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Il resto di niente. La storia di Eleonora Pimentel Fonseca
“Più elevato il sogno, più fiera la sofferenza”
E’ quanto afferma nel romanzo Il resto di Niente Cirillo, uno tra gli eroi della repubblica napoletana, instaurata nel gennaio 1799 sulla scia della campagna napoleonica in Italia, rivolgendosi ad Eleonora Pimentel Fonseca, tra le principali protagoniste di quella fase storica, la realizzazione di un sogno di libertà che ebbe vita breve e portò via la vita di molti patrioti.
Eleonora Pimentel Fonseca, intellettuale e scrittrice, fu una rivoluzionaria e fu impiccata nell’agosto del 1799, quando a Napoli si instaurarono nuovamente i Borboni e i repubblicani furono condannati a morte. Tra gli ultimi pensieri, prima di essere impiccata: “Servirà un giorno ricordare tutto questo?”.
Eleonora, però, non era nata a Napoli ma era portoghese. Arrivata a Napoli bambina con la sua famiglia, decise di appartenere a quella città, a Castel Sant’Elmo, a Toledo e ai vicoli straripanti di gente, al mare scintillante e al Vesuvio tanto bello quanto indifferente. Alla grandezza e alla povertà di quella capitale del Regno dei Borboni, già alla fine del Settecento centro di una struggente bellezza.
Lo scrittore Enzo Striano (1927-1987) tratteggia Eleonora Pimentel Fonseca in modo delicato e mai retorico, tra storia e letteratura. Enzo Striano accompagna la piccola Lènor nel suo arrivo a Napoli durante la feste della Piedigrotta: «Fu terrorizzata. Non aveva mai visto tanto e così vario clamore, né visto simile folle. La carrozza faticava a muoversi […] Un urlìo continuo, ritmato incessantemente dallo scuotere secco di mille tamburelli a sonaglia, dal soffiare di mille fischietti, dal frenetico strofinio di mille pentole […] Vide un uomo con sudicio berretto bianco e grembiule di cuoio che bolliva maccheroni su un fornello quasi in mezzo alla via. Rimase incantata per la velocità con la quale colui toglieva dal fuoco uno dei pentoloni che vi fumavano, ne rovesciava l’acqua, appiccicosa, biancastra, senza far cadere neppure un filo della pasta, che poi serviva, con rapidità impressionante, nei piatti di stagno degli avventori che allungavano il braccio nella ressa».
Fin da bambina Lènor mostra una propensione e un interesse per gli studi umanistici e scientifici; arrivata all’adolescenza inizia a comporre poesie che legge nei salotti dell’aristocrazia di Napoli e a Corte, al cospetto dei sovrani Ferdinando IV e Maria Carolina.
Enzo Striano, attraverso la descrizione della vita di Lènor negli ambienti vicini alla Corte, elabora un affresco della Napoli di fine Settecento dove avevano iniziato a diffondersi largamente idee e principi di matrice illuminista.
Eleonora Pimentel Fonseca studia Genovesi, Filangeri e segue le notizie che provengono dal resto del mondo: la rivoluzione americana e la pubblicazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, gli avvenimenti in Francia dove il nuovo re Luigi XVI stava per essere travolto (e ghigliottinato) dalla Rivoluzione del 1789.
Lènor si allontana sempre più dalla Corte: fiorisce in lei una visione del mondo che si oppone ad un potere che sfrutta l’ignoranza e la debolezza della maggioranza del popolo e abbraccia un progetto che avrebbe dovuto coinvolgere gli intellettuali illuminati nella missione di liberare il popolo. Ma Eleonora si accorge che non è così semplice e che spesso è proprio quel popolo da liberare che si trasforma nel nemico più violento.
Nelle pagine del romanzo, la Grande Storia si intreccia alla vicenda privata di Lènor che, rimasta senza la mamma e in condizioni economiche precarie, decide di sposarsi con un esponente della piccola nobiltà napoletana. Fu un’esperienza agghiacciante per la sensibile e colta protagonista, segnata dalla violenza domestica e drammaticamente dalla perdita del piccolo figlioletto. Lènor, con il sostegno del padre, divorzia e si dedica a quello che viene descritto nel libro “fare come gli uomini: partorire con il cervello”.
Enzo Striano tratteggia mirabilmente il personaggio di questa giovane donna: attraverso i suoi flussi di coscienza possiamo affacciarci nella sua anima per leggerne i turbamenti, i dubbi, le riflessioni.
I lazzari, il popolo basso, sono il personaggio corale al centro del romanzo: «Anche quelli sono popolo, Lènor. Non ci capiscono perché vivono nell’arretratezza, nella sporcizia. Ci odiano. Hanno paura anche di noi. Ma noi dobbiamo lavorare anche per loro: noi abbiamo avuto tutto, loro niente».
Proclamata la Repubblica, Eleonora Fonseca dirige il giornale “Il Monitore Napoletano”, organo di stampa ufficiale del nuovo Governo. Scrive articoli educativi con la missione di formare il popolo: per lei la cultura è missione civile perché solo l’istruzione può liberare ed elevare i lazzari.
Il suo entusiasmo però si contrappone ad un senso del Fato inevitabile che viene espresso dal personaggio di Pulcinella: «Pulcinella non è un tipo allegro. Sa le cose nascoste. Ca la Repubblica adda fernì, come finisce tutto, ca ll’uommene se credono de fa chesto, de fa’ chello, de cagnà lo munno, ma non è vero niente. Le cose cambiano faccia, non sostanza: vanno sempre come hanno da ì. Comme vò lo Padrone. Lo munno non po’ girà a la mano smerza. Lo sole spunta tutte li mmattine e poì scenne la notte, la vita è ‘na jurnata che passa: viene la morte e nisciuno la po’ ferma’. Perché è de mano de lo Padrone: di Dio. Pulcinella queste cose le ha sapute sempre, come volete che si metta a fare il giacobino? Lo po’ pure fa’, ma solo per far ridere, per soldi. Isso non ce crede».
I lazzari vogliono essere lasciati in pace: «Sempre il vecchio problema: s’ha diritto di far felici gli altri imponendogli quella che riteniamo sia felicità? Felicità comporta sacrifici, s’ha diritto ad imporli a chi pensa non valga la pena di farli? Mettetevi le scarpe, imparate il gergo repubblicano, fatevi ammazzare per cacciare i Borboni, i Ruffo, i preti, l’ignoranza (e così regalate alla Gran Repubblica Madre i palazzi del re, Capodimonte, Ercolano), studiate, diventate colti. Leggete Genovesi, Filngieri, distruggete Pulcinella, san Gennaro, vicoli, bassi, la vostra vita randagia».
Sullo sfondo la Gran Repubblica Madre, la Francia, che dopo aver rapinato risorse dalla Repubblica Napoletana, abbandona i patrioti al loro tragico destino.
Eleonora Fonseca nel suo ultimo giorno di vita chiese in prigione una tazza di caffè. Probabilmente il suo ultimo pensiero davanti al boia è stata la soddisfazione di aver compiuto il suo dovere.
Il nostro dovere, oggi, è ricordarla e farla vivere nella nostra storia.
E ricordare il romanzo di Enzo Striano, Il resto di niente.
Come si dice a Napoli, o resto è niente.
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(articolo di Eleonora Corgiolu)
Il viandante di nome Ulisse e il tizio che guardava una finestra chiusa
(di Elisa Scirocchi)
Konstantinos Kavafis nasce ad Alessandria D’Egitto quando l’Italia aveva da poco dato alla luce il suo Regno dall’acerbo tricolore. Poi i viaggi, l’Inghilterra, la Turchia, la Grecia, e di nuovo Alessandria d’Egitto per tornare ad essere lieve più della terra. Nella lingua greca, tanto cara al nostro poeta, il verbo “fare” si traduce con la parola “ποιέω”. Viene da sé che la poesia altro non sia che il Fare per eccellenza.
Espressione profonda dell’umano sin dalla notte dei tempi la poesia a colpi di armonie ha raccontato a noi stessi, poeti o fruitori, chi siamo. E se Croce vedeva giusto tra le sue pagine[1] non c’è nulla che ci allontani per qualità d’animo da un Poeta se non una maggiore capacità, presente nel suddetto Poeta, di trasferire l’intuizione artistica in espressione mediante un’immaginifica estrinsecazione esterna. Insomma, fuori dalla boria del linguaggio accademico, siamo tutti poeti di noi stessi, filosofi dell’umanità.
“Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano. Una recensione per una filosofia a venire
(nella foto, HIATUS, di Dino Valls)
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di Alessandro Stella
“L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant”. L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Se Pascal voleva dire che siamo precari, deboli, “sapienti sul mondo” ma così tremendamente ignoranti su noi stessi, ignari delle radici del nostro stesso pensare e vivere, dei poteri e legami che ci torturano e deformano, allora aveva ragione. Siamo degli illusi nella nostra volontà di controllo, nel nostro autoinganno quotidiano biopolitico (i “poteri” sfruttano la nostra illusione di libertà). Ma è un autoinganno anche psicologico (con l’illusione del controllo ci difendiamo dall’angoscia e dal dolore), l’illusione di possedere una libertà e assieme ad essa una mente-ragione separata dal resto, che così può ordinare noi stessi, il mondo, e cambiarlo, scovare i problemi e illuminarlo. Ma Pascal, il “misantropo sublime” (così lo chiamava l’illuminista Voltaire) si sbaglia sul “pensiero”. L’uomo non è un pensiero. E’ un corpo, un corpo che comunica in tante maniere, qualche volta anche col pensiero che, a stento e con dolore, diventa parola (o succede viceversa?). Pascal, che combatteva il pensiero di Cartesio, ne era anch’esso vittima, vittima del suo stesso dualismo, vittima dell’odioso dualismo “mente-corpo”. Lo stesso dualismo che ammorba il pensiero occidentale e la filosofia. Lo stesso dualismo di quando i media dicono che Michela Marzano sia un “cervello in fuga”, lei che è diventata un docente ordinario in Francia. Nel suo libro, giustamente si arrabbia per questo cliché giornalistico, e rivendica il suo corpo, lei che per tanto tempo l’ha bistrattato. “Volevo essere una farfalla”, non è un libro sull’anoressia. E’ un libro che solo in piccola parte parla del sintomo, l’anoressia, della “sua” anoressia, perché Michela lo sa benissimo, ogni anoressia è diversa ma è uguale, poiché, “non esistono anoressiche e bulimiche, esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa”. Questo toccante diario, questo flusso di coscienza di una vita intera, parla del malessere che ne è alla base, malessere a cui ognuno di noi risponde come può, alcuni (spesso donne, e sempre più uomini) con i “disturbi alimentari”. Ed è un libro che parla di filosofia, ma di una filosofia che viene (o che, finalmente, ritorna). Una filosofia che si occupa della vita e affronta il dolore, senza finalmente rimuoverlo.
Le filosofie classiche della Cina, secondo Winberg e Ch’u Chai
“Un tempo, tutto mutava fuorché la Cina. Oggi in Cina non vi è nulla che non muti. La nazione più conservatrice della storia è diventata la più radicale […] Il cinese preferisce il compromesso, l’armonia, e la sintesi – del tutto incompatibili con l’ideologia marxista. Riconoscendo questa verità, i comunisti hanno tentato di modificare la teoria marxista leninista per renderla più accettabile ai temi dell’umanesimo cinese tradizionale”. Sono le note conclusive di questo bellissimo saggio edito da due studiosi cinesi, Ch’u Chai e Winberg Chai, da poco tradotto in italiano ed intitolato “Vie Spirituali e filosofiche della Cina”. La riflessione finale del testo coglie uno degli aspetti che più emerge nella lettura di questo agile manuale, una vera e propria introduzione alle filosofie classiche cinesi per chi voglia avere un primo sguardo d’insieme: e cioè quel tentativo continuo della storia della cultura filosofica cinese di accomodare pensieri spesso diversi, spesso lontani fra loro in nuove ed affascinanti sintesi. Cosa che la Cina ha sempre fatto: non solo con i pensatori classici cinesi nel loro susseguirsi nel tempo (per esempio, la sintesi tra l’umanesimo confuciano ed il misticismo taoista), ma anche con il Buddismo (penetrato in Cina probabilmente nel I secolo dC) e con le idee occidentali, penetrate successivamente. I due studiosi, oltre ad essere esperti di filosofie cinesi, hanno una buona preparazione anche nelle filosofie occidentali, ed il testo si presta benissimo ad immediate (forse troppo rapide) e affascinanti comparazioni con i pensatori occidentali. Lo studio tende a classificare i pensatori delle quattro grandi scuole classiche cinesi pre-buddiste a cui si dedica (Confucianesimo, Moismo, Taoismo, Legalismo) con uno sguardo “interno” (cioè non secondo lo sguardo di uno studioso occidentale) ma anche secondo macro rubriche e antagonismi facilmente riconoscibili dagli occidentali: la natura umana (vista positivamente o negativamente?), il rapporto con la tradizione religiosa e culturale (continuità o rottura?), impegno nel mondo umano (naturalismo-misticismo o umanesimo?), idealismo vs realismo, società vs individuo, libertà vs autoritarismo. All’interno di queste grandi aree vengono classificati personaggi incredibili, ai più (qui in Occidente) semisconosciuti, il cui pensiero può esser messo a paragone con Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, Epicuro, Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Hegel o con i nostri nominalisti medievali più estremi, come Guglielmo d’Ockham. Secondo gli autori ogni confronto è possibile, sempre però tenendo in considerazione una radicale differenza. Citando in parte Yi Ching (il nostro “Libro dei Mutamenti”), scrivono: “La scienza, come dissero Platone ed Aristotele, ha radici nella meraviglia, nel desiderio di conoscere e comprendere per il solo fine di conoscere e comprendere. Ma le radici del pensiero cinese affondano nella sollecitudine dei saggi a <<comprendere le vie della natura e a conoscere i bisogni del popolo>>. Lo spirito cinese è uno spirito pratico, non scientifico e insiste sulle qualità morali dell’uomo, piuttosto che sulle sue facoltà intellettuali”.
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Come fare filosofia in casa (Umberto Eco)
Questo piccolo brano è l’ultima “Bustina di Minerva” raccolta nel libro “Come viaggiare con un salmone” (2016). Ci sembrava doveroso pubblicarla, proprio per coloro che vogliono avvicinarsi alla filosofia con qualche prezioso consiglio di Umberto Eco. Ad ogni fine segue sempre un inizio, o almeno, così dovrebbe essere.
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Sarà perché la gente non sopporta più la televisione spazzatura, sarà perché nel mondo accadono tante cose brutte che si sente il bisogno di alcuni momenti di riflessione rasserenata, ma si stanno moltiplicando i luoghi e le occasioni in cui al grande pubblico si ripropone la filosofia. Proprio quella del liceo, magari in un caffè dove ci si riunisce la domenica, come a Parigi, o attraverso volgarizzazioni di facile lettura, talora facendo accorrere un pubblico incredibilmente vasto in sale dove discutono i filosofi professionisti.
In tutto questo c’è della moda e della semplificazione massmediatica, certo, ma il sintomo non è da sottovalutare. Pertanto mi viene in mente di fare alcune proposte per i non specialisti, anche per coloro che la filosofia non l’hanno studiata al liceo, o che sono andati ad ascoltare dei presunti filosofi che parlavano da qualche parte e non hanno capito nulla. A tutti costoro consiglio la via più semplice: leggere quanto hanno scritto i veri filosofi.
Non sempre la filosofia deve apparire facile, talora deve essere difficile, ma non sta scritto da nessuna parte che per filosofare occorra parlare difficile. La difficoltà del linguaggio – in filosofia – non è segno né di qualità né di perversità, spesso dipende dal problema che si affronta. Ci sono capolavori filosofici, che hanno cambiato il nostro modo di essere e di pensare, i quali sono fatalmente difficili, per cui non inviterò nessuno, che non sia specializzato, a leggere la ‘Metafisica’ o ‘L’Organon’ di Aristotele, la ‘Critica della ragion pura’ o quel libro sublime ma impervio che è l”Etica’ di Spinoza. Ma ci sono anche filosofi che hanno saputo parlare in modo accessibile e spesso sono gli stessi che in altre opere hanno parlato in modo inaccessibile. Pertanto consiglio solo alcuni libretti (ciascuno dei quali si aggira in media intorno al centinaio di pagine) in cui si vede come si possa filosofare senza usare troppi termini tecnici.
Cominciamo con Platone. Proporrei il ‘Critone’, dove si impara come e perché un cittadino non debba sfuggire all’osservanza delle leggi (che si chiami Socrate o Silvio) e, passando ad Aristotele, la ‘Poetica’. Dimenticate che parla della tragedia classica. Leggetelo come se ci descrivesse come si fa un romanzo giallo o un film western. Il nostro uomo aveva già capito tutto quello che più di duemila anni dopo avrebbero capito Hitchcock o John Ford. Quindi si legga il ‘De magistro’ di Sant’Agostino: parla di come si parla a un figlio su cose di tutti i giorni. Un libretto geniale per semplicità e acutezza.
Pur essendo cultore del Medioevo, trovo difficile consigliare un testo della grande epoca scolastica, perché poche pagine, lette fuori dal loro contesto sistematico, possono risultare fuorvianti. Saltiamo il fosso, quello strettamente filosofico, e orientiamo il nostro lettore sull’epistolario (eh sì, amoroso) di Abelardo ed Eloisa. Non aspettatevi troppo sesso, ma vale la pena.
Per il Rinascimento, proviamo con l’orazione sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola. E poi (ma solo per antologia, e ce ne sono) qualche passaggio dai ‘Saggi’ di Montaigne. Vanno bene anche a dosi omeopatiche. Subito dopo, il ‘Discorso del metodo’ di Cartesio, esemplare per chiarezza, quindi una antologia dai pensieri di Pascal. E infine un filosofo che scriveva come se stesse parlando dopocena coi suoi amici, colto e assennato, il John Locke del ‘Saggio sull’intelletto umano’. L’opera intera è lunga, ma direi di limitarsi al terzo libro, quello dedicato all’uso che facciamo delle parole. Come per Aristotele, leggetelo come se Locke ci parlasse dei discorsi di oggi, confrontate le sue osservazioni con le prime pagine dei giornali e coi dibattiti televisivi dei giorni nostri.
Per l’illuminismo, mi limiterei per ora al ‘Candido’ di Voltaire; alla fin fine si tratta di un romanzetto, e gradevolissimo. L’Ottocento è una brutta bestia, sono libroni difficili, ma siamo solo noi italiani che non consideriamo lo ‘Zibaldone’ di Leopardi un’opera di alta filosofia. Recentemente in Francia lo hanno ricuperato con immenso rispetto. Anche lì, andiamo per salti antologici, una paginetta o due alla sera prima di addormentarsi. Oppure faccio una proposta provocatoria. Visto che Kant è per definizione troppo esigente, andiamo a incontrarlo là dove, per arrotondare lo stipendio, faceva lezioni agli studenti su argomenti su cui non era specializzato, e si dimostrava spiritoso, bizzarro, capace di raccontare aneddoti e di esprimere opinioni anche paradossali: leggiamoci cioè le sue lezioni di antropologia. Il titolo può fare paura ma il testo è da alto rotocalco.
E poi? E poi lo spazio per la Bustina è terminato e lascio perdere i contemporanei. A meno che non vogliate, saltellando qua e là, centellinare alcune delle osservazioni di Wittgenstein in (non fatevi spaventare dal titolo) ‘Ricerche filosofiche’. Ogni tanto direte che era matto. Sì, era matto. Ma che matto.
Searle, La riscoperta della mente. Una recensione
a cura di Stefano Comito
John Searle, filosofo americano, inizia la sua carriera incentrando il proprio interesse sulla filosofia del linguaggio, ma con il passare del tempo i suoi studi si spostano nell’ambito della filosofia della mente, tant’è vero che è lui stesso a considerare la filosofia del linguaggio un ramo della filosofia della mente. Tuttavia, il rapporto tra Searle e i filosofi della mente non è idilliaco. Infatti ha talvolta sostenuto come in questo ramo della filosofia analitica vi siano persone che hanno acquisito fama e notorietà, senza avere fornito alcun contributo rilevante alla comprensione dei fenomeni mentali. Potremmo dire che ogni riferimento da parte di Searle a Dennett non è per niente casuale considerando anche l’assoluta divergenza tra le teorie che propongono i due pensatori. La riscoperta della mente è il testo più appassionato della produzione di Searle, in cui tenta di scardinare la tesi, sostenuta da Dennett e dai materialisti, che concepisce la mente come il software che “gira” nell’hardware cerebrale e che paragona dunque la mente a un programma per calcolatore. Searle aveva già argomentato con l’esperimento mentale della stanza cinese che in realtà la metafora della mente come un programma per computer è fuorviante ma in questo saggio va ancora più in profondità, contestando anche il progetto di ricerca della psicologia cognitiva che concepisce il cervello come un elaboratore di informazioni.
I primi due capitoli sono dedicati ad abbattere le tesi materialiste eliminativiste dei vari Dennett, Paul e Patricia Churchland, Rorty e Stich e il comportamentismo di Wittgenstein e Ryle. Il terzo capitolo Searle lo dedica all’esposizione di alcuni esperimenti mentali al fine di chiarire come non vi sia necessariamente una connessione tra coscienza e comportamento. La parte centrale del saggio è dedicata a esporre la sua teoria della coscienza; infine, negli ultimi due capitoli critica il programma di ricerca della psicologia cognitiva.
Anelli dell’Io, di Douglas Hofstadter. Una recensione di Stefano Comito
Douglas Hofstadter è un brillante neuroscienziato, filosofo e divulgatore scientifico che insegna psicologia e informatica all’Università dell’Indiana negli Stati Uniti. Anelli nell’Io è un’opera recente, infatti, è pubblicata nel 2008 a molti anni di distanza dal saggio che ha fatto conoscere Hofstadter al mondo intero, ossia, Gödel, Escher, Bach o GEB. Hofstadter ammette che Anelli nell’Io nasce anche sull’onda emotiva di GEB, poiché ha sempre avuto l’impressione che il messaggio centrale contenuto in Gödel, Escher, Bach non sia mai stato compreso in tutta la sua pienezza. Tuttavia, GEB non è l’unica opera che ha reso famoso Hofstadter; molto prolifica e intensa è stata la sua collaborazione con Daniel Dennett insieme con il quale, nel 1981, ha contribuito alla pubblicazione dell’opera L’io della mente che ottenne molto successo. L’influenza della collaborazione con il filosofo americano si ripercuote nelle idee di Hofstadter e si riscontra anche in Anelli nell’Io in cui il capitolo XVI è dedicato interamente allo scambio di e-mail tra i due in un periodo buio della vita di Hofstadter, ovvero, quello successivo alla scomparsa della moglie Carol.
Thomas Kuhn e la struttura della scienza
a cura di Manuel Cappello
In questo articolo vengono prese in considerazione le idee più importanti del libro di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche, The Structure of Scientific Revolutions (1), fra cui in particolare il concetto di paradigma nella sua componente tacita, automatica, preliminare alla razionalità discorsiva. Viene esplicitato il legame fra la natura del paradigma e la questione dell’incommensurabilità fra le diverse visioni scientifiche, e viene evidenziato il ruolo della comunità scientifica come strumento per fare fronte a tale problema. L’opera in oggetto è presentata come un contributo positivo all’impresa scientifica e non come l’affermazione di un relativismo di origine sociale.
I. PENDOLI O PIETRE DONDOLANTI? GLI ESEMPI DI KUHN
II. IL PARADIGMA: FUNZIONE ED ESSENZA
III. IL FUNZIONAMENTO DEL PRESUPPOSTO
IV. INTERNALISMO
V. LA SCIENZA NORMALE: L’ATTIVITÀ GUIDATA DAL PARADIGMA STABILE
VI. INSEGUENDO I ROMPICAPO
VII. IL RUOLO DELLA CRISI
VIII. LA DEFINIZIONE DI UN VOCABOLARIO?
IX. INCOMMENSURABILITÀ E IRRAZIONALITÀ NELLA TRANSIZIONE FRA PARADIGMI
X. INTIMITÀ DEL PARADIGMA
XI. SMETTERE DI SAPERE
XII. UN VERSO NELLA PSICHE
XIII. ALCUNE CONCLUSIONI: LA RAZIONALITÀ RITROVATA
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Jacques Derrida, “Donare il tempo. La moneta falsa”
a cura di Elisa Scirocchi
There’s a PRESENT for you darling!
Se pensate di leggere Derrida una domenica in spiaggia sotto il fresco di un ombrellone, o in mezzo al caos di un tram all’ora di punta vi sbagliate (oppure sapete di avere delle ottime capacità di concentrazione). Non vi spaventate, non è richiesta alcuna speciale abilità, si tratta solo di LEGGERE, di regalarsi del tempo per farlo. Take your time.
Nel 1991 Jacques Derrida dà alle stampe questo affascinante testo dal titolo “Donare il tempo. La moneta falsa”. La sua è una scrittura volutamente complessa. Una scrittura talvolta impertinente. Decostruire, infrangere, lasciare spazio al nuovo, questi sono i termini sui quali dovremmo soffermarci. Decostruzione di parole come eliminazione consapevole di points of view privilegiati da cui guardare il mondo. Dunque, prepariamoci a ritornare indietro sulla stessa pagina, mettiamo in conto di rileggere più volte la stessa frase, e accantoniamo l’idea, ormai superata, di trovare un senso unico alle cose, alle parole, ai gesti, all’umano. Questa è l’essenza intima del lavoro di Derrida, e della sua filosofia, che egli stesso rappresentata proprio come una cartolina spedita, ma mai recapitata.
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Bertolt Brecht, Vita di Galileo. A cura di Elisa Scirocchi
“Himmel abgeschafft!” (Abolito il cielo!)
“[…] Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza […] ”.
Bertolt Brecht non ha certo bisogno di presentazioni. Eppure, se mai qualcuno fosse rimasto indietro, non potremmo che dirgli che egli è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo e regista teatrale. L’originalità dell’approccio con cui ha affrontato temi di carattere prevalentemente sociale, ci porta a considerarlo in modo indiscusso come uno degli autori più innovativi della drammaturgia contemporanea. Protagonista di una critica feroce nei confronti della realtà moderna nei suoi aspetti storici, Bertolt ha analizzato l’umano nelle sue debolezze, e in tutte le sue zone d’ombra. Brecht iniziò a interessarsi alla figura di Galilei in occasione del tre-centenario del processo, subito dal genio pisano, ad opera della Santa Inquisizione, ergo nell’anno 1933. Da quell’anno ha inizio la scrittura travagliata, sofferta, e ragionata di quest’opera: “Vita di Galileo”. La storia di questo testo segue, e accompagna le vicende personali dell’autore, e il contesto storico in cui esso viene scritto. Dopo diverse modifiche, traduzioni, e riedizioni giungiamo alla più celebre versione, ovvero l’edizione berlinese del 1955/56 (Quella che ho letto io, e che vi consiglio vivamente di leggere se non lo avete ancora fatto).Questo dramma è il canto dell’anti-eroe per eccellenza. L’autore non si pone come scopo quello di raccontare la vita del grande Galilei, ma, come si percepisce facilmente anche dal titolo, si prefigge di raccontare la vita di un uomo, dell’uomo Galileo, scienziato non troppo impavido, che ha paura di rivelare ciò che vede dall’altra parte del suo cannocchiale. Brecht ci offre un Galileo umano, preso dalle mille preoccupazioni del quotidiano, intento a gestire lezioni, guadagni, osservazioni astronomiche e calcoli matematici.
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“Il Sole dell’Avvenire” di Valerio Evangelisti, una recensione.
Per una genealogia del proletariato italiano. Potrebbe essere questo un altro sottotitolo possibile per l’ultima produzione letteraria di Valerio Evangelisti “Il Sole dell’Avvenire”, edito dalla Casa Editrice milanese Mondadori. Certamente sarà nostra cura inserire il libro in una ipotetica vetrina di interventi letterari (senza necessariamente dover chiamare un “genere” per definirli) che da qualche anno indagano la genesi del nostro protagonismo rivoluzionario e le sue alterne vicende italiane. Nel progetto dell’autore il focus territoriale deve essere senza dubbio l’Emilia Romagna, per un periodo storico che dalla fine dell’Ottocento si inoltra fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Il libro racconta di Famiglia ed Amicizia, narrando le vicende pubbliche e private di una fitta rete comunitaria che attraversa la Storia e, soprattutto, le Storie di ogni Essere umano che la intreccia. Sullo sfondo l’arte della Vita, tra lavoro ed impegno sociale. Compassione e partecipazione. Dove l’impegno sociale non è solo un investimento del tempo libero, o peggio ancora una banale professione, ma una necessità per costruire sopravvivenza collettiva. Pane e Lavoro.
“Point Lenana” di Wu Ming 1 e R. Santachiara, una Recensione
Avvertenza. Ci sono molti modi di leggere un libro. Soprattutto alcuni libri. Questo punto di vista è solo uno dei tanti possibili.
C’è un rimosso fin troppo latente e violento nella travagliata Storia italiana (dall’impresa garibaldina a questi giorni di decadenza berlusconiana) che ritorna sempre con prepotenza maggiore nell’immaginario collettivo. Sono gli anni Venti e dintorni del nostro Novecento. Ce ne sarebbe un altro strettamente connesso, il Rimosso dell’unificazione dello stivale nel 1861 e della resistenza del Mezzogiorno alla colonizzazione piemontese, ma per il momento rimaniamo al materiale storico e narrativo presentato da Point Lenana. Per quanto riguarda il genere si può certamente dire che non sia più una questione di New Italian Epic di cui, proprio i creatori della cornice, hanno decretato il tramonto. C’è ben altro nella necessità collettiva di indagare e mostrare, utilizzando scenari differenti e punti di vista particolari, un periodo costituente di questo nostro vivere insieme che qualcuno chiama Stato, altri Costituzione e qualche stolto, addirittura, azzarda definire Repubblica.