Religione, male e sofferenza. Mircea Eliade e il mito dell’eterno ritorno. Una recensione critica.

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Tutta la giusta ambizione umana è riassunta nel verbo “comprendere”. Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”. Primo Levi, dopo aver studiato sociologia nel laboratorio “umano” di Auschwitz, direbbe che senza una profonda semplificazione della realtà, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema. Tendiamo a semplificare ogni cosa, a farcela amica.
Ogni riduzione è scienza, e ogni scienza è drasticamente semplice, quindi più o meno “irreale”. Questo vale anche per il fenomeno religioso. La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o almeno, non sono semplici come piacerebbe a noi. Ogni chiave interpretativa sulla religione merita un determinato spazio nell’analisi. Ma bisogna affiancare l’una all’altra chiave interpretativa. Tutte insieme, non una sola. Dunque, il fenomeno religioso reggerà anche alla seguente semplificazione, anzi, ne varrà arricchito. Fenomeno religioso ridotto, da Eliade, a “Cercare un senso al caos della storia” = Richiesta di senso alla sofferenza. Il fenomeno religioso, nella sua interezza, nelle sue innumerevoli espressioni planetarie, può essere ridotto alla ricerca di senso, ad un semplice quanto angoscioso tentativo di “normalizzare la sofferenza“, “sopportare la storia” (cfr. anche le conclusioni, simili a quelle di Eliade, di De Martino ne “La fine del mondo”).

Secondo Eliade, la “normalizzazione della sofferenza” rimane una potente chiave di comprensione del fenomeno religioso. L’uomo, da sempre, rifiuta di accettare e valorizzare la storia. Cosa significa infatti VIVERE per un uomo appartenente alle culture tradizionali? Ripetere e rispettare degli archetipi, una rivelazione, una manifestazione avvenuta in illo tempore, fatta da una divinità o da un essere mitico. Per mezzo della ripetizione dei gesti paradigmatici e delle cerimonie periodiche lasciate dalle divinità, l’uomo “arcaico” riusciva ad annullare il tempo. Una qualsiasi forma sociale arcaica, per il fatto stesso di esistere e durare nel tempo, si indebolisce e si logora; per riprendere vigore, deve essere costantemente (spesso questo avveniva nei rituale di fine anno) reintegrata, riassorbita nell’istante primordiale, integrata nell’umanità primordiale da cui è sorta; in altri termini, rientrare nel “caos” (sul piano cosmico), nell’orgia (sul piano sociale), nelle tenebre, nell’acqua del battesimo primordiale (diluvio, ecc). E’ una concezione ciclica del tempo, che diversi antropologi, storici delle religioni e filosofi della religione hanno chiamato “eterno ritorno” o concezione ciclica del tempo.

Ma torniamo al tema principale: in tutta questa ripetizione di un “già dato”, in qusto ripetersi rituale di gesti, racconti e mansioni che danno senso al caos della storia, in questa fuga dalla realtà storica come realtà inafferrabile, come reagisce l’uomo di fronte alla sofferenza?

Risposta scontata: la sofferenza viene normalizzata, cioè spiegata. La sofferenza, per l’uomo arcaico, ha un senso, ha SEMPRE un senso. Per Eliade, se l’umanità prima del fenomeno giudaico-cristiano non ha mai valorizzato la sofferenza come uno strumento di purificazione e di ascesi spirituale, non l’ha però mai considerata come sprovvista di significato. Naturalmente parlo di sofferenza in quanto avvenimento, in quanto fatto storico. Ad esempio: la sofferenza provocata da una catastrofe cosmica, (siccità, inondazione tempesta), da un’invasione (incendio, schiavitù, umiliazione ecc), da una malattia, o dalle ingiustizie sociali. A proposito di questa sofferenza storica, Mircea Eliade afferma chiaramente che il “primitivo” non può concepire una sofferenza non provocata; tali sofferenze hanno potuto essere sopportate proprio perchè non sembravano né casuali, né gratuite né arbitrarie:

[…] Gli esempi sarebbero superflui; sono a portata di mano. Il primitivo che vede il suo campo divorato dalla siccità, il suo bestiame decimato dalla malattia, il suo bimbo sofferente ecc sa che tutte queste congiunture non dipendono dal caso, ma da certe influenze magiche o demoniache, contro le quali lo stregone, il sacerdote o il re dispongono di armi. Se il loro intervento propiziatorio o magico non va bene, gli interessati si ricordano dell’esistenza dell’Essere supremo, pressoché dimenticato per il resto del tempo, e lo pregano per mezzo di offerte e sacrifici. “Tu che sei in alto, no prendermi mio figlio, è ancora troppo piccolo!” implorano i nomadi Selknam della Terra del Fuoco; “Oh Tsunigoam”, si lamentano gli Ottentotti, “tu solo sai che io non sono colpevole!”. Durante la tempesta, i Pigmei Semang si graffiano i polpacci con un coltello di bambù e gettano goccioline di sangue da tutte le parti gridando: ” Ta Pedn! Io non sono indurito, pago la mia colpa! Accetta il mio debito, io lo pago! […] Gli Esseri supremi celesti intervengono usualmente in ultima istanza, quando sono falliti tutti i passi fatti presso dèi, demoni, stregoni, nell’intento di allontanare una sofferenza- I Pigmei Sepang, in questa occasione, confessano le colpe di cui si ritengono colpevoli, usanza che si ritrova sporadicamente in altri luoghi, dove accompagna anche l’ultimo ricorso per eludere una sofferenza […].

Dunque troviamo sempre un tentativo di giustificare la sofferenza: essa proviene dall’azione magica di un nemico, da un infrazione di un tabù (cfr. peccato originale), dal passaggio in una zona nefasta, dalla collera di un dio, oppure – quando tutte le altre ipotesi si sono rivelate caduche – dalla volontà o dal corruccio dell’Essere supremo. Ancora, può essere provocata da una colpa personale o di un popolo, di una etnia, o dalla malvagità del vicino (il malocchio) etc. In ogni caso, la “sofferenza” diventa intellegibile, comprensibile, e dunque sopportabile. Ritroviamo un po’ ovunque la concezione secondo cui la sofferenza è imputabile alla volontà divina, o che sia intervenuta direttamente per produrla, o che abbia permesso ad altre forze, demoniache o divine, di provocarla. La distruzione di un raccolto, la siccità, il saccheggio di una città da parte del nemico, la perdita della libertà o della vita, una qualsiasi calamità, non vi è nulla che non trovi, in un modo o nell’altro, la sua spiegazione e la sua giustificazione nel trascendente, nell’economia divina. Sia che il dio della città vinta sia stato meno potente di quello dell’esercito vittorioso, sia che vi sia stato uno sbaglio rituale di tutta la comunità, o soltanto di una semplice famiglia nei confronti di una qualunque divinità, sia ancora che entrino in gioco sortilegi, demoni, negligenze, maledizioni, a una sofferenza individuale o collettiva corrisponde sempre una spiegazione; e di conseguenza, essa è, essa può essere, sopportabile. Da questo punto di vista, la religione di Eliade è il primo e vero sistema pre-filosofico per decifrare la realtà, la storia.

Il momento critico della “sofferenza” dunque è costruito dalla sua comparsa; la sofferenza è sconvolgente solamente nella misura in cui la causa resta ancora sconosciuta o imprevedibile (come avviene nel mondo post-moderno, ragion per cui Eliade appare uno studioso estremamente critico della postmodernità e dalla sua alienante angoscia). Personalmente, resto etnologicamente basito e commosso quando leggo alcuni commenti di gente che ha tentato ardite “meditazioni” teologiche per spiegare lo tsunami ed il terremoto giapponese. Affascinato dal nostro inconsapevole ed ancestrale comportamento. Ma se Voltaire, dopo il terremoto di Lisbona, si arrabbiava e sbraitava contro coloro che ci vedevano un piano di Dio, al giorno d’oggi non bisogna prendersela, ma sorridere come lui.

Torniamo a noi. Cercherò di fare altri esempi di quella che chiamo, seguendo per il momento lo schema di Eliade, “mentalità arcaica”, con tutto il rispetto per gli “arcaici”. Più che mentalità arcaica, correggerei impunemente Eliade parlando di “mentalità umana”. Un esempio fra tutti è quello di quel grande fenomeno religioso indiano a due teste, e cioè induismo e buddismo. Il dolore infatti qui non è considerato cieco e sprovvisto di senso, neanche per quel pensiero indiano che ha considerato la storia in toto come sofferenza, fino a indicarne – unico sistema di pensiero al modo ad averlo fatto – la non esistenza, la sua illusorietà. Che cos’è infatti il Karma? Il Karma non è nient’altro che la dottrina della casualità universale, escamotage per giustificare gli avvenimenti e le sofferenze attuali con qualche colpa commessa nel passato, tramite il fenomeno fisico delle trasmigrazioni. Le sofferenze del momento attuale sono meritate, dunque giustificate, spiegate, poiché sono l’effetto fatale dei delitti e delle colpe commesse nel corso delle vite precedenti. Ogni uomo nasce con un debito, ma con la libertà di contrarne di nuovi.

Di qui, Eliade comincia il percorso più attaccabile e criticabile del suo progetto, quando cioè (secondo uno schema ormai superato) comincia a parlare della novità giudaico cristiana.

Si tratta realmente di una novità? Sinceramente, a ben analizzare questa “recente” fenomenologia religiosa, ritroviamo tracce della dimensione “arcaica”. Una certa economia cristiana vede infatti nelle sofferenze una prova; le lettere cristiane affermano che “se soffriamo, è per la nostra correzione”. Insomma, è Dio a farci soffrire. Inoltre, sempre più peso nella teologia cristiana post-agostiniana è il peccato originale, questo protopeccato commesso dall’uomo in illo tempore, madre di tutte le sofferenze attuali. Ancora una volta, la sofferenza è normalizzata, spiegata in vista di un miglioramento morale, di una redenzione futura (“felice la colpa che permise un così grande redentore” dice un salmo pasquale). Lo stesso accade nell’ebraismo: ogni nuova calamità storica era considerata come una punizione inflitta da Jhwh, crucciato per l’eccesso di peccati a cui si abbandonava il popolo eletto. Nessun disastro militare sembrava assurdo, nessuna sofferenza vana, poiché al di là dell’avvenimento, si poteva sempre intravedere la volontà di Dio: “Abbiamo peccato, poiché abbiamo abbandonato l’Eterno, e abbiamo servito i Baal e le Astarte; ma ora, liberaci dalle mani dei nostri nemici e ti serviremo” (1Sam 12,10). Un passo che ricorda il comportamento delle popolazioni “arcaiche”, che nel momento del bisogno tornavano all’Essere Supremo.

Dunque, cosa ci sarebbe di nuovo nella religione giudaico-cristiana?Si può articolare la risposta di Eliade in due punti.

1) La dimensione storica. Per la prima volta, vedremmo affermarsi una concezione lineare del tempo (anziché ciclica, anziché l’eterno ritorno), l’idea che gli avvenimenti storici hanno un valore in se stessi, nella misura in cui vengono determinati dalla volontà di Dio. Questo Dio non è più una divinità creatrice di gesti archetipi da ripetere, ma una personalità che interviene continuamente nella storia, e rivela la sua volontà attraverso teofanie negative o positive. Sotto la pressione della storia, e sostenuta dall’esperienza profetica e messianica, una nuova interpretazione degli avvenimenti storici si farebbe luce in seno al popolo d’Israele. Vi è l’incrollabile volontà dei profeti messianici di guardare in faccia la storia e di accettarla come un terribile dialogo con Jhwh. La storia non appare più come un ciclo che si ripete all’infinito (Nietzsche, ad esempio, parla di eterno ritorno) come la rappresentavano i “popoli primitivi” (creazione, esaurimento, distruzione, ricreazione annuale del cosmo); direttamente controllata dall’onnipotente Jhwh, la storia è formata da teofanie uniche, di cui ognuna contiene una dimensione intrinseca e particolare. Il rinnovamento annuale, inoltre, con la confessione dei peccati collettiva, il ritorno degli antenati ed il ritorno della condizione primaria, invece di essere celebrato alla fine dell’anno solare o agricolo sarà celebrato alla FINE DEI TEMPI (quando, per l’appunto, i morti ritornano, uno scenario che avviene non più nel solstizio d’inverno, ma in un futuro). La vittoria sulle forze delle tenebre, sul caos, non si celebrerà più ogni anno, ma viene proiettata in ILLO TEMPORE futuro e messianico, nella parusia.

2) Il secondo punto è quello che riguarda propriamente la dimensione della sofferenza che abbiamo precedentemente analizzato. La fenomenologia religiosa giudaico-cristiana comincerebbe a concepire la sofferenza come un mistero inspiegabile: non per niente, Giobbe è il giusto che soffre senza spiegazione. La dimensione giudaico-cristiana è quella dell’accettazione totale della vita, della fede senza condizione, della fede senza spiegazione. Una parola: LA FEDE di Abramo. Per utilizzare la terminologia di Kirkegaard, Abramo fonderebbe una nuova esperienza religiosa, la fede. Le altre religioni continuanuerebbero, per Eliade, a muoversi nell’universo delle certezze, degli schemi rassicuranti. I loro sacrifici appartenevano al “generale”, cioè erano fondati su teofanie arcaiche in cui si trattava di rigenerare l’energia del cosmo. Erano atti che trovavano la loro giustificazione in archetipi. L’atto religioso di Abramo che sacrifica Isacco rappresenterebbe per Eliade una rottura radicale; Jhwh chiede, ordina, gratifica, domanda senza nessuna giustificazione razionale. Così la sofferenza è quasi totalmente deprivata della sua dimensione “normalizzata”. L’Ecclesiaste, ad esempio, è generalmente considerato una testimonianza della scossa provocata all’arcaica dottrina della retribuzione, assieme al libro di Giobbe. Come Giobbe, vi sarebbe il Cristo, che inoltre approfondirebbe il mistero della sofferenza: il giusto soffre non per volontà di Dio, ma per l’iniquità dell’uomo.

Questo il “percorso” di Eliade. Se il primo punto è abbastanza condivisibile (la linearità), il secondo, quello incentrato sulla novità del giudaismo-cristianesimo nella fede, è alquanto teorico, troppo accademico, e secondo me campato in aria. Infatti, anche la religione cristiana è fondata sul male, e dunque, su una teodicea che lo giustifica. Si deus est unde malum? E’ la classica domanda di Agostino (se c’è dio, da dove viene il male?). Iniziare a parlare di dio dal male. In occidente lo si è sempre fatto. L’intera teologia cristiana è fondata sul male, nel senso che la crocifissione, da scandalo inspiegabile (può un dio morire in croce? per quale ragione?) qual doveva teoricamente essere, a contatto con la filosofia greca (ma non solo…) è divenuta l’espiazione del peccato dal mondo. Alcuni teologi hanno addirittura tentato di rendere “provvidente” la shoà, a conferma dei miei sospetti sul fatto che le religioni si FONDANO o tendono a fondarsi teologicamente sul male. In controtendenza a questa classica teologica cattolica vi è il “dotto” (e perciò di pochi) protestantesimo liberale, in parte Bonhoeffer, ed in parte il misticismo: parlare di dio, del dio della forza e non della sofferenza, del dio positivo e della vita, non del rifugio, oppure credere in dio non sul male, ma NONOSTANTE il male. Un puro atto di fede. Karl Barth diceva infatti che spiegare il male significa cancellare lo scandalo, che invece DEVE rimanere tale. Anche la teologia liberale è però una pseudo-teodicea, in quanto non fonda la fede sul male come le teodicee classiche; per questa teologia, usando una definizione di Éliette Abécassis, la fede riposa sulla questione senza risposta che pone il male… insomma, non se ne esce (tranne in un luogo, sempre per pochi, e cioè in alcune mistiche, cristiane e non). Male e religione vanno insieme. La prima domanda, “perchè il male?”, è umanamente troppo legata alla prima risposta, dio.

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