Momigliano, Saggezza straniera. L’ellenismo e le altre culture. Una recensione

L'impero di Alessandro il Macedone nella sua massima espansione geografica

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Nella precedente produzione letteraria dell’autore relativa alla storiografia delle culture, erano già presenti alcuni temi afferenti all’ellenismo. Momigliano tratta questo argomento con l’intento di chiarire il rapporto tra l’ellenismo e le altre culture antiche: la questione di capitale importanza, e così poco affrontata da altri storiografi, di come la Grecia e la sua espansione culturale (non disgiunta da quella politico-militare) fosse recepita dalle altre culture dell’area mediterranea; ma anche il problema contrario: come la Grecia recepisse le altre. Una storia di fraintendimenti, idealizzazioni, osmosi reciproche, contrasti e fascinazioni, tipiche di quella prima grande “globalizzazione” europeo-asiatica che fu l’ellenismo. Il tutto, risalendo a un arco di tempo ben preciso: dal quarto secolo a.C. fino al I a.C. L’immagine di un ellenismo omogeneo fornito da Droysen (il creatore del termine “ellenismo”), come insegna bene Momigliano, è tutta da smitizzare. L’autore ne spiega, con metodo, le dinamiche complesse, mostrando l’intelaiatura fra filosofia, cultura ed eventi socio-politici fra dominanti e dominati. Nella breve prefazione l’autore motiva lo scopo della presente ricerca; scopo che “era quello di stimolare la discussione su di un importante argomento senza indulgere in congetture”. Questo lavoro risponde quindi all’intenzione dell’autore di cogliere, da un lato, l’atteggiamento dei greci nel loro impatto con quattro particolari civiltà (i Celti, gli Ebrei, i Romani, gli Iranici) proprio nel periodo della loro decadenza politica, e, dall’altro, le conseguenti acquisizioni culturali che si generarono in questi tre secoli sotto la spinta della potenza romana, che ereditò la “sapienza greca” dopo averla inizialmente combattuta.

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Eros e civiltà, di Herbert Marcuse. Una recensione di Gabriele Ottaviani

Herbert Marcuse durante un'assemblea studentesca (1968)

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Herbert Marcuse (Berlino, 19 luglio 1898 – Starnberg, Baviera, 29 luglio 1979), è il principale interprete e ispiratore – almeno per la quasi totalità dei critici – di quella corrente filosofica e di pensiero nella quale si sono poi riconosciuti i fautori dei fermenti del movimento studentesco. Questo movimento portò con veemenza alla ribalta mondiale, tramite partecipate manifestazioni, scritti e azioni varie, le proprie istanze, talvolta finanche tradite, a partire dal 1968, anno diventato poi la data simbolo di un nuovo modo di intendere e considerare la società, quella già esistente e quella da costruire e ricostituire, e di un nuovo modo di considerare ed edificare il ruolo dell’Uomo all’interno del contesto in cui conduce la propria esistenza. Marcuse è l’autore di numerosi scritti e saggi: uno dei più celebri è con tutta probabilità “Eros e civiltà” (“con questo titolo”, scrive il filosofo nella prefazione al suo scritto, edita nel 1967, “intendevo esprimere un’idea ottimistica, eufemistica, anzi concreta, la convinzione che i risultati raggiunti dalle società industriali avanzate potessero consentire all’uomo di capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertà” – termine che Marcuse sovente esita a usare, “perché è proprio in nome della libertà che vengono perpetrati crimini contro l’umanità”, –  “e repressione”), un volume complesso e strutturato in più parti, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti d’America nel 1955, e divenuto un testo basilare di quella che fu chiamata, non senza una certa sufficienza da parte di alcuni, “controcultura giovanile”.

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Il Manzoni eretico. La sua filosofia e la sua teologia

“Ogni tanto tra mezzo al ronzio continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; [..] que’ tempi, forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so quale gravezza ad ogni operazione, all’ozio, all’esistenza stessa. Ma in quel luogo destinato per sé al patire ed al morire, si vedeva l’uomo già alle prese col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l’ultima lotta era più affannosa, e nell’aumento de’ dolori, i gemiti più soffocati: né forse su quel luogo di miserie era ancora passata un’ora crudele al par di questa”. (I promessi sposi – 1840, cap XXXV, descrizione del lazzaretto)

Alessandro Manzoni è il letterato romantico italiano che più di tutti avverte la tremenda dicotomia tra fede cristiana e ragione, ma non solo; lo studio attento delle sue opere tradisce più volte la rassicurante lettura cattolica che per molto tempo ha dominato la sua interpretazione critica. Il messaggio più nuovo e moderno di Manzoni, il suo insegnamento problematico, angosciante e tutt’altro che autoritario e dogmatico, sta nel porre il lettore di fronte all’ignoto ed al segreto della vita senza rinunciare alle armi della ragionevolezza, della filosofia, del pensiero e del buon senso, ma tuttavia indicandone la debolezza, la fallacia. La fallacia di ogni tentativo di indicare un senso precostituito della vita, un “sugo della storia”, e soprattutto, un senso razionale al male. Sotto i colpi del Manzoni maturo, non cade solo la rassicurante ragione illuminista delle sue prime opere, o il teleologico idealismo hegeliano, ma anche la rassicurante fede cattolica e la sua teodicea: crolla cioè ogni legittimità di interpretare i legami tra mondo divino e storia umana. Manzoni cioè opera una vera e propria decostruzione, anche ironica, dell’idea cattolica di provvidenza.

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Il “capo”: alcune note su Garibaldi (L. Canfora)

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Ho dovuto combattere contro il più grande condottiero; mi è riuscito di mettere d’accordo imperatori, re, uno zar, un sultano ed un papa. Ma nessuno sulla faccia della terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo di italiano, emaciato, pallido, straccione, ma facondo come l’uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante, infaticabile come un innamorato: il suo nome è Giuseppe Mazzini (Metternich)

«Garibaldi era assolutamente privo di saggezza politica: non era né un maestro della letteratura italiana, come Mazzini, né un profondo statista come Cavour; ma come audace capitano di truppe irregolari, capace di ispirare nei suoi rozzi seguaci gli elementi di una fede politica semplice e appassionata, aveva in sé una omerica grandezza» ha scritto lo storico liberale inglese H. A. L. Fisher nel terzo volume della sua History of Europe (1935). Meno riduttivo un altro storico di ispirazione liberale, Benedetto Croce, il quale esalta più volte nei suoi scritti, di Garibaldi e di Mazzini, per lo meno il ruolo di modelli d’azione per le nazioni oppresse: «e ancora ai nostri giorni quei nomi – scrive nel 1928, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915- risuonano nella lontana India e quegli uomini hanno colà discepoli» . Durante la campagna che portò alla cacciata dei Borboni dal «Regno delle due Sicilie», Garibaldi assunse la dittatura (1860). Certamente egli pensava alla dittatura romana: magistratura che comportava i pieni poteri nelle mani di un’unica persona, ma per un limitato numero di mesi, eventualmente rinnovabile. Aveva alle spalle una lunga esperienza politicomilitare, dal Sud America alla Repubblica romana del 1849, in cui ugualmente aveva rivestito ruoli direttivi: anche se Mazzini, assurto per parte sua alla testa di un «triumvirato», gli aveva piazzato sul capo, come superiore, il generale Roselli, al quale Garibaldi disobbedì tutte le volte che gli parve di farlo. Ad un certo punto Garibaldi aveva proposto a Mazzini di dar vita piuttosto ad una guerriglia tra le montagne che non ad una ostinata, e militarmente perdente, difesa di Roma. Se però ci si ostinava ad optare per questa seconda strategia, chiedeva per sé la dittatura. Insomma la dittatura ritorna nei suoi pensieri come appetibile e necessaria forma del potere. Mazzini cercò di tamponare questa impennata e vi riuscì, ma poco dopo la Repubblica andava a rotoli.

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L’eroe dai mille volti e l’eroe “pop”. Una recensione del libro di Joseph Campbell

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Sto leggendo da qualche giorno La morfologia della fiaba di Propp, studio “vecchio” ma che sorprende per la sua analiticità e modernità, nonché per il rigoroso metodo scientifico applicato, per quanto possibile, a dei testi raccolti dal folklore del mondo intero. Il libro non può che ricordare (inaspettatamente, anche per alcune conclusioni) un altro capolavoro della mitologia comparata, e cioè L’eroe dai mille voltidi Joseph Campbell, studio che divenne la Bibbia di sceneggiatori del cinema come George Lucas.

Cosa hanno in comune, dal punto di vista morfologico, le storie su Gilgamesh, Edipo, Teseo, Budda, Bastiano (il protagonista de La storia infinita, di Michael Ende),  Gesù Cristo, Neo (l’eroe di Matrix), Pinocchio, Ulisse, Luke Skywalker (l’eroe di Guerre stellari), Frodo Beggins (l’eroe del Signore degli anelli), le storie dei giochi di ruolo o quelle di altri miti famosi delle culture umane? Cosa hanno in comune, per esempio, con la vita di Peter Parker o di tanti altri supereroi dei fumetti?  Non si tratta qui di cercare derivazioni, analisi genetiche, ma di “semplici” analisi formali, come quelle che fa Mircea Eliade nel Trattato di Storia delle religioni. Si tratta anche, in latere, di determinare come funziona la mente umana, la cultura, quali sono le meta-forme da cui viene attratta, quelle che conserva più facilmente e che “crea”, investe di “sacralità” antistorica più facilmente.

 

Campbell riassume e semplifica le cose in alcuni punti: l’eroe, il protagonista dei miti (oggi come ieri) affronta quattro fasi principali: 1) fase dell’innocenza, della vita ordinaria o dell’infanzia  2) separazione 3) iniziazione 4) ritorno. Ognuna di queste fasi ha al suo interno diverse varianti e componenti. Ad esempio, nella fase 1 spesso avviene che, all’inizio, l’eroe “rifuita” la chiamata ad una nuova vita, rifuta la separazione. Afflitto da tentennamenti, l’eroe supera una figura che Campbell definisce il Guardiano di Soglia, che offre all’eroe un quadro di quello che gli aspetterà e gli fa da guida.  La fase 3 infatti spesso si compone  dell’incontro dell’eroe con un mentore, un vecchio saggio, con degli aiutanti.  L’iniziazione è la fase “dolorosa”, con spesso la morte dell’eroe, la prova (l’eroe è divorato dal mostro, l’eroe combatte il mostro, l’eroe è smembrato, l’eroe patisce), con un immancabile oracolo che preannuncia tutto ciò, o con l’incontro con una Dea o con la donna perfetta di cui si innamora. Il ritorno, dopo l’apoteosi dell’eroe e la riconciliazione con il padre, è caratterizzato da una nuova forma di vita, quasi divinizzata, sacra, piena e ricca, responsabile, libera.

Qualche esempio. Siddharta è un principe ricco e potente, protetto dalle premure del re padre. Un vecchio preannuncia, alla madra Maya, appena nato, il suo futuro glorioso. Siddharta vive all’interno di una città protetta da mura, in cui egli non conosce povertà, la vecchiaia né la sofferenza. Ma un giorno decide di scoprire cosa sia la sofferenza, la vecchiaia, la morte, e abbandona il nido paterno. L’ “iniziazione” lo farà maturare,  gli permetterà di vincera Maya, l’illusione-ignoranza, e Kama, il “mostro” con le sue tre pericolose figlie: dopo anni di ascesi, Budda scopre la “via di mezzo” e redime (in un senso non cristiano) il mondo, raggiunge l’illuminazione sotto l’albero Pipal. L’apoteosi gli permetterà di essere l’Illuminato, il Signore del mondo. La vita di Gesù Cristo morfologicamente è molto simie a quella di Budda, con l’aggiunta del del golgota (la “morte” per eccellenza) e della riconciliazione con il padre, il padre che ESIGEVA un sacrificio.

 

Il paragone però si assume meglio con un mito pop cinematografico, e cioè Guerre Stellari. Luke vive una vita ordinaria, con gli zii, unumile contadino. Poi la chiamata al superamento della soglia: entra in scena C1 con il  suo videomessaggio. Il guardiano di Soglia è il vecchio jedi Kenobi, che pian piano guiderà inizialmente  il giovane sulle vie della forza, verso il suo destino, e cioè sconfiggere il mostro, l’impero, e il vero mostro freudiano, Darth Fener, il “padre”, con cui si riconcilierà.. In questo lungo, doloroso viaggio (vi è perfino la “caverna” nella quale Yoda, vero mentore di Luke, lo inizierà alla forza), vi si affiancano dei compagni di viaggio, come Leila (che svolge anche il ruolo di eroina e donna amata), Yan Solo e Chubecca.

 

A livello di una analisi sulla morfologia “genetica”, nella lontana base genetica di questi miti (d’oggi come di ieri) per Propp come per Campbell ci sarebbe il monomito rituale originario, e cioè l’ancestrale e onnipresente rito di iniziazione dei popoli “primitivi”: al sorgere della pubertà l’iniziato veniva lasciato nella “foresta”, dove avviene lo “smembramento” rituale da parte del “mostro” o degli officianti del rito di passaggio, come prova del passaggio dalla adolescenza a maturità. Il rito, che deve essere “doloroso” e angoscioso,  permette il ritorno dell’uomo al suo villaggio. Campbell però si spinge, anche diversamente da Levi-Strauss, sul considerare le strutture mentali alla base di tali costruzioni, ed avvicinandosi alle teorie di Jung sul considerare simili strutture mitopoietiche come “innate”.

Ma eroe pop è anche la Nazionale Italiana nel 2006, celebrata e deificata per le strade di Roma (dalla morte di calciopoli alla resurrezione della finale di Berlino) così come Silvio Berlusconi, che combatte il ”mostro” (Tartaglia, i comunisti, i traditori finiani, la stampa, i magistrati), che muore e risorge, che finalmente “scende in campo” dopo una vita “ordinaria” e “privata”, non al servizio dei cittadini. Berlusconi perseguitato, ma che continua a seguire il suo destino. Berlusconi che si è fatto dasolo, che con le sue forze, partendo da perfetto sconosciuto, dalla banalità e quotidinaità, è diventato l’uomo più potente d’Italia. Berlusconi e  i suoi profeti, i suoi fedeli oracoli, Baget Bozzo e Don Verzè. Studiare mitologia comparata però fa capire che non è l’eroe che fa interpetare questi eventi come ”mitologici”, ma sono questi eventi, massificati e ideolocizzati, direi “messi in archetipo”, a creare l’eroe. Creare dei prefissi, dei sur-, equivale a nient’altro che creare una metastoria ideale e modellarla su strutture ben note, strutture che la narrativa sfrutta dal giorno in cui l’uomo ha creato il primo mito intorno al primo fuoco.