Non citate più Pericle era un populista (Umberto Eco)

L’articolo, pubblicato su La Repubblica (14/01/2012) è un estratto del saggio di Umberto Eco “Figlio di una etera” dell’Almanacco del Bibliofilo, a cura di Mario Scognamiglio, che  s’ intitola “La subdola arte di falsificare la storia” (Edizioni Rovello)

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Si stava celebrando in piazza del Duomo, strapiena di festanti, la vittoria di Pisapia alle amministrative, si succedevano sul palco politici, cantautori, attori, artisti, e uno dei nostri comedians più bravi mi stava  dicendo che andava a leggere il discorso di Pericle agli ateniesi, come elogio della democrazia.  lo gli avevo detto: “Stai attento, perché Pericle era un figlio di puttana“. Lui aveva preso il mio giudizio come una boutade, aveva riso, ed era salito. Dopo, quando era disceso, mi aveva detto: “Sai, mentre leggevo mi accorgevo che avevi ragione“. Pericle era un figlio di buona donna o, come avrebbero detto ai suoi tempi, per esprimersi in modo più gentile, figlio di una etera. Non più di tanti altri politici e, tanto per dire, Machiavelli lo avrebbe ampiamente giustificato, per carità. Ma il suo discorso agli ateniesi è un classico esempio di malafede. All’inizio della prima guerra del Peloponneso, Pericle fa il discorso in lode dei primi caduti. Usare i caduti a fini di propaganda politica è sempre cosa sospetta, e infatti sembra evidente che a Peri de i caduti importavano solo come pretesto: quello che egli voleva elogiare era la sua forma di democrazia, che altro non era che populismo – e non dimentichiamo che uno dei suoi primi provvedimenti per ingraziarsi il popolo era stato di permettere ai poveri di andare gratis agli spettacoli teatrali. Non so se dava pane, ma certamente abbondava in circenses. Oggi diremo che si trattava di un populismo Mediaset.

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Gerarchia dei saperi, gerarchia delle arti e filosofia pop

Caravaggio, Morte della Vergine (1604). Con la sua estetica che ribaltava totalmente i canoni e le gerarchie dell'arte a lui contemporanea, Michelangelo Merisi può esser definito un artista-pop

“Onestamente non ricordiamo né quando né dove, ma ci sembra che qualcuno (forse fu soltanto una conversazione in autobus, dopotutto) abbia messo una volta in rilievo certe curiose corrispondenze tra la fantascienza e il jazz. L’intuizione, chiunque ne sia stato il padre, si va dimostrando col tempo sempre più sostenibile e meriterebbe oggi l’occhio dei più aggiornati antropologi culturali. Coincidono anzitutto i dati anagrafici. Luogo di nascita per entrambi: gli Stati Uniti d’America. Data: gli Anni Venti, coi blues raucamente cantati in sordidi locali e i pulp magazines stampati su infima cartaccia. Nei due casi, una partenza dal basso, con orizzonti espressivi assai limitati, per non dire rozzi; e tuttavia un’attraente carica di viscerale immediatezza.  Ma dietro l’apparente spontaneità e “ingenuità” del primo jazz ben sappiamo esserci tutta un’ascendenza nobile, filtrata dalle dorate sale di musica e da ballo d’Europa fino alle magioni aristocratiche delle colonie creole e di qui passata alle piantagioni di cotone e mescolatasi a primitivi ritmi e canti di lavoro. Allo stesso modo, la fantascienza degli esordi si presenta sotto forme a dir poco rudimentali ma non nasce certo dal nulla. Le sue stridule cornette e sue pianole plebee riciclano alla lontana e alla lontanissima, e spesso all’insaputa degli esecutori, i più illustri motivi della letteratura fantastica occidentale. Anche la “carriera sociale”, per così dire, di jazz e fs. segue percorsi paralleli. Genuina, candida passione di una minoranza. Scoperta da parte di sofisticati cercatori di novità. Curiosità crescente. Successo e lusinghieri inviti in casa Guermantes. Esagerazioni paradossali (“meglio Armstrong di Mozart!” “Preferisco Bradbury a Tolstoj”). E infine, passato il culmine della moda, un’accettazione condiscendente, una dignitosa sistemazione al terzo piano, scala C.   Perché lo status della coppia resta in definitiva equivoco. Non basta un concerto jazz al Metropolitan o una cattedra di fs. in un’università di provincia per farne due ospiti veramente di riguardo. Gli inquilini abusivi che recitano la parte dei padroni di casa si piccano di sapere che cosa sia l’arte e decideranno sempre che l’arte  però insomma via è un’altra cosa […]” (Carlo Fruttero e Franco Lucentini, nell’introduzione a “Il quarto libro della fantascienza”, Einaudi)

I soliti scontri fra “alto” e “basso”. Il Jazz: nato nei bassifondi della cultura alta e ufficiale, decenni dopo diventa Arte. Mi son sempre chiesto, ad esempio, perché la fantascienza sia considerata una letteratura di serie B. Nei libri di testo delle scuole italiane la  fantascienza non compare neanche come letteratura. Forse perché è  troppo scomoda, forse perché le sue origini sono umili, basse, come  uno scantinato nel quale si accatastano i libri vecchi… come ogni  lievito che si rispetti, il fungo cresce e diventa una muffa che attacca tutto ciò che è ”grande”. Ogni epoca ridefinisce ciò che è degno di essere studiato e ciò che è meno degno, ciò che è arte e ciò che non lo è, ciò che è sublime e ciò che non lo è. Ciò che merita una cattedra universitaria, ciò che non lo merita. Il tutto si determina in base ad un complesso gioco economico sociale molto arduo da analizzare, il cui studio negli ultimi anni ha avuto uno dei massimi fautori in Pierre Bourdieu.  In questo scontro  sono anche in gioco valori e classi sociali. La filosofia pop, ad esempio, ultimamente sta cercando di ricavarsi uno spazio in un mondo culturale ed accademico spesso poco propenso a “dequalificare” le proprie discipline ed a ristrutturare la propria gerarchia dei saperi.

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Il “capo”: alcune note su Garibaldi (L. Canfora)

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Ho dovuto combattere contro il più grande condottiero; mi è riuscito di mettere d’accordo imperatori, re, uno zar, un sultano ed un papa. Ma nessuno sulla faccia della terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo di italiano, emaciato, pallido, straccione, ma facondo come l’uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante, infaticabile come un innamorato: il suo nome è Giuseppe Mazzini (Metternich)

«Garibaldi era assolutamente privo di saggezza politica: non era né un maestro della letteratura italiana, come Mazzini, né un profondo statista come Cavour; ma come audace capitano di truppe irregolari, capace di ispirare nei suoi rozzi seguaci gli elementi di una fede politica semplice e appassionata, aveva in sé una omerica grandezza» ha scritto lo storico liberale inglese H. A. L. Fisher nel terzo volume della sua History of Europe (1935). Meno riduttivo un altro storico di ispirazione liberale, Benedetto Croce, il quale esalta più volte nei suoi scritti, di Garibaldi e di Mazzini, per lo meno il ruolo di modelli d’azione per le nazioni oppresse: «e ancora ai nostri giorni quei nomi – scrive nel 1928, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915- risuonano nella lontana India e quegli uomini hanno colà discepoli» . Durante la campagna che portò alla cacciata dei Borboni dal «Regno delle due Sicilie», Garibaldi assunse la dittatura (1860). Certamente egli pensava alla dittatura romana: magistratura che comportava i pieni poteri nelle mani di un’unica persona, ma per un limitato numero di mesi, eventualmente rinnovabile. Aveva alle spalle una lunga esperienza politicomilitare, dal Sud America alla Repubblica romana del 1849, in cui ugualmente aveva rivestito ruoli direttivi: anche se Mazzini, assurto per parte sua alla testa di un «triumvirato», gli aveva piazzato sul capo, come superiore, il generale Roselli, al quale Garibaldi disobbedì tutte le volte che gli parve di farlo. Ad un certo punto Garibaldi aveva proposto a Mazzini di dar vita piuttosto ad una guerriglia tra le montagne che non ad una ostinata, e militarmente perdente, difesa di Roma. Se però ci si ostinava ad optare per questa seconda strategia, chiedeva per sé la dittatura. Insomma la dittatura ritorna nei suoi pensieri come appetibile e necessaria forma del potere. Mazzini cercò di tamponare questa impennata e vi riuscì, ma poco dopo la Repubblica andava a rotoli.

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sulla Democrazia… #0

Aggiungiamo altro materiale al percorso sulla Democrazia, intesa come “forma di Governo delle cose e degli Esseri umani”, che abbiamo già toccato in altri articoli su questo spazio: La funzione democratica della Cultura nella Società di massa, Come ti governo le cose e gli Esseri umani e vecchio/nuovo Fascismo, una lettura….

Luciano Canfora sulla Democrazia.

Qui una riflessione sulle caratteristiche dell’attuale sistema di Governo “occidentale”, tratta dal libro di Luciano CanforaLa Democrazia. Storia di una ideologia”, Editori Laterza, Roma-Bari 2004 (stralci dal capitolo XV, “Il sistema misto”).

La funzione Democratica della Cultura nella Società di Massa

Per Democrazia si potrebbe intendere non tanto il potere (κράτος) del démos (δῆμος) in senso stretto, quanto la possibilità (e la capacità) di un gruppo sociale di “fabbricare” il soggetto/oggetto del proprio Governo. Se provassimo a leggere ogni esperienza “democratica” alla luce di questo nesso (dall’Atene periclea alle Democrazie liberali moderne, passando per i Regimi “totalitari” del Novecento), non è escluso che si potrebbe commentare in maniera diversa la Storia politica dell’Occidente. Si vedrebbe, forse, come il nesso principale del Governo “democratico” non stia solo nella conquista del Potere, ma si potrebbe trovare nella ricerca del consenso di massa. Dove c’è consenso, più o meno diffuso, c’è realmente Democrazia. Solo il leninismo si pose il problema della gestione del Potere con l’esperienza dei Soviet (tradotti in Italia con i “Consigli di Fabbrica” durante il biennio rosso). Anche questo tentativo, però, presto fu ricondotto ai “normali” processi democratici del consenso sviluppatesi in seno alla fondazione dello Stato stalinista (l’Economia di Guerra era funzionale a costruire un consenso politico). Con questo si potrebbe dire, più o meno provocatoriamente, che anche il Fascismo ebbe una propria caratteristica democratica perché, indubitabilmente, poteva contare su un consenso diffuso, derivato principalmente dalle criticità esplosive dello Stato liberale che non riusciva più a dare risposte effettive ad un disagio sociale sempre più ampio. Insomma, la Democrazia non sarebbe tanto il “potere al popolo”, come spesso si dice, quanto il “potere del popolo”. Per “potere del popolo” non s’intende la possibilità di guida “diretta” delle Istituzioni ma la capacità di legittimarne il Governo attraverso il consenso. La capacità di un gruppo, quindi, starebbe nel creare le condizioni politiche, sociali, culturali ed economiche per ottenere consenso e legittimazione.

La Cultura è una delle “camere oscure” in cui si condensa il soggetto/oggetto del Governo perché svolge, nella Società di massa, una funzione direttamente riconducibile alla creazione del consenso. Essa, in particolare, eserciterebbe quest’ufficio non solo in senso propagandistico, bensì ponendo le condizioni per l’unificazione “culturale” del δῆμος su cui esercitare il κράτος. Per porre in evidenza l’importanza “democratica” del consenso, ai fini del raggiungimento del Potere, si è scelto di riprendere la querelle tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, all’alba della Repubblica italiana, sul rapporto tra Politica e Cultura.

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