserva la ripugnanza a misurare l’uomo col metro, poiché si misurano i morti – per la bara. E’ ciò di cui godono i manipolatori del corpo. Essi misurano l’altro, senza saperlo, con lo sguardo del costruttore di bare. Si tradiscono quando enunciano il risultato: dicono che l’uomo è lungo, corto, spesso, pesante. Sono interessati alla malattia, spiano già, durante il pranzo, la morte del commensale, e il loro interesse per tutto ciò che è razionalizzato solo fragilmente con la sollecitudine per la salute. Il linguaggio tiene il passo per loro. Esso ha risolto la passeggiata in movimento ed il vitto in calorie, un po’ come la foresta viva si dice legno (bois, wood) nel francese e nell’inglese corrente. La società riduce, col tasso di mortalità, la vita ad un processo chimico. (Adorno – Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, pp. 252-254)
Koko, a talking gorilla
(nella foto in alto, due gorilla di montagna fotografati in Uganda)
KOKO, A TALKING GORILLA(Koko, un gorilla che parla), tradotto in italiano da noi filosofiprecari, è uno straordinario documentario (benché datato) che mostra inequivocabilmente che non vi è nessun salto ontologico fra la specie umana e le altre specie viventi, ma una continuità. Ad un gorilla di pianura – tuttora vivente – dagli anni Settanta in poi è stato insegnato il linguaggio dei gesti dei sordomuti; Koko riesce tramite esso ad esprimere sentimenti, stati d’animo, a dire bugie, fare congetture, riferirsi ad avvenimenti del passato ed a proposte per il futuro; riesce in altre parole a comunicare efficacemente ed in maniera continua con una specie diversa dalla sua, l’essere umano. Ricombina inoltre i segni imparati in maniera autonoma, forgiando nuove parole e combinazioni di parole per significare nuovi oggetti e nuove realtà, anche esistenziali, in cui si imbatte, fino al punto d insegnarli ad altri Gorilla e perfino agli Scimpanzé.
La teoria dell’evoluzione, a duecento anni dalla nascita del suo primo fondatore, sottoposta in Italia come nel mondo a continui attacchi in nome della politica teocon-teodem, di alcune confessioni religiose, e di alcune frange dell’umanesimo, trova in questo incredibile esperimento una conferma ed un avvallo; benché datato e condotto secondo tecniche e strategie educative oggi superate, l’ “esperimento” rimane una pietra d’inciampo: l’ultimo baluardo dell’unicità umana in nome del linguaggio o di pseudo principi extranaturali come anima ed inanimazione, e dicotomie del tutto fittizie quali natura/cultura, naturale/artificiale, essere umano/natura, vengono infrante dall’evidenza dei fatti. L’uomo che cerca di relazionarsi con specie extraterrestri, cercando l’intelligenza in surrogati umani di altri pianeti, si accorge incredibilmente che forme di vita intelligenti, o diversamente-intelligenti lo circondano, lo hanno sempre circoandato. Questione di metodo, di ignoranza, di ideologia, specie di una “naturalizzata” ideologia ebraico-cristiana. Sorge finalmente l’evidenza che vi è una continuità assoluta fra specie umana e le altre specie viventi, fra uomo e natura, in termini di capacità, dignità e diritti, e quindi – purtroppo solo in teoria – ciò distrugge l’intramontabile paradigma antropocentrico, il paradigma occidentale-biblico (ma purtroppo, spesso, anche scientifico) che vede l’essere umano al centro della “creazione”, nato o creato per dominarla in nome della “differenza di natura”. Questa differenza sembra essere, ora più che mai, il vero peccato originale della cultura occidentale. Basterebbe spingersi un po’ più ad oriente nel mondo per trovare ideologie religiose radicalmente anti-antropocentriche, basti pensare al buddismo o al buddismo zen. Ma qui in Occidente navighiamo davvero verso la fine del nostro miope ed essenzialista umanesimo, come hanno fatto intendere, per esempio, Nietzsche ed Heidegger?
(Video 1 e 2)
koko1 di alessandro-stella
koko2 di alessandro-stella
Invictus, ovvero sul potere dello sport. Una recensione del film
Invictus, di Clint Eastwood, è un’ ottima occasione per riflettere sulla costruzione dell’identità nazionale di un popolo che si riscopre unito solo durante un evento sportivo. Un Sudafrica diviso in due: bianchi e neri, ogni gruppo ha un suo sport d’elezione. I bianchi, discendenti dei vecchi colonizzatori boeri ed inglesi, giocano a rugby, uno sport “barbaro giocato da gentiluomini”. I neri giocano a calcio, sport “gentile giocato da barbari”. Mandela, leader descritto come pacificatore nazionale, si accorge dell’occasione offerta dai campionati mondiali di rugby per tentare una difficile conciliazione simbolica, sotto un’ unica bandiera, sotto un unico inno e dei colori unici. Una delle scene centrali del film è proprio l’acclamazione popolare del nuovo presidente nero nello stadio, durante la premiazione della finale vinta dalla nazionale sudafricana contro new zeland; i bianchi lo applaudono ed inneggiano al suo nome. Il paradosso del “tribalismo” sportivo: ci si scorda dell’apatheid, delle segregazioni, degli odi, del PIL, della crisi, delle vendette, almeno per qualche tempo. Un nuovo apparato simbolico costruito ad hoc, che avvolge tutti, da cui è difficile prescindere, un apparato che delimita un nuovo confine tra il noi (non più l’io) e l’alterità. Il tutto fatto con la massima serietà, dando ragione ad Huizinga di Homo ludens: chi gioca, chi gareggia lo fa con la massima serietà, oltre che con libertà. L’atmosfera del gioco, della competizione, è ben delimitata, è sacrale, è un tempio (da temno, dividere). Gareggiare è un bisogno primario, così come è un bisogno primario costruirsi una identità, delimitarsi. Ed ecco che identità e sport, ma anche sacro e sport, possono tranquillamente essere sovrapposti, diventare (ma lo sono sempre stati) bisogni primari, e magari (spero) noi filosofi un giorno ci accorgeremo che sport, gara e gioco sono argomenti da affrontare con molta più attenzione, con la stessa serietà con cui un giocatore di rugby affronta la sua partita. Proprio il filosofo Huizinga descrive il gioco in cinque punti, che vedo parecchio assimilabili alla struttura del sacro:
1) Il gioco è un atto libero, è libertà
2) Il gioco non è ordinario, o di vita “reale”
3) Il gioco si distingue dalla ordinarietà in durata e nello spazio
4) Il gioco crea ordine, è ordine. Il gioco richiede un ordine assoluto e supremo
5) Il gioco non è connesso con bisogni materiali, e non ci può essere profitto in esso
Ci sarebbe molto da commentare. Mi limito a dire, molto sinteticamente, che trovo troppo classica e del tutto irreale la suddivisione fra bisogni “materiali” ed “immateriali”, e che non esiste un gioco puro, che non abbia qualche forma di profitto (il profitto non è solo qualcosa di meramente monetario).
Ma torniamo al film. La trama è molto lineare, costruita senza funambolismi registici e facile da comprendere. I personaggi sono dei topos, ognuno rappresenta una categoria di persone diversa (lo sportivo, il politico, l’uomo di partito, il presidente, la guardia del corpo) . Manca però, o è marginale, la categoria “vecchia generazione”, giacchè il film è centrato sul nuovo, sui giovani, su coloro che sono disposti ad accettare, a scommettere su una nuova idea di convivenza e di nazione. Il nuovo ha pero come mentore Mandela, un anziano e saggio presidente che si assicura che l’intera squadra di rugby capisca gli orrorri e gli errori della vecchia generazione. Dicevo, manca il negativo: gli stessi genitori del capitano della nazionale di rugby, Francois Pienaar, che (all’inizio del film) rappresenterebbero il “vecchio”, sono insufficientemente delineati, anzi, vi è descritta una loro “conversione”, una apertura al nuovo. Manca cioè, da un punto di vista narrativo, l’ostacolo, dal punto di vista reale e politico, gli orrori e le disegualianze che ancora appestano il Sudafrica: il film porta con sé una buona dose di ottimismo e speranza, molto distante da altre pellicole che affrontano più da vicino il problema razzismo, come Il colore della libertà.
Una nota a margine: tutto il Sudafrica nero, nella finale del mondiale di calcio del 2010, ha tifato per la Spagna. L’Olanda sapeva troppo di boeri, afrikaners, i loro diretti ex colonizzatori, gli attuali gruppi di interesse più potenti del Sudafrica. Loro, naturalmente, tifavano per gli orange.