Jacques Derrida, Dello spirito. Una recensione di Kinglizard

Heidegger e Derrida

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Dello spirito è una sorta di monografia tematica che analizza e ricostruisce l’evoluzione dell’uso di un concetto, quello di spirito appunto, nella grandiosa opera di Martin Heidegger. Eppure, contemporaneamente, Dello spirito è anche un’opera di Jacques Derrida, un’opera cioè in cui sono evidenti sia l’impronta stilistica, mai priva essa stessa di significati suoi propri, del filosofo francese, sia il suo particolare modo di procedere nell’esposizione dei concetti. Se quindi da un lato si ha a che fare con una ricostruzione, non solo filosofica e concettuale ma anche filologica, che vuole essere il più vicina possibile all’esattezza storica, dall’altro lato, leggendo il testo, ci si imbatte in scelte peculiari nel modo di affrontare il tema centrale, scelte che, come accade spesso nei testi derridiani, sembrano non abbordare mai direttamente l’oggetto di cui si vuole parlare e che, quasi accostandosi ad esso obliquamente, seguendo sentieri secondari, apparentemente marginali, non ancora battuti, ne fanno emergere quel surplus di senso che soltanto i grandi interpreti sanno produrre.

Derrida parte da una constatazione quasi paradossale che diviene perciò una sfida da superare: l’affermazione propria della critica filosofica accademica che vuole un Heidegger capace di evitare, in tedesco vermeiden (Derrida sottolinea più volte l’importanza enigmatica di tale vocabolo), il concetto di spirito nell’intera sua opera nonostante essa sia pervasa da tale concetto in ogni sua parola. Ebbene, la critica si sbaglia; Heidegger non solo pensa lo spirito, ma, in alcuni punti del suo percorso di pensiero, lo nomina apertamente. Bisognerà allora chiarire il motivo di questo sbaglio, del perché cioè la critica non riconosce che il concetto di spirito appartiene, anche nella materialità esplicita della parola scritta, all’opera heideggeriana. Per fare questo si dovrà tornare ai testi heideggeriani, interrogarli chiedendosi che cos’è lo spirito per Heidegger. Ecco il programma derridiano: “gli enunciati heideggeriani, quando si riferiscono allo spirito, hanno raramente la forma di una definizione d’essenza. Raramente, cioè eccezionalmente; e noi ci occuperemo di queste eccezioni, d’altronde molto differenti, e addirittura in opposizione tra loro.” [p. 24] Tre sono i momenti differenti in cui Heidegger affronta la tematica dello spirito, analizzando i quali e mettendoli in relazione tra loro si può scorgere una qualche evoluzione del pensiero heideggeriano; evoluzione che, tuttavia, non può essere intesa come semplice progresso, ma che piuttosto, molto più enigmaticamente, evidenzia una sorta di approfondimento trasversale di un unico modo di pensare, e di domandare, che rimane essenzialmente coerente in tutto il suo percorso. Questi tre momenti eccezionali, espressioni diverse di un unico progetto filosofico, rappresentano l’occasione per Derrida di percorrere l’intera opera di Heidegger e far così emergere un pensiero nuovo e affascinante, rigoroso come ogni filosofia deve essere, ma anche inquinato nella purezza verso cui tende sia da accadimenti che riguardano la vita professionale e le scelte personali, come l’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo, sia da evasioni verso territori molto meno rigorosi, e comunque polisemici per natura, come l’arte e soprattutto la poesia.

La prima tappa, la quale segnerà tutto il resto del progetto heideggeriano tracciando i contorni di una coerente domanda di senso che indirizzerà le altre opere, è naturalmente Sein und Zeit, il capolavoro del 1926/1927. Qui Heidegger, se usa la parola spirito, Geist, lo fa servendosi delle virgolette per indicare che il concetto a cui lui si riferisce è il concetto opportunamente decostruito, dunque purificato dalla metafisica cartesiano-hegeliana. Il “Geist” di Heidegger non è né l’immateriale della tradizione metafisica, ma non può essere neppure il suo contrario, cioè la cosa materiale. La metafisica sbaglia quando pensa per categorie dualistiche; sbaglia quando, per designare lo spirito, la coscienza, l’anima, il soggetto, la ragione, ne determina l’essenza semplicemente pensandola in contrapposizione alla materia. Per di più, la stessa materia non sarebbe ancora stata pensata nella sua essenza, cioè definendo cosa essa sia dal punto di vista ontologico. Bisogna infatti chiarire ontologicamente cosa si intende per cosa, e quindi anche per sostanza, per evitare di far rimanere problematica l’essenza di ciò che cosa non è, e cioè, per l’appunto, l’essere non cosificato, il soggetto, la coscienza, lo spirito. Per Heidegger né Cartesio né Husserl sono riusciti ad afferrare ontologicamente cos’è l’essere della cosa. A maggior ragione essi non sarebbero stati in grado di afferrare l’essenza dei concetti da non cosificare. È solo con l’analitica esistenziale di Sein und Zeit che viene posta la questione ontologica del sum che Cartesio avrebbe lasciato non indagata. È qui che Heidegger mostra che il Dasein non è puramente immateriale, non è cioè il contrario della cosa; liberato dal dualismo metafisico, il Dasein comporta sempre un certo essere-nel-mondo, legato costantemente com’è ad una certa spazialità e ad una certa temporalità. Ma cos’è che apre al Dasein il suo essere-nel-mondo?

Risposta: la “spiritualità” propria del Dasein stesso. Ecco che lo “spirito” è introdotto per rendere conto del superamento tra sensibile e intelligibile, tra materialità e immaterialità. Se quindi, proprio per l’enigmaticità di tutti i concetti inscritti nel dualismo sensibile/intelligibile, Heidegger afferma di non voler usare, di voler evitare (vermeiden) il concetto di spirito, e con esso tutti gli altri ad esso vicini, nell’affrontare il tema centrale del Daseinla parola “spirito” ritorna; non è più rifiutata, evitata, ma utilizzata nel suo senso decostruito per designare qualcosa che le assomiglia e di cui essa è il fantasma metafisico, spirito di un altro spirito.” [p. 34] Eppure, “qualche anno più tardi, quando i riferimenti allo spirito non saranno più oggetto della Destruktion e dell’analitica del Dasein, quando insomma le parole Geist e geistig non saranno più evitate, ma piuttosto celebrate, lo spirito stesso sarà definito a partire dalla manifestazione e dalla forza del domandare. Dello stesso domandare in nome del quale, in Sein und Zeit, si evitano quelle parole.” [p. 28]

Heidegger (poco sopra il segno "X") con i suoi colleghi accademici in un meeting nazista, 11 novembre 1933

Siamo così alla seconda tappa del percorso indicatoci da Derrida; tappa che si materializza nel discorso del 1933 per la nomina di Heidegger a rettore denominato L’autoaffermazione dell’università tedesca. Qui, come poi anche nell’Introduzione alla metafisica, la parola Geist non solo compare senza le virgolette, ma viene anche celebrata, esaltata, sia attraverso uno stile autoritario e dirompente, sia per mezzo di contenuti che, oltre a sottolineare il carattere dell’incarico di rettore stesso come giuda spirituale, arrivano a celebrare il popolo tedesco e la sua organizzazione nello Stato nazista. Ecco un estratto dell’Autoaffermazione: “Il mondo spirituale di un popolo non è la sovrastruttura di una cultura, tanto meno l’arsenale in cui vengono di volta in volta conservati conoscenza e valori, che vi entrino ed escano continuamente, ma è la potenza che scaturisce dalla più profonda conservazione delle sue forze fatte di terra e sangue, potenza che provoca la più intima commozione e il più ampio sommovimento del suo esserci. Solo un mondo spirituale è per un popolo garanzia di grandezza. Infatti lo costringe a far sì che la costante decisione fra volontà di grandezza e tentazione di decadenza divenga la legge che regola il passo nella marcia che il nostro popolo ha iniziato verso la storia futura.” [p. 45]

Derrida sottolinea che tale esaltazione dello spirituale di quella situazione storica, pur segnando la continuità con Sein und Zeit e con il suo concetto di spirito purificato dalle accezioni proprie della soggettività metafisica nella sua forma psichica o egologica, non riesce ad evitare il gesto metafisico stesso: infatti, esaltando lo spirituale di quella situazione storica, Heidegger non può non sostanzializzare, appunto, lo spirito. Il grande gesto di Heidegger indicato in Sein und Zeit che spronava a pensare in modo nuovo e autentico, al di fuori e prima dei dualismi metafisici, rimane qui incompiuto, non seguito: “Il risveglio dello spirito e la riappropriazione della sua potenza sembrano possibili dunque, ancora una volta, grazie alla prassi responsabile del domandare essenziale – prassi affidata, assegnata e destinata al “nostro popolo”.” [p. 75] “Nostro popolo” il quale possiede il privilegio di una lingua, quella tedesca, così affine al greco, così predisposta cioè per il vero pensiero. È per questo che Heidegger all’interno dell’Introduzione alla metafisica auspica per il suo popolo un’esistenza storicamente spirituale. Vent’anni più tardi si assisterà ad un ulteriore passo in avanti in vista dell’esaltazione della germanicità attraverso l’affermazione che neppure il greco ha parole per dire il Geist: esso non può essere tradotto da “pneuma”, parola che indica il soffio spirituale e che non riesce a esprimere ciò che il Geist primariamente è, ovvero fuoco, fiamma. “Ecco dunque che tra il greco e il tedesco – le due lingue gemelle accomunate dalla massima ricchezza spirituale – solo quest’ultimo riesce a nominare ciò che per eccellenza le accomuna, e cioè lo spirito. E nominare vuol dire dar-da-pensare.” [p. 79]

Ma questo accade venti anni più tardi, nel 1953; anno che porta alla terza tappa individuata da Derrida, e che più o meno coincide con i lavori heideggeriani su Holderlin, su Shelling, e soprattutto su Trakl. È in questi lavori di analisi e interpretazione che Heidegger nota come lo spirito, meglio il Geist, sia prima di tutto fiamma; connotazione questa che permette l’affermazione secondo cui il tedesco riesce a discostarsi dall’onto-teologia greco-cristiana: solo il tedesco pensa lo spirito nel modo più originario possibile. Lo spirito è fiamma; una fiamma che infiamma e che si infiamma. Heidegger, nota Derrida,  non ritiene opportuno decostruire questo senso di Geist di cui parla Trakl. Infatti l’opera del poeta già di per sé ci costringe a pensare fuori e prima della metafisica, originarietà questa che quindi rappresenta anche una liberazione. Le parole del poeta, polivalenti per essenza, sono talmente univoche dal punto di vista del rigore con cui è usata la lingua da essere infinitamente superiori ad ogni esattezza tecnica e alla sua univocità semplicemente scientifica. È per questo che “il proposito di Heidegger, alla fin fine, è il seguente: mostrare che il mattino e la notte di questa spiritualità sono, nel Gedicht di Trakl così inteso, più originari del sorgere e del tramontare del sole, dell’Oriente e dell’Occidente, dell’origine e della decadenza di cui parla il “senso comune” metafisico-cristiano. Il mattino e la notte “di Trakl” sarebbero più originari di ogni storia onto-teologica, di ogni storia e di ogni spiritualità concepite in un mondo metafisico-platonico o cristiano.” [p. 95/96] Si chiede allora Derrida quale sia il significato di questo “supplemento d’originarietà”, se esso possa in qualche modo essere determinato.

La risposta è che questa “archi-origine” è la custode dell’essenza originaria del tempo, problematica che Heidegger già ai tempi di Sein und Zeit considerava come la più essenziale per poter in qualche modo cominciare a pensare la verità dell’essere. Infatti “il tempo costituisce l’orizzonte trascendentale dell’analitica esistenziale, della questione del senso dell’essere e di ogni questione che, in tale contesto, vi si riferisca.” [p. 37] Perciò pensare l’essenza originaria del tempo è l’unico modo per discostarsi dal senso comune che non riesce a pensare che l’ente, dimenticandosi così del problema dell’essere. Tale essenza originaria è descritta da Heidegger come una fine che precede l’inizio, come la morte che precede la vita, un Occidente che precede l’Oriente, tutte relazioni che sono definite da Trakl geistlich, spirituali, e che, per questo, sono “cariche di nuove promesse”. Tutto il discorso di questa terza parte del pensiero heideggeriano, di cui Derrida si fa interprete, gira intorno a questa promessa spirituale e autentica; una promessa che è l’avvento stesso della parola, del linguaggio, e quindi anche del domandare che quest’ultimo rende possibile pur senza appartenergli: “promettendo meglio, commisurandosi a ciò che, nel modo più essenziale, è promessa nella migliore promessa, il Versprechender annuncia dunque l’antivigilia: ciò che ha già avuto luogo, in qualche modo, addirittura prima di ciò che noi chiamiamo, nella nostra Europa, l’origine o la prima era della primavera.” [p. 100] Questo è il percorso indicatoci da Derrida. Servendosi del concetto di spirito opportunamente decostruito, fa notare il filosofo francese, Heidegger vuole pensare quell’ “a partire da cui” tutto è possibile; “a partire da cui” che non è affatto un nuovo contenuto, ma che si riferisce piuttosto a ciò che rende possibile l’accesso alle possibilità delle metafisiche e delle religioni pneumato-spiritualistiche.

Rispondendo alla domanda sopra enunciata, riguardante cioè il perché la critica accademica non riconosce lo spirito come un concetto di Heidegger, Derrida mostra che questo perché è sì frutto di una lettura corretta dell’opera heideggeriana, dato che per Heidegger lo spirito è qualcosa di essenzialmente diverso dallo spirito della metafisica occidentale. Tuttavia, concludere che lo spirito non è concetto di Heidegger è errato, e per due principali ragioni: infatti, pur riferendosi a qualcosa di diverso, Heidegger può pensare il “suo” spirito soltanto a partire da quello della metafisica, dal quale non riesce del tutto a liberarsi, e questo a causa di quei limiti del linguaggio (logico-metafisico) che pensa e rappresenta per opposizioni; inoltre, e soprattutto, lo spirito, il Geist, è presente nei testi heideggeriani nella materialità esplicita della parola scritta, traccia indelebile che non solo impone di pensare il suo proprio contenuto, seppur accuratamente decostruito, ma anche diffonde nell’intera trama dei concetti il suo senso proprio, contribuendo a definire un pensiero carico esso stesso di spiritualità.

Leggendo Dello spirito assistiamo a un Derrida che si fa analista e interprete dell’opera di uno dei suoi grandi maestri (e come potrebbe non esserlo!). Leggendo Dello spirito, però, non si percepisce alcuna sudditanza dell’allievo, né sotto forma di esaltazione, né tanto meno sotto forma di passività. Ogni testo di Derrida è sempre un testo eclettico e ironico, eclettico nello stile, ironico nei contenuti, per quanto le due cose si mescolino senza possibilità di sapere dove finisca il primo e dove comincino i secondi. Questo testo non fa eccezione. E, tanto l’applicazione dello stile derridiano alle opere di Heidegger, quanto le modalità contenutistiche – scelta delle tematiche, articolazione dei concetti, approfondimento delle implicazioni – con cui è trattato (nei due sensi del termine) il pensiero in esse contenuto, rendono un’opera intrigante, fatta di movimenti concettuali imprevisti e comunque sempre stimolanti; un’opera, come del resto molte altre di Derrida, di cui sarebbe interessante “cartografare” i percorsi di senso che mette in atto, percorrendoli.

kinglizard01@gmail.com

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