Filosofia del fanatismo. Amos Oz, la coerenza, la follia, la strage di Utoya

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Si chiama Anders Behring Breivik, ha 32 anni, ed è l’autore del massacro della Norvegia. Non è un ceceno, un palestinese, un kamikaze, un seguace di Maometto. E’ alto e biondo, si professa conservatore e cristiano. Soprattutto: non è un pazzo. E’ certo ossessionato dall’idea che l’Islam conquisti la debole e inetta vecchia Europa con le sue patetiche e arrendevoli forme di multiculturalismo e di “politicamente-corretto”. Ma non è un pazzo. Ho anche visionato il suo video-manifesto su youtube. Niente di diverso da altri manifesti al confine fra la sindrome di accerchiamento e di complotto, l’antimarxismo e l’antislamismo di estrema destra (antislamismo che tende spesso a diventare antisemitismo). Ma Andres ha fatto un evidente salto di qualità nel superamento dell’idea nella realtà. Da un punto di vista formale, è un Magdi Allam “estremista”, che ha perso il contatto con la realtà ma che è diventato estremamente coerente con il “principio”: il principio primo è che i laburisti norvegesi, la sinistra o che altro stanno rendendo la Norvegia e l’Europa un territorio di conquista delle orde islamiche. Il secondo, è che la politica partica è un mezzo vecchio e inutile: per svegliare le masse norvegesi dai loro buonismi occorre il terrore. Per qualcuno, per qualche gruppo fanatico dell’estrema destra nordica (e non solo), Anders potrebbe presto diventare un eroe. Nel suo diario, all’idea del massacro, programmato in due interi anni, scrive: “Fallimenti logistici: devo ripensare la questione del silenziatore, l’importatore che avevo contattato ha cancellato tutti gli ordini privati. Non vorrei surriscaldare l’arma, forse devo pensare ad una baionetta. ‘Marxisti infilzati’ diventerebbe un marchio”.

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Les maitres fous (documentario). Le nuove religioni in contesto coloniale e neocoloniale

Come direbbe Michel Leiris: “Due culture sembrano fondersi in un affascinante, ambiguo abbraccio, soltanto perchè l’una possa infliggere all’altra una più evidente negazione” (Frele bruit). “I maestri folli” (Les maitres fous) è un documentario girato in Ghana nel 1955 dal regista francese Jean Rouch, qui sottotitolato dal nostro sito “filosofiprecari”. Mostra le pratiche rituali di una setta religiosa nata negli anni del dominio coloniale. Nell’appezzamento del loro gran sacerdote, dopo una confessione pubblica dei peccati, gli adepti iniziano il rito della possessione. Convulsioni, tremiti, respiro affannoso: comincia l’imitazione della struttura sociale dei bianchi. Stati di parossismo psicologico che ricordano rituali endorcistici ed esorcistici di molte religioni e culture del mondo… sono i segni dell’arrivo degli “spiriti della forza”, spiriti che hanno i nomi dei dominatori bianchi: il “caporale di guardia”, il “governatore”, il “dottore”, il “conducente di locomotiva”… Il culmine della cerimonia si ha con il sacrificio di un cane che sarà poi mangiato dai “posseduti”. Il giorno dopo, gli iniziati tornano alle loro occupazioni quotidiane.

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Dal Ciclo al Kairos. La Storia si rinnova… Prolegomeni per una ricerca sui Commons

Osservazioni a margine della lettura di Toni Negri sull’autostrada, ovvero: tirannia del tempo e momento utopico, da Wu Ming.

Stiamo evidentemente attraversando una fase “mutante”, nel senso che il presente sta subendo delle mutazioni che lo renderanno sicuramente “altro”. Questa fase di trasformazione sembra non essere un banale momento di crisi, intesa come distruzione del presente per anticipare il futuro catastrofico. Sembra di essere immersi in un kairòs (καιρός) costituente. Un evento che si traduce sulla Terra innanzitutto tramite una nuova epoca di enclosures, di privatizzazioni dell’immaginario collettivo, dello spazio politico e dello spazio sociale.
Nella tradizione marxista , a cui qui possiamo solamente fare cenno, la crisi era comunemente intesa come un elemento proprio dello sviluppo del ciclo capitalistico, come il progetto politico che andava a riqualificare il rapporto tra Capitale e Lavoro aprendo nuove possibilità di profitto ed accumulazione. Provocava quasi una attualizzazione del futuro, una sua presentificazione, per evitare la catastrofe annunciata ed abbondantemente analizzata. La caratteristica peculiare della relazione tra Capitale e Lavoro, la sua metafora economica e politica, sarebbe proprio quella del ciclo, che andrebbe periodizzandosi per innovarsi nei momenti di crisi. La forma che assume lo sviluppo, il progresso tecnico-scientifico-economico, sarebbe, quindi, il conflitto tra l’esistenza del movimento operaio dentro il piano capitalistico e la contraddittoria necessità del Capitale di associarsi ed organizzarsi per reprimere o canalizzare questa presenza. La crisi, quindi, intesa come parte integrante del ciclo, è il momento dell’andare oltre, dell’etica del sacrificio. Ma il ciclo è sempre un ciclo storico, una successione ordinata di avvenimenti. È storia. Nella tradizione classica, scrive Antonio Negri, “il tempo è l’immagine mobile dell’immobilità dell’essere. In questa tradizione il tempo è dunque una modalità estrinseca: esso si presenta come illusione o come misura, mai come evento, mai come il questo qui”.

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Pierre Bourdieu: la distinzione. Per una decostruzione sociale e psicologica del gusto e degli intellettuali

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Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per “la gente comune” e le “sane opinioni del popolo”, come pure della volontà, da tale sollecitudine inseparabile, di cercare sempre la “ragione degli effetti”, la ragion d’essere delle condotte umane in apparenza più gratuite e ridicole – come “correr tutto il giorno dietro una lepre” – invece di indignarsi o di prendere gioco, a guisa dei “mezzo addottrinati”, sempre pronti a “fare i filosofi” e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune. (Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane)

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Religione, male e sofferenza. Mircea Eliade e il mito dell’eterno ritorno. Una recensione critica.

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Tutta la giusta ambizione umana è riassunta nel verbo “comprendere”. Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”. Primo Levi, dopo aver studiato sociologia nel laboratorio “umano” di Auschwitz, direbbe che senza una profonda semplificazione della realtà, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema. Tendiamo a semplificare ogni cosa, a farcela amica.
Ogni riduzione è scienza, e ogni scienza è drasticamente semplice, quindi più o meno “irreale”. Questo vale anche per il fenomeno religioso. La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o almeno, non sono semplici come piacerebbe a noi. Ogni chiave interpretativa sulla religione merita un determinato spazio nell’analisi. Ma bisogna affiancare l’una all’altra chiave interpretativa. Tutte insieme, non una sola. Dunque, il fenomeno religioso reggerà anche alla seguente semplificazione, anzi, ne varrà arricchito. Fenomeno religioso ridotto, da Eliade, a “Cercare un senso al caos della storia” = Richiesta di senso alla sofferenza. Il fenomeno religioso, nella sua interezza, nelle sue innumerevoli espressioni planetarie, può essere ridotto alla ricerca di senso, ad un semplice quanto angoscioso tentativo di “normalizzare la sofferenza“, “sopportare la storia” (cfr. anche le conclusioni, simili a quelle di Eliade, di De Martino ne “La fine del mondo”).

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Il volto femminile della filosofia. Una recensione

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Il “Volto femminile della filosofia” vuole essere più di un libro, saggio o ricerca filosofica: è anzitutto un esame attento delle vite dei grandi pensatori del passato, uno sguardo curioso sulle loro dinamiche familiari, sulle condivisioni affettive ed esperenziali, per carpirne, come e quanto, queste ne abbiano influenzato pensiero e produzione. È un excursus biografico e bibliografico, che vede le donne compagne di viaggio, autrici nascoste di gesti, parole, azioni, che hanno condizionato, qualche volta indirizzato o addirittura educato il pensiero maschile. Eroine silenti di gesta quotidiane: mogli, madri, figlie, sorelle che, a modo loro, spesso come sagge consigliere, alle volte come presenze ingombranti, hanno contribuito a rendere grandi i filosofi.

Socrate, Seneca, Agostino, Immanuel Kant, Sigmund Freud per esempio abbiamo scoperto aver ricevuto ottimi esempi di vita rispettivamente da Fenarete, Elvia, Monica, Anna Regina e Amalie. sono nomi di donne comuni che la storia non ricorda perché non hanno scritto nulla, né tantomeno compiuto niente di eclatante, eppure il loro insegnamento, la loro esemplarità di vita, il loro carattere e pensiero hanno forgiato spiriti attenti, menti geniali e uomini di spessore. E il loro ruolo, non solo di genitrici ma anche di consigliere, viene riconosciuto pubblicamente da molti dei figli. Dirà per esempio Sant’Agostino ne Le Confessioni di Monica: “ci amò come se di tutti fosse stata la madre e ci servì come se di tutti fosse stata la figlia”, e Antonio Gramsci scrive alla madre “tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato tutte le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli” e ancora Giovanni Gentile dirà della genitrice: “la sua voce ancora e sempre dentro mi suona”.

 Da figli a padri, perché i pensatori hanno avuto vere e proprie lezioni di vita dalle stesse figlie, così per esempio Galileo Galilei, che nel periodo del processo e poi dell’abiura, veniva premurosamente sostenuto dalla figlia suor Maria Celeste, che così scriveva al padre: “considerando io (…) la giustizia della causa e la sua innocenza in questo particolare momento, mi consolo e piglio speranza di felice e prospero successo, con l’aiuto di Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai d’esclamare, e raccomandarla con tutto quell’affetto e confidenza possibile. Resta solo ch’Ella stia di buon animo, procurando di non pregiudicare alla santità con il soverchiamente affliggersi, rivolgendo il pensiero e la speranza sua in Dio, il quale, come padre amorevolissimo, non mai abbandona chi in Lui confida e a Lui ricorre”. Altre figlie come Jenny Marx e Anna Freud, calcheranno in tutto per tutto le orme dei loro illustri padri, divenendo attente discepole di un pensiero a cui daranno col tempo il loro contributo femminile.

Un posto nella storia dei filosofi è riservato anche alle sorelle: anime consanguinee, presenze attente alle volte anche fastidiose. Donne che si ritrovano a condividere parte della loro esistenza con uomini insicuri, fragili e desiderosi di consigli (sarà così per esempio per Blaise Pascal nei confronti della sorella Jacqueline), o riottosi, iracondi ed ermetici nelle riflessioni, spesso infastiditi da suggerimenti femminili non richiesti (è notoria a tal proposito l’insofferenza nutrita da Friedrich Nietzsche per la sorella Elisabeth).

E infine ci sono le donne amate, compagne di vita, in grado di lasciare nell’animo del filosofo pensieri malinconici tali da diventare stralci di poesie, così per esempio scriveva di Emilie, Voltaire “Non ho perso un’amante, ho perso la metà di me stesso”, mentre arrabatandosi nel suo dolore Kierkegaard affermava di Regina Olsen “La legge di tutta la mia vita è che lei ritorna in tutti i punti decisivi”; mentre Beccaria scriveva alla moglie Teresa sono in mezzo alle adorazioni, agli encomi, i più lusinghieri, considerato come compagno e collega dei più grandi uomini dell’Europa, guardato con ammirazione e con curiosità […] e pure io sono infelice e malcontento perché lontano da te”. Quando vicine le donne amate diventano invece preziose alleate, stelle polari, punti di riferimento nel cammino esistenziale, amiche che ascoltano e guidano, muse ispiratrici. Uno per tutti Karl Popper disse di Josephine Anna Henninger: “Senza di lei (…) molto di ciò che ho fatto non sarebbe mai stato realizzato“.

Nell’opera di Miriam Rocca, dunque, uomini straordinari di ieri e di oggi sono sempre affiancati da donne: donne che vivono nell’ombra, donne ispiratrici, donne impavide, fredde o generose, perché, come affermava Maritain: “… l’essere umano non è compiuto se non nell’uomo e nella donna presi insieme“.

L’altra India (Amartya Sen), una recensione. Le origini della filosofia, il laicismo e lo stato laico

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Amartya Sen, nel suo interessante studio intitolato “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radice della cultura indiana”, intraprende un filone di studi assai poco battutto qui in Europa, o magari, di scarsa visibilità. Nella citazione riportata in questo articolo, parla del sovrano indiano musulmano Akbar – fine del XVI secolo -, e cioè nel felice tempo in cui noi Europei ci scannavamo per questioni importantissime, tipo le religioni (ma la vera posta in gioco era ben altra), e mentre bruciavamo Giordano Bruno a Campo de Fiori. Ciò che riporto del nobel bengalese è anche utile a smitizzare la tutta da dimostrare e arcinota equazione “radici cristiane = stato laico”, quell’equazione che vede solo nelle radici giudaico/cristiane la possibilità dell’instaurarsi di uno Stato inteso in senso moderno (tesi, peraltro, già smentita, tra gli altri, da Federico Chabod, in tempi non sospetti). Nella sua semplicità stilistica ma anche nella sua competenza, l’autore offre, anche per non specialisti, una visione chiara e demitizzata, direi, non esotica, dell’India, della sua cultura e storia, dei suoi innumerevoli problemi.

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Filone di Alessandria, il primo ponte fra ebraismo ed occidente. La filosofia e Vittorio Arrigoni

L’immagine di un ellenismo omogeneo fornita da Droysen (il creatore del termine “ellenismo”), come insegna bene la recente storiografia, è tutta da smitizzare. Già Hans Jonas faceva notare, nel suo famoso studio sullo gnosticismo, quanto questa antica “globalizzazione” provocata dalle conquiste di Alessandro il Grande fosse ostacolata dai particolarismi locali, e al suo interno generasse la così detta “reazione orientale”, che si opponeva alla diffusione della filosofia, dello stile di vita, della lingua greca, di quel modello che in oriente si percepiva come “occidentale”. Fondamentale in questa linea di approfondimento delle reali dinamiche del periodo ellenistico è il testo di Arnaldo Momigliano (Alien Wisdom. The limits of Hellenization) che esemplifica in maniera compiuta l’incontro fra ellenismo e culture che orbitavano intorno il mediterraneo: rispettivamente Celti, Giudei, Romani, Iranici. All’interno di questa analisi è importante sottolineare, alla luce del mio discorso, la particolarissima ed unica, per certi versi, “reazione” ebraica all’incontro con l’ellenismo, con questa “perturbazione” filosofica-culturale (e non scordiamoci, militare) proveniente dal semisconosciuto occidente.

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Per una genealogia dell’Eroe!

“Fino a che punto siete pronti ad aiutare il vostro prossimo?”

Sulla genealogia dell’Eroe è stato scritto molto. Un contributo importante, se non fondamentale, a questo argomento viene dal Collettivo Action30, ma si potrebbe citare anche (ancora) L’Eroe imperfetto di Wu Ming 4. Dal modello del Supereroe “classico”, tutto muscoli e superiorità “biologica”, si è passati decisamente ad altro. La mitologia è in continuo divenire. Non sono più necessari superpoteri particolari, esposizioni a qualche sostanza oltre la Natura terrestre oppure essere nati in una diversa dimensione dello Spazio. La “normalità” degli Esseri umani sembra essere diventata la caratteristica distintiva del nuovo modello di Eroe, propagandato in pompa magna tanto dalla fumettistica quanto dalla cinematografia. E’ sempre una normalità che riesce ad andare molto “oltre” la normalità, ma le capacità sono “umane, troppo umane“. Fin troppo umane, perchè spesso sembra bastare la volontà ed una buona dose di inconsapevolezza del pericolo. Ironico come, da Friedrich Nietzsche, in questo caso, si possano prendere alcuni elementi “cardine” della Filosofia: la Volontà di Potenza, l’Über-Mensch (l’oltreuomo) e, appunto, l’Umano troppo Umano. Un treno concettuale che dal passato ci riporta al presente. Il dubbio è che, in questa frantumazione-diffusione dell’eroismo, si vada verso una moltiplicazione, anche abbastanza fascistoide, di presunti “guardiani” dell’ordine e della disciplina, perchè la violenza diventa parte integrante di questa rappresentazione. Facile pensare alle “Ronde” metropolitane che spesso si producono per reazione a qualche “bassa” ingiustizia.

L’ultimo film che segna questa evoluzione della figura dell’Eroe (ed anche del modo in cui l’Eroe viene percepito dalla sua Comunità) è Kick-Ass. Una divertente parodia del processo di “eroificazione” che mostra come, nei fatti, sia stata ormai abbandonata la pomposa retorica del Superuomo, capace di cambiare i destini del Mondo, costruita ad hoc negli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta (insomma, in piena Guerra Fredda).

Reality show e filosofia

L’esperimento di Stanley Milgram : condotto nel 1961, aveva l’obiettivo di studiare il comportamento di soggetti a cui un’autorità (nel caso specifico uno scienziato) ordina di eseguire delle azioni che confliggono con i valori etici e morali dei soggetti stessi. L’esperimento cominciò tre mesi dopo l’inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Più di quaranta anni dopo, le cose cambiano. A svolgere il ruolo dell’autorità è il reality show, una conduttrice, le telecamere, il pubblico. Ad infliggere le scosse elettriche sulla vittima sono i partecipanti del reality. Sto parlando dell’esperimento sociologico condotto in Francia e spacciato per reality show, chiamato “La zona estrema”. In sintesi: 80 persone sono state selezionate per partecipare al nuovo reality. Ogni concorrente in studio e’ in squadra con un altro giocatore, che si trova invece isolato in una sala. A quest’ultimo viene chiesto di memorizzare alcune associazioni di parole, sulle quali gli vengono poi poste delle domande. Se sbaglia, il concorrente in studio lo deve punire, procurandogli scariche elettriche fino ad oltre 400 volt. In realta’ e’ tutta una messa in scena. Le scariche elettriche sono finte. Il giocatore che strilla dal dolore e’ un attore e cosi’ anche il pubblico e la presentatrice (Tania Young), che per tutto il tempo incitano i concorrenti alla tortura. Gli 80 partecipanti ignari si ritrovano cosi’ protagonisti involontari di un esperimento shock: solo pochissimi loro rifiutano di infliggere la pena, gli altri obbediscono senza ribellarsi.

Piccole considereazioni: nel reality, praticamente vi erano 80 conconcorrenti chiamati a torturare ripetutamente un concorrente, e che rinunciavano (o mettevano in sordina) il loro apparato decisionale per delegarlo all’autorità, i media. Rispetto all’esperimento di Millgram, l’autorità che impartiva “ordini” non era un medico con il camice bianco, ma il pubblico, la presentatrice, le telecamere, il “copione televisivo”. Considerando che si passa mediamente davanti alla TV il 50 % della vita, mi chiedo quanto i valori e le decisioni dei “sudditi” dei media siano autonomi. Dice il filosofo: nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo.

Attualità e composizione del Comune, considerazioni sparse sul Lumpen

da Action30 (del 3 Febbraio 2009, una Vita fa… per stimolare oggi un dibattito)

Si potrebbe dire che quasi tutte le rivoluzioni, tutte le trasformazioni sociali culturali e politiche, siano state condotte “materialmente” dal LUMPEN (la violenza è affare di pochi). Permettetemi un flash. Pensiamo alla rivoluzione luterana, ad esempio, che di fatto ha creato la Germania (nello specifico la Prussia) più_o_meno come noi la conosciamo (liberandola dall’oppressione della Chiesa “romana”). È stato il LUMPEN che, ad un certo punto della diatriba Lutero-papato, ha sviluppato tutta la violenza che poi è stata canalizzata ed utilizzata dai principi prussiani. Rimanendo al XIX secolo (solo per non ampliare eccessivamente il campo delle osservazioni), mi permetto di riprendere brevemente il 18° brumaio di Luigi Bonaparte, dove Marx affronta la questione del LUMPENPROLETARIAT (tradotto in italiano come sottoproletariato, probabilmente modificandone anche il senso).
Due cose, innanzitutto:
Uno; Marx individua un LUMPENPROLETARIAT “nobile” ed uno “plebeo”. Ovvero per Marx l’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno come nei suoi piaceri, non è altro che la riproduzione dei sottoproletariato alla sommità della società borghese (riferimento da Lotte di Classe in Francia). Quindi partiamo dal presupposto che il LUMPENPROLETARIAT non è definito semplicemente dalla qualità o dalla quantità del reddito. E, chiaramente, non si vuole confondere neanche con la LUMPENBOURGEOISIE (come l’ha definita qualcuno in relazione all’America latina).
Due; (riporto dal 18° brumaio di Luigi Bonaparte) “[…] col pretesto di fondare un’associazione di beneficenza il sottoproletariato di Parigi era stato organizzato in sezioni segrete; ogni sezione era diretta da agenti bonapartisti; alla testa della Società vi era un generale bonapartista. Accanto a roués in dissento, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti, feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème. Con questi elementi a lui affini, Bonaparte aveva costituito il nucleo della Società del 10 dicembre. “Società di beneficenza”, in quanto i suoi membri, al pari di Bonaparte, sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle spalle della nazione lavoratrice. Questo Bonaparte, che si erige a capo del sottoproletariato; che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui egli può appoggiare senza riserve, è il vero Bonaparte, il Bonaparte sans phrase“.

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Dai commons al comunismo, dal comunismo ai commons

Riportiamo di seguito la traduzione italiana (a cura della Rivista mensile SU LA TESTA) e, successivamente, il testo originale del contributo redatto per il Web Journal THE COMMONER da Peter Linebaugh (autore, con Marcus Rediker, del libro I RIBELLI DELL’ATLANTICO).

Possiamo definire sinteticamente qualche differenza tra commons e comunismo. Le pratiche di commoning persistono tra lavoratori e contadini, e il comunismo è la generalizzazione di queste pratiche. Uno dei ruoli storici dello stato borghese fu quello di criminalizzare i commons; un’aspirazione dei comunisti era quella di rovesciare lo stato borghese. La testimonianza dei commons spesso appare come aneddotica o come folkloristica o come “crimine”, una storia minore, una piccola trasgressione; qualche episodio di comune può comparire per sbaglio in un altro argomento più importante; prove di beni comuni consuetudinari possono apparire peculiari a località o mestieri, e comunque appartenenti a storie locali o di settore, non alle “grandi narrazioni”. La testimonianza del comunismo, dall’altro lato è data da giornalisti, filosofi, economisti e polemisti, e aspira grandiosamente a divenire la narrazione che pone fine alle narrazioni!

DAI COMMONS AL COMUNISMO
Peter Linebaugh, traduzione a cura di Su la Testa (Marzo 2011)

We can propose some short ated contrasting commons and communism. Commoning practices persist among workers and peasants, communism consists of the generalization of such practices. An historic role of the bourgeois state was to criminalize the commons; an aspiration of the communists was to overthrow the bourgeois state. Evidence of the commons will often appear anecdotal or as folklore or as ‘crime’, just a small story, a minor transgression; evidence of commons may appear incidentally to some other, major theme; evidence of customary commons may appear particular to locale or craft, and belonging thus to trade or local histories, not ‘grand narratives’. Evidence of communism, on the other hand, is provided by journalists, philosophers, economists, and controversialists, and grandiosely aspires to become the narrative to end narratives!

MEANDERING ON THE SEMANTICAL-HISTORICAL PATHS OF COMMUNISM AND COMMONS
Peter Linebaugh, December 2010 su The Commoner

In questo interessante contributo, Peter Linebaugh si interroga principalmente sulla traiettoria concettuale, ma anche pienamente pratico-politica, che dai commons porterebbe al comunismo. Non uno sforzo di poco conto, quindi. Certamente un appunto di questo genere sembra essere quasi indispensabile al dibattito odierno che ruota soprattutto intorno alla questione dei “Beni Comuni“. In Italia capita spesso di usare il rasoio con suggestioni che pure meriterebbero maggiore approfondimento ed attenzione. Linebaugh si approccia all’argomento utilizzando lo stesso modus attraverso cui, con Marcus Rediker, ha scritto I RIBELLI DELL’ATLANTICO. Al centro della trattazione, infatti, ci sono Eventi concreti, momenti di Vita realmente vissuta, porzioni di storia trovati in un calderone di vecchi accadimenti dell’antagonismo (presto dimenticati) e riproposti in una veste differente. Uomini e donne, personaggi e parole, molto spesso si uniscono nell’Emancipazione del corpo e per la Liberazione dello spirito. In questa dimensione del conflitto l’elemento mistico-religioso non può essere epurato da ogni considerazione politica (a tal proposito rimandiamo al nostro Bloch racconta Munzer), anzi diventa quasi determinante. Perchè sempre di Emancipazione si parla. Da queste attualità diffuse sarebbe possibile ricostruire una traccia: la traccia dei commons che diventano altro, si trasformano. Omnia sunt communia, urlava il predicatore Muntzer guidando i contadini tedeschi all’assalto della città di Munster nel XVI secolo, reclamando pane, lavoro e “Beni Comuni”.

L’ipotesi da cui parte Linebaugh si presenta come una provocazione: se il comunismo, almeno così come lo conosciamo oggi, in realtà sia nato (e cresciuto) in ambienti differenti da quelli del socialismo “scientifico” e, successivamente, della pianificazione sovietica? Già si odono in lontananza alcuni strali, non proprio eleganti, degli “scienziati” contro gli “utopisti” durante le prime Assemblee della Prima Internazionale (e della Seconda). Ci sarebbe molto materiale, storico e politico, su questo argomento, eppure non è al centro del contributo che stiamo prendendo in considerazione. Nel suo articolo, Linebaugh, marca un punto di vista a nostro avviso molto importante: “Il pensiero parigino (dove ‘nacque’ il comunismo scientifico, nella seconda metà dell’Ottocento, ndR) era avanzato soltanto nel contesto di una teoria del progresso della storia”. Quindi il valore aggiunto che i moti parigini (e, soprattutto, la Comune del 1871 su cui sia Marx che Lenin hanno scritto molte pagine importanti) hanno dato al Comunismo è stata la Filosofia della Storia, la concezione del progresso e dell’inevitabilità evoluzionistica della palingenesi comunista. In Francia è avvenuto il “primo” passaggio dalla tradizione dei commons, quindi delle lotte contingenti e locali per i “beni comuni” (per la sopravvivenza e l’autonomia di una comunità di Esseri viventi) a quella del comunismo storico: “Possiamo definire sinteticamente qualche differenza tra commons e comunismo. Le pratiche di commoning persistono tra lavoratori e contadini, e il comunismo è la generalizzazione di queste pratiche”. Ed infatti, a ben vedere, già con la “gloriosaRivoluzione inglese e con la successiva conquista dell’Atlantico, interesse degli Stati divenne criminalizzare i commons, privatizzarli e fornire una grande base di manodopera a basso costo da impiegare nelle nuove terre da colonizzare oppure nelle fabbriche in espansione nelle Città.

Concludendo si potrebbe dire che, per Peter Linebaugh, esista una relazione dinamica e quasi gerarchica tra commons e comunismo. Inizialmente i commons erano spazi politici riferibili alle lotte ed alla resistenza contro la pervasività delle logiche economiche di Mercato nella Vita “comune” degli Esseri umani; successivamente il comunismo ha raccolto tutti questi conflitti, unendoli e costruendo una piattaforma politica immaginando un “soggetto” che la caratterizzasse (il “proletario”) ed a cui affidare il compito storico dell’Emancipazione e della Liberazione: “Ora nel XXI secolo la semantica dei due termini sembra essersi rovesciata, con il termine comunismo che appartiene al passato dello Stalinismo, all’industrializzazione dell’agricoltura, e al militarismo, laddove i commons appartengono ad un dibattito internazionale sul futuro planetario di terra, acqua e mezzi di sussistenza per tutti.

Aggiornamenti:
Sull’argomento sarebbe da leggere anche l’articolo di Paolo Cacciari su Carta.