Il Dune di Villeneuve tra religione e nuove sacralizzazioni

Paul Atreides contempla il luogo della sua morte e resurrezione rituale

Non si può certo dire che l’immaginazione mitica sia scomparsa; è ancora con noi, avendo solo adattato il suo funzionamento al materiale ora a nostra disposizione” (Mircea Eliade)

Il fanatismo è cioè l’unica «forza della volontà» che possono conquistare anche i deboli e gli incerti, quasi una specie d’ipnosi di tutto il sistema sensitivo intellettuale a beneficio del nutrimento eccessivo (d’un’ipertrofia) d’un punto unico di visione e di sentimento; il cristiano la chiama la sua fede” (Friedrich Nietzsche)

Il secondo capitolo cinematografico della saga di Dune diretto da Denis Villeneuve e tratto dal primo libro di Frank Herbert è un lungo e maestoso saggio visivo sul modernissimo problema teologico-politico dei rapporti tra sacro e potere. E di come il vero destino dell’umanità, nel male come nel bene, sia nella vittoria del Sacro, una forza che distruggerà qualsiasi resistenza,  che si chiami Impero, Scienza o Capitale (il controllo della preziosissima Spezia). Lo spaventoso destino messianico del Sacro è creare un deserto, come il pianeta Arrakis, perché il sacro è una forza incredibilmente più pervasiva, coinvolgente e invasiva di tutte le altre che popolano il mondo umano. Ci si può alleare con esso? Lo si può controllare? (nello stile machiavellico dell’ordine religioso delle Bene Gesserit). Lo si può soggiogare ai propri fini?  Ci si possono fare cauti passi di liberazione insieme? Oppure nella sua spaventosa forza, il Sacro (e le nuove sacralizzazioni) si dimostra alla fine della storia come il vero nemico? Sono tutti temi che emergono scenograficamente nel film-colossal di Villeneuve. 

Il genere fantascientifico pullula di mondi dominati da un progresso tecnologico oltre i nostri sogni (e incubi) più sfrenati. In questi mondi, spesso, la componente religiosa viaggia in sordina rispetto a quella politica e scientifico-tecnologica. Il primissimo “Star Trek“, probabilmente la saga di fantascienza più popolare di tutti i tempi, aveva forti sfumature antireligiose che riflettevano le idee neoilluministe e laiche del creatore, Gene Rodemberry. Nei romanzi di uno dei creatori della fantascienza del Novecento, Isaac Asimov, l’elemento religioso è semmai uno stadio culturale provvisorio nell’attesa dell’evoluzione futura dell’umanità e del razionalismo. Tuttavia, parallelo a queste creazioni narrative neopositiviste,  c’è un mondo di fantascienza utopico (o distopico?) che si immerge nella spiritualità e nella religiosità e afferma il potere che queste forze hanno sulla società anche di fronte a un così vasto sviluppo scientifico: è il caso del ciclo di  “Dune” di Frank Herbert.

I Fremen, gli abitanti del pianeta desertico Arrakis, seguono una religione messianica che ruota attorno a dei misteriosi grandi vermi del deserto e alla promessa di una figura che trasformerà il deserto in acqua e libererà i Fremen dagli oppressori. Uno dei temi principali del libro è la lotta dei personaggi principali per il dominio delle spezie di Arrakis, i quali spesso si confrontano con le credenze religiose dei Fremen, viste spesso come primitive, insulse, o diffuse ad arte dal gruppo femminile sacerdotale Bene Gesserit per poter controllare meglio questa strana e rude popolazione; alla fine, sono proprio le credenze dei Fremen che permettono al personaggio principale, Paul Atredies, di trionfare e compiere il suo destino. Non ci sono in Dune tecnologie troppo distanti dal nostro mondo (come arma definitiva ci sono ancora le nostre care testate atomiche). E non esistono più robot intelligenti e IA, poiché centinaia di anni prima dell’inizio delle vicende del libro una guerra contro di loro le ha sterminate tutte. Una vera e propria rivolta futura contro la tecnologia.  

Frank Herbert, e di qui la (abbastanza) fedele trasposizione scenografica del regista Villeneuve, non sta sottolineando il trionfo della religione sulla scienza, né sta condannando esplicitamente la religione. Herbert rimane splendidamente ambiguo riguardo al prendere una decisione su questa annosa e un po’ striminzita dicotomia, come rimane grigio e nebuloso, a ben guardare, lo stesso Paul Atriedes. Eroe incerto per buona parte del film, Paul non crede a nessuna delle profezie che possono riguardarlo, esattamente come la sua compagna Fremen, Chani, quasi una cooprotagonista, che non cambierà mai idea sulla sua avversione al fanatismo religioso. E lo stesso Herbert non ci viene mai in soccorso:  non abbiamo indizi per capire se questo universo religioso in cui tutti sono immersi sia misticamente vero o falso, o se solo qualcuna di queste profezie sia vera; Herbert si assicura di farci sapere che diversi personaggi sono scettici, ma nonostante ciò, gli stessi personaggi che fanno parte di questa storia si sforzano di realizzare queste profezie. Lo stesso Paul e sua madre, l’inquietante sacerdotessa Jessica,  sono ambigui fino alle ultime scene del film. La tensione tra la verità della profezia, il suo uso come instrumentum regni e il desiderio di realizzarla è molto potente nell’opera di Frank Herbert come nel film, e spiega qualcosa di profondamente vero  sul potere della religione come forza che influenza il comportamento degli esseri umani. Il potere della religione, nel mondo di Herbert, non corre perciò il pericolo di essere sostituito da quello razionale-scientifico; i due poteri non si trovano mai davvero in campi dicotomici in lotta fra di loro. Sono più che altro strumenti, che si ibridano, trasformano e che rimangono in agguato, oggi, come ieri, come fra ventimila anni.

Dunque, il futuro di Herbert ha una profonda continuità col presente: non solo i termini religiosi e antropologici dell’universo di Herbert sono presi dall’arabo, dal persiano e dal turco dei nostri giorni (a titolo d’esempio, basti pensare solo ai termini “jihad”, molto presente nel film,  “mahdi”,  “Shai Hulud”). Di più, Herbert studia la recente ri-sacralizzazione del mondo e la applica al futuro. Rifiuta perciò  la contemporanea e nicciana “morte di Dio”, sostenendo che anche nel futuro più lontano, gli esseri umani saranno non solo religiosi, ma strapieni di Verità e narrazioni forti, di trasformazioni del Sacro. Dove poteva (e doveva) esserci il trionfo della ragione, oppure, in maniera più postmoderna, del liquido “non-senso”, assistiamo al trionfo di tribalismo, verità forti inconciliabili, universi veritativi incomunicabili. Quasi citando Nietzsche, che scriveva ne La gaia scienza: “dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna – un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno ancora forse per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi – noi dobbiamo anche vincere la sua ombra!

L’inquietante madre di Paul, Lady Jessica

Tutta la modernità aveva dato per morta le Religione ed il Sacro. La fine della storia era vista come una potente ed inesauribile onda di globalizzazione, che avrebbe portato l’uniformità di idee (si presupponevano laiche, democratico-repubblicane) assieme a quella dello stile di vita e dei consumi. Non è andata così. Le magnifiche sorti progressive occidentali sono state in buona parte sconfitte. Le religioni ed il sacro hanno rappresentato negli ultimi anni come nello scorso secolo, con i loro infiniti camuffamenti e trasformazioni, un calderone di identità emergenti, tribalismi, organizzazioni statuali e parastatali, formali e informali, armate e non, esplosive e invasive, pronte a rovesciare ogni piano neoilluminista o neoimperialista. Il dibattito sulla modernità e sui suoi rapporti con la sfera del mito e del religioso è estremamente fecondo. È importante infatti mettere in luce le maniere con le quali la modernità abbia potuto (secondo alcuni aspetti) sacralizzare quasi tutte le sfere dell’umano, dalla politica, alla scienza, alla identità. Mentre decostruiva tutta una serie di fenomeni religiosi tradizionali, ha nel contempo destoricizzato quello che era il mondo “profano”, laico, proprio quel mondo cha andava purificando dal mito e dalle religioni tradizionali, spesso edificando altre strutture metastoriche e fissiste (surrogato di quelle tradizionali), strutture come la Storia, la Natura, lo Stato, la Nazione e la Scienza. La modernità, esattamente come la religione ed il mito, si è in effetti caratterizzata come una via maestra per dare “legittimità, ordine, coerenza ai significati socialmente condivisi” (la definizione è di Giovanni Filoramo per il termine “religione”). Tutta la modernità e la post-modernità può essere inquadrata (compreso il problema attualissimo tra Islam e Occidente; ma come non pensare anche alla promessa messianica della terra per gli Ebrei? O alla radicalizzazione e comparsa di Hamas? ) anche in questa sacralizzazione dell’ethos, dell’identità etnica e nazionale, conservando idealismi metastorici anche sotto forma di politica e scienza. Per gli storici delle religioni la nuova tappa più significativa di tale processo moderno e post-moderno si è ripresentata con tutta la sua carica significativa durante la decolonizzazione, ma anche dopo il crollo del Muro e l’11 settembre. Nell’età contemporanea, come durante la modernità, i nuovi scenari ideologici, anche i più insospettabili, sono l’esito di quel tipico lavorio destrutturante, che, mentre secolarizzava le varie sfere dell’esistenza umana, creava nel contempo al loro stesso interno l’esigenza di nuovi processi di senso e di sacralizzazione.

Il totalitarismo degli Harkonnen. Nuove trasformazioni del Sacro

Ma il film di Villeneuve, pure con qualche inquietante accenno ad altre sacralizzazioni (la casata Harkonnen sembra aver costituito una spietata dittatura militare con annesso culto della personalità) presenta su Arrakis il Sacro nella sua spregiudicata e ambigua ascesa in funzione anticoloniale e antimperialista, fenomeno molto studiato negli studi post-coloniali. L’etnologo e storico delle religioni Vittorio Lanternari (nel campo di studi, omologo italiano dell’antropologo francese Georges Balandier),  scuola sull’asse fecondissimo inaugurato in Italia da Ernesto de Martino, accantonando per un attimo l’idea marxiana un po’ sempliciotta di intendere la religione solamente come un “oppio dei popoli“, ha potuto studiare i legami inscindibili fra decolonizzazioni, incontro-scontro dei popoli e creazioni religiose, fra dominio coloniale e bisogno di libertà dei popoli oppressi. Il riferimento all’Islam nella space opera di Herbert è chiarissimo. L’Islam di Herbert, in parte, è legato al ruolo del sacro come ambigua fonte messianica e liberatrice (in una scena Villeneuve gioca pure col Cristianesimo, inscenando la resurrezione del messia-Atreides come inizio del nuovo culto). Da scrittore di fantascienza Herbert capì quello che il nostro etnologo Lanternari studiò sul campo: e cioè che le religioni cambiano, ora lentamente ora rapidamente, o nascono ex novo, in risposta alle nuove sfide sociopolitiche del tempo e del luogo. E non importa che le religioni possano essere uno stadio pre-politico di lotta, resistenza, riscatto o dominio. Sono infinitamente più efficaci del politico. Fra migliaia di anni, se sopravviveremo a noi stessi, l’intero universo sarà pieno di Islam e Cristianesimi, religioni messianiche, culti, chiese e sette simili ma anche diverse da quelle del presente e del passato. 

Alessandro Stella

Perchè i colori non suonano? di Kevin O’Regan

Recensione di Stefano Comito

Kevin O’Reagan in questo libro propone la sua teoria rivoluzionaria della coscienza e della percezione visiva. La sua concezione è definita da lui stesso: teoria sensorimotoria ed appartiene all’ala deviazionistica della scienza cognitiva. Oggi, nelle scienze cognitive prevale la tesi che, secondo alcuni “dissenzienti” ed “eterodossi” è diventata un’ideologia, prevede che ogni processo cognitivo e percettivo sia possibile grazie alla capacità del cervello di elaborare l’informazione e costruire la rappresentazione tridimensionale e stabile del mondo esterno, come nel caso della visione (di cui parlerò); inoltre, sempre secondo questa ideologia, il cervello è necessario e sufficiente per spiegare l’esperienza conscia, basta semplicemente cercare i correlati neurali della coscienza fenomenica che il nostro psicologo definisce con il termine di pura sensazione.

Nella prima parte del libro O’Reagan tratta il problema della percezione visiva (cap. 1-5), mentre nella seconda parte elabora la sua teoria radicale della coscienza (cap.6-15). Secondo la psicologia cognitiva classica, il cervello elabora l’informazione che proviene dall’occhio, generando una rappresentazione tridimensionale stabile e dettagliata del mondo esterno. Questa teoria, detta anche del “riempimento”, è stata accettata a partire dal fatto che, in realtà, l’occhio è imperfetto, come dimostra il fatto che nel campo visivo in particolari condizioni di illuminazione e angolazione, si produce quella che è definita: “macchia cieca”, cioè, una particolare zona del campo visivo dove non è possibile effettivamente vedere. Altra particolare caratteristica dell’occhio è nella parte posteriore della retina dove è prodotta l’immagine del mondo esterno (la cosiddetta “immagine retinica”) già scoperta da Keplero e Cartesio. Il problema è che l’immagine è capovolta, bidimensionale e povera nei dettagli: come facciamo, allora, a percepire la realtà in maniera sorprendentemente ricca e dettagliata? La scienza cognitiva assume, ancora una volta, che il cervello corregga questa povertà di informazione grazie alla sua capacità di elaborarla e produrre una rappresentazione interna del mondo esterno. Ecco, allora, il primo problema rilevato da O’Reagan: se la mente elabora la rappresentazione del mondo, deve esserci qualcuno all’interno, un occhio della mente, che scruta questa rappresentazione o immagine pittorica. È la cosiddetta “fallacia dell’omuncolo” che nel teatro cartesiano della nostra mente osserva l’immagine del mondo esterno e ci porta sul crinale pericoloso di un regresso all’infinito (chi guarda l’immagine nella mente dell’omuncolo? e così via…). Preso atto del “disastro dell’occhio” (pag.3), O’Reagan teorizza che la visione nasca dall’interazione con il mondo esterno, meglio, dalla qualità dell’interazione con esso sulla base di una concezione sensorimotoria alla percezione visiva. L’occhio ha capacità esplorative e, molto importante, l’informazione non è elaborata dal cervello, ma direttamente estratta dal mondo da parte del sistema visivo. La visione nasce dal rapporto dinamico tra il movimento dell’animale e l’input sensoriale, quest’ultimo, si modifica a seconda dell’interazione dell’agente cognitivo con esso. Questa teoria si basa sull’approccio ecologico dello psicologo americano J.J. Gibson che nel suo L’approccio ecologico alla percezione visiva (1979), parlava in maniera diretta della capacità da parte dell’organismo di estrarre l’informazione dall’ambiente esterno in maniera dinamica, attiva ed esplorativa, in quanto viviamo in un mare di informazioni acustiche, visive, tattili, uditive, olfattive. Anche il filosofo Alva Noe in Perché non siamo il nostro cervello, assume che il cervello non riassume in sé tutta la storia relativa alla percezione e che molto da dire rimane sulla relazione dinamica tra il cervello, il corpo, l’ambiente: non siamo “cervelli in una vasca” come sosteneva, invece, il filosofo Hilary Putnam e come è raccontato nel celebre film di fantascienza, The Matrix. Niente paura, il mondo non è un’illusione prodotta dall’attività del cervello, ma è la nostra casa.

O’Reagan durante una conferenza Talk

Dopo avere fatto propria la distinzione di Ned Block tra coscienza d’accesso e coscienza fenomenica, nella seconda parte del libro O’Reagan applica la teoria sensorimotoria alla spiegazione di quest’ultima, l’hard problem dei filosofi, che O’Reagan definisce con il termine di “pura sensazione”. La “pura sensazione è qualsiasi cosa le persone riferiscono quando parlano dei più fondamentali aspetti della loro esperienza…quello che i filosofi chiamano qualia, la qualità fondamentale dell’esperienza o “ciò che si prova in essa” (pag. 142). L’approccio dominante ritiene che si debbano cercare i correlati neurali della coscienza fenomenica. Invece, per O’Reagan, non è possibile trovare i neurotrasmettitori fondamentali dell’esperienza perché è incommensurabile il divario tra i meccanismi cerebrali e le pure sensazioni; anche postulare i sensatomi (atomi di sensazione), cioè, i mattoni fondamentali della coscienza fenomenica (il corrispettivo della massa, del peso e della gravità nelle scienze fisiche) renderebbe necessario spiegare perché proprio quei meccanismi neurali generano quel particolare tipo di fenomenicità e non un altro: “Ci sono centinaia di articoli nella letteratura sulla coscienza che propongono meccanismi altisonanti come “la riverberazione cortico-talamica”, le “oscillazioni sincroniche” diffuse, “i fenomeni di gravità quantistica nei microtubuli neurali…ognuno di quei meccanismi, non importa quanto altisonante sia, lascerà sempre aperta un’altra questione: perché il meccanismo produce questa sensazione piuttosto che un’altra?” (pag.150). O’Reagan teorizza che anche la coscienza fenomenica nasca sulla base della qualità della nostra interazione con il mondo esterno, cioè, delle differenti cose che facciamo quando entriamo in relazione con l’ambiente sulla base di astratte leggi sensorimotorie; di conseguenza la fenomenicità non è generata dal nostro cervello, anche se questo è necessario per interagire in maniera efficiente con il mondo. Per O’Reagan i qualia non sono ineffabili e non sono più un mistero, anzi, c’è un senso per cui non esistono nemmeno (come sostiene Dennett), ma dobbiamo in qualche modo rendere giustizia del sentire comune che teorizza l’esistenza dell’esperienza della pura sensazione e il nostro psicologo lo fa all’interno di una cornice che in futuro potrà essere scientifica.

L’approccio sensorimotorio alla coscienza e alla percezione si colloca all’interno del contesto più generale della teoria della scienza cognitiva incorporata (embodied), situata (embedded) che si concludono con la riscoperta del corpo e dell’ambiente. Queste posizioni ritengono si debba dare una svolta decisiva alle scienze cognitive, perché il cervello non è il luogo giusto dove collocare l’esperienza conscia e si spingono più in là teorizzando l’estensione delle nostre facoltà cognitive al di là della frontiera costituita dalla nostra pelle, il loro potenziamento e la diffusione nell’ambiente esterno, anche a scapito dell’immagine tradizionale dell’essere umano.

Il resto di niente. La storia di Eleonora Pimentel Fonseca

Più elevato il sogno,  più fiera la sofferenza

E’ quanto afferma nel romanzo Il resto di Niente Cirillo, uno tra gli eroi della repubblica napoletana, instaurata nel gennaio 1799 sulla scia della campagna napoleonica in Italia, rivolgendosi ad Eleonora Pimentel Fonseca, tra le principali  protagoniste di quella fase storica, la realizzazione di un sogno di libertà che ebbe vita breve e portò via la vita di molti patrioti.

Eleonora Pimentel Fonseca, intellettuale e scrittrice, fu una rivoluzionaria e fu impiccata nell’agosto del 1799, quando a Napoli si instaurarono nuovamente i Borboni e i repubblicani furono condannati a morte. Tra gli ultimi pensieri, prima di essere impiccata: “Servirà un giorno ricordare tutto questo?”.

Eleonora, però, non era nata a Napoli ma era portoghese. Arrivata a Napoli bambina con la sua famiglia, decise di appartenere a quella città, a Castel Sant’Elmo, a Toledo e ai vicoli straripanti di gente, al mare scintillante e al Vesuvio tanto bello quanto indifferente. Alla grandezza e alla povertà di quella capitale del Regno dei Borboni, già alla fine del Settecento centro di una struggente bellezza.

Lo scrittore Enzo Striano (1927-1987) tratteggia Eleonora Pimentel Fonseca in modo delicato e mai retorico, tra storia e letteratura. Enzo Striano accompagna la piccola Lènor nel suo arrivo a Napoli durante la feste della Piedigrotta: «Fu terrorizzata. Non aveva mai visto tanto e così vario clamore, né visto simile folle. La carrozza faticava a muoversi […] Un urlìo continuo, ritmato incessantemente dallo scuotere secco di mille tamburelli a sonaglia, dal soffiare di mille fischietti, dal frenetico strofinio di mille pentole […] Vide un uomo con sudicio berretto bianco e grembiule di cuoio che bolliva maccheroni su un fornello quasi in mezzo alla via. Rimase incantata per la velocità con la quale colui toglieva dal fuoco uno dei pentoloni che vi fumavano, ne rovesciava l’acqua, appiccicosa, biancastra, senza far cadere neppure un filo della pasta, che poi serviva, con rapidità impressionante, nei piatti di stagno degli avventori che allungavano il braccio nella ressa».

Fin da bambina Lènor mostra una propensione e un interesse per gli studi umanistici e scientifici; arrivata all’adolescenza inizia a comporre poesie che legge nei salotti dell’aristocrazia di Napoli e a Corte, al cospetto dei sovrani Ferdinando IV e Maria Carolina.

Enzo Striano, attraverso la descrizione della vita di Lènor negli ambienti vicini alla Corte, elabora un affresco della Napoli di fine Settecento dove avevano iniziato a diffondersi largamente idee e principi di matrice illuminista.

Eleonora Pimentel Fonseca studia Genovesi, Filangeri e segue le notizie che provengono dal resto del mondo: la rivoluzione americana e la pubblicazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, gli avvenimenti in Francia dove il nuovo re Luigi XVI stava per essere travolto (e ghigliottinato) dalla Rivoluzione del 1789.

Lènor si allontana sempre più dalla Corte: fiorisce in lei una visione del mondo che si oppone ad un potere che sfrutta l’ignoranza e la debolezza della maggioranza del popolo e abbraccia un progetto che avrebbe dovuto coinvolgere gli intellettuali illuminati nella missione di liberare il popolo. Ma Eleonora si accorge che non è così semplice e che spesso è proprio quel popolo da liberare che si trasforma nel nemico più violento.

Nelle pagine del romanzo, la Grande Storia si intreccia alla vicenda privata di Lènor che, rimasta senza la mamma e in condizioni economiche precarie, decide di sposarsi con un esponente della piccola nobiltà napoletana. Fu un’esperienza agghiacciante per la sensibile e colta protagonista, segnata dalla violenza domestica e drammaticamente dalla perdita del piccolo figlioletto. Lènor, con il sostegno del padre, divorzia e si dedica a quello che viene descritto nel libro “fare come gli uomini: partorire con il cervello”.

 Enzo Striano tratteggia mirabilmente il personaggio di questa giovane donna: attraverso i suoi flussi di coscienza possiamo affacciarci nella sua anima per leggerne i turbamenti, i dubbi, le riflessioni.

 I lazzari, il popolo basso, sono il personaggio corale al centro del romanzo: «Anche quelli sono popolo, Lènor. Non ci capiscono perché vivono nell’arretratezza, nella sporcizia. Ci odiano. Hanno paura anche di noi. Ma noi dobbiamo lavorare anche per loro: noi abbiamo avuto tutto, loro niente».

Proclamata la Repubblica, Eleonora Fonseca dirige il giornale “Il Monitore Napoletano”, organo di stampa ufficiale del nuovo Governo. Scrive articoli educativi con la missione di formare il popolo: per lei la cultura è missione civile perché solo l’istruzione può liberare ed elevare i lazzari.

 Il suo entusiasmo però si contrappone ad un senso del Fato inevitabile che viene espresso dal personaggio di Pulcinella: «Pulcinella non è un tipo allegro. Sa le cose nascoste.  Ca la Repubblica adda fernì, come finisce tutto, ca ll’uommene se credono de fa chesto, de fa’ chello, de cagnà lo munno, ma non è vero niente. Le cose cambiano faccia, non sostanza: vanno sempre come hanno da ì. Comme vò lo Padrone. Lo munno non po’ girà a la mano smerza. Lo sole spunta tutte li mmattine e poì scenne la notte, la vita è ‘na jurnata che passa: viene la morte e nisciuno la po’ ferma’. Perché è de mano de lo Padrone: di Dio. Pulcinella queste cose le ha sapute sempre, come volete che si metta a fare il giacobino? Lo po’ pure fa’, ma solo per far ridere, per soldi. Isso non ce crede».

I lazzari vogliono essere lasciati in pace: «Sempre il vecchio problema: s’ha diritto di far felici gli altri imponendogli quella che riteniamo sia felicità? Felicità comporta sacrifici, s’ha diritto ad imporli a chi pensa non valga la pena di farli? Mettetevi le scarpe, imparate il gergo repubblicano, fatevi ammazzare per cacciare i Borboni, i Ruffo, i preti, l’ignoranza (e così regalate alla Gran Repubblica Madre i palazzi del re, Capodimonte, Ercolano), studiate, diventate colti. Leggete Genovesi, Filngieri, distruggete Pulcinella, san Gennaro, vicoli, bassi, la vostra vita randagia».

 Sullo sfondo la Gran Repubblica Madre, la Francia, che dopo aver rapinato risorse dalla Repubblica Napoletana, abbandona i patrioti al loro tragico destino.

 Eleonora Fonseca nel suo ultimo giorno di vita chiese in prigione una tazza di caffè. Probabilmente il suo ultimo pensiero davanti al boia è stata la soddisfazione di aver compiuto il suo dovere.

 Il nostro dovere, oggi, è ricordarla e farla vivere nella nostra storia.

E ricordare il romanzo di Enzo Striano, Il resto di niente.

 Come si dice a Napoli, o resto è niente.

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(articolo di Eleonora Corgiolu)

Liberazioni di genere, liberazioni animali

Olympe de Gouges fu l’autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Morì ghigliottinata nel 1793

Uomo, sei capace di essere giusto? E’ una donna che te lo domanda. Tu non la priverai almeno di questo diritto. Dimmi, chi ti ha concesso la suprema autorità di opprimere il mio sesso? La tua forza? Il tuo ingegno? […]. Bizzarro, cieco, gonfio di scienza e degenerato, in questo secolo illuminato e di sagacia, nell’ignoranza più stupida, vuole comandare da despota su un sesso che ha ricevuto tutte le facoltà intellettuali; pretende di godere della rivoluzione, e reclama i suoi diritti all’uguaglianza

Queste parole sono tratte dal preambolo alla Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, scritta da Olympe de Gouges durante gli anni della rivoluzione francese, quando i sostenitori degli ideali di libertà e fratellanza avevano dimenticato una fetta considerevole della popolazione. Per la gentilezza fatta nell’aver fatto notare la distrazione, Olympe de Gouges è stata ghigliottinata nel 1793.

La storia delle donne è una storia di battaglie appassionate, sofferte e disperate per rivendicare diritti e dignità; noi raccogliamo con gratitudine i frutti di chi ha combattuto prima di noi, per noi. Ma noi afferriamo anche quella staffetta che la storia ci pone e ci assumiamo la precisa responsabilità morale di non accontentarci delle briciole, di non accettare una parità imperfetta e superficiale.

 Il noi indica tutti coloro che rappresentano la parte sana della società umana.

Perché lottare per i diritti delle donne significa lottare per i diritti di tutta la società. Come affermò in un discorso pronunciato nel 1912 la rivoluzionaria Rosa Luxemburg: “Un secolo fa, il francese Charles Fourier, uno dei primi grandi profeti degli ideali socialisti, scrisse queste memorabili parole: “In qualunque società, il grado di emancipazione femminile è la naturale misura dell’emancipazione generale”. Ciò è assolutamente vero per la nostra attuale società. L’attuale lotta di massa per i diritti politici delle donne è solo un’espressione e una parte della generale lotta del proletariato per la liberazione. In questo risiede la sua forza e il suo futuro .

 Una lunga tradizione che trova uno dei suoi massimi esponenti in Aristotele ha relegato la donna alla materia, all’irrazionalità in contrapposizione all’uomo, considerato invece l’espressione della ragione.

 Con la donna tra gli esseri irrazionali sono stati inseriti anche popoli diversi (un esempio paradigmatico, i nativi americani) e gli animali. L’Altro, la diversità è stata nella storia sempre considerata inferiore, oppure si è cercato di assimilarla. Probabilmente qui sta la frattura: la differenza infatti non deve mai implicare discriminazione né livellamento: riconosciuta come tale deve essere valorizzata e rispettata.
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Parresia socratica: pensiero e vita in Foucault e Arendt

(di Eleonora Corgiolu)

«Io stimo tanto più un filosofo quanto più egli è in grado di dare un esempio. Non vi è dubbio che con l’esempio egli possa portare dietro di  sé popoli interi […]. Ma l’esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemente con dei libri, a quel modo quindi che insegnavano i filosofi della Grecia». La citazione è tratta da Schopenhauer come educatore, uno dei saggi appartenenti alle Considerazioni inattuali di Friedrich Nietszche. Trasformare la ricerca filosofica in una testimonianza di vita si può realizzare attraverso una continua analisi di sé: unico antidoto per salvarsi dai meccanismi alienanti che si infiltrano e logorano il mondo della vita. Questo concetto di cura di sé è intrecciato al ruolo della parresia, parola che possiamo tradurre dal greco con l’espressione “parlar franco”. Su questo tema è possibile leggere la trascrizione di un seminario tenuto da Foucault  nel 1983 e intitolato Discorso e verità nella Grecia antica (con una bella introduzione di Remo Bodei).

L’obiettivo di Foucault è affrontare il problema di un’etica della verità attraverso la problematizzazione del concetto di parresia dal V sec a. C fino alle origini del cristianesimo, cioè attraverso un’analisi del processo che ha portato a riflettere su certe pratiche ed esperienze prima accettate in modo acritico. La parresia è descritta come un gioco tra il parresiastes, colui che dice la verità, e l’interlocutore: «la funzione della parresia non è di dimostrare la verità a qualcun altro ma è quella di esercitare una critica. Una critica dell’interlocutore o anche di se stesso» (Discorso e verità, pag.8). Nella prima lezione , intitolata “Significato ed evoluzione della parola parresia”, Foucault distingue due tipi di parresia: in senso dispregiativo, quando il termine indica dire tutto ciò che si ha in mente; in senso positivo, quando parresia significa dire la verità, intesa come perfetta coincidenza tra opinione e verità. In questo senso, il parresiastes è caratterizzato da delle precise qualità morali, in primis il coraggio di esporsi al pericolo. Infatti, scrive Foucault, il parresiastes «rischia la vita per dire la verità invece di riposare sulla sicurezza di una vita in cui la verità resta inespressa[…] egli preferisce essere uno che dice la verità piuttosto che un essere umano falso con se stesso» (Ibidem, pag. 7).
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L’origine del COVID-19. Nel 2012, David Quammen la spiegava così

Questo è quello che scriveva, nel 2012, lo scrittore e divulgatore scientifico David Quammen, nel suo famosissimo “Spillover. L’evoluzione Delle Epidemie“.  Nessun laboratorio segreto, nessun complotto. La prossima pandemia, il Big One, per Quammen sarebbe nata o in mercato cittadino della Cina meridionale o in una foresta equatoriale. Per motivi ben noti alla comunità scientifica e all’ecologia, che lo scrittore delineava efficacemente.
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In un elenco dei momenti topici e più ansiogeni di questa saga, oltre a Machupo non possono mancare Marburg (1967), Lassa (1969), Ebola (1976, con un nuovo coinvolgimento in prima persona di Karl Johnson), HIV-1 (riconosciuto indirettamente nel 1981, isolato nel 1983), HIV-2 (1986), Sin Nombre (1993), Hendra (1994), influenza aviaria (1997), Nipah (1998), febbre del Nilo occidentale (1999), SARS (2003) e la tanto temuta ma in ultima analisi poco grave influenza suina (2009). Ci sono più drammi e virus in questa storia di quanti ne ospitasse la povera cavalla di Vic Rail.

Si potrebbe pensare che questa lista sia una sequenza di eventi tragici ma non correlati, una serie di sfortunate coincidenze che ci hanno colpito per motivi imperscrutabili. Messa così, Machupo, HIV e SARS sono, in senso sia figurato sia letterale, «calamità naturali», dolorosi accidenti alla pari di terremoti, eruzioni vulcaniche e meteoriti, di cui si possono forse minimizzare le conseguenze ma che rimangono inevitabili. È una posizione passiva e quasi stoica, ed è sbagliata.

Che sia chiaro da subito: c’è una correlazione tra queste malattie che saltano fuori una dopo l’altra, e non si tratta di meri accidenti ma di conseguenze non volute di nostre azioni. Sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica e una sanitaria. Sommandosi, le loro conseguenze si mostrano sotto forma di una sequenza di malattie nuove, strane e terribili, che emergono da ospiti inaspettati e che creano serissime preoccupazioni e timori per il futuro negli scienziati che le studiano. Come fanno questi patogeni a compiere il salto dagli animali agli uomini e perché sembra che ciò avvenga con maggiore frequenza negli ultimi tempi? Per metterla nel modo più piano possibile: perché da un lato la devastazione ambientale causata dalla pressione della nostra specie sta creando nuove occasioni di contatto con i patogeni, e dall’altro la nostra tecnologia e i nostri modelli sociali contribuiscono a diffonderli in modo ancor più rapido e generalizzato. Ci sono tre elementi da considerare.

Uno. Le attività umane sono causa della disintegrazione (e non ho scelto questa parola a caso) di vari ecosistemi a un tasso che ha le caratteristiche del cataclisma. Tutti sappiamo come ciò avvenga a grandi linee: la deforestazione, la costruzione di strade e infrastrutture, l’aumento del terreno agricolo e dei pascoli, la caccia alla fauna selvatica (strano, quando lo fanno gli africani è «bracconaggio», quando lo fanno gli occidentali è uno «sport»), l’attività mineraria, l’aumento degli insediamenti urbani e il consumo di suolo, l’inquinamento, lo sversamento di sostanze organiche nei mari, lo sfruttamento insostenibile delle risorse ittiche, il cambiamento climatico, il commercio internazionale di beni la cui produzione comporta uno o più problemi sopradescritti e tutte le altre attività dell’uomo «civilizzato» che hanno conseguenze sul territorio. Stiamo, in poche parole, sbriciolando tutti gli ecosistemi. Non è una novità recentissima. Gli esseri umani hanno praticato gran parte di queste attività per molto tempo, anche se a lungo con l’ausilio di semplici strumenti. Oggi però siamo sette miliardi e abbiamo per le mani moderne tecnologie, il che rende il nostro impatto ambientale globale insostenibile. Le foreste tropicali non sono l’unico ambiente in pericolo, ma sono di sicuro il più ricco di vita e il più complesso. In questi ecosistemi vivono milioni di specie, in gran parte sconosciute alla scienza moderna, non classificate o a malapena etichettate e poco comprese.

Due. Tra questi milioni di specie ignote ci sono virus, batteri, funghi, protisti e altri organismi, molti dei quali parassiti. Gli specialisti oggi usano il termine «virosfera» per identificare un universo di viventi che probabilmente fa impallidire per dimensione ogni altro gruppo. Molti virus, per esempio, abitano le foreste dell’Africa centrale, parassitando specifici batteri, animali, funghi o protisti, e questa specificità limita il loro raggio d’azione e la loro abbondanza. Ebola, Marburg, Lassa, il vaiolo delle scimmie e il precursore dell’HIV sono un campione minuscolo di quel che offre il menù, della miriade di altri virus non ancora scoperti che in alcuni casi stanno quieti dentro ospiti a loro volta ignoti. I virus riescono a moltiplicarsi solo all’interno delle cellule vive di qualche altro organismo, in genere un animale o una pianta con cui hanno instaurato una relazione intima, antica e spesso (ma non sempre) di mutuo soccorso. Nella maggioranza dei casi, dunque, sono parassiti benevoli, che non riescono a vivere fuori del loro ospite e non fanno troppi danni. Ogni tanto uccidono una scimmia o un uccello qua e là, ma le loro carcasse vengono rapidamente metabolizzate dalla giungla. Gli uomini non se ne accorgono quasi mai.

Tre. Oggi però la distruzione degli ecosistemi sembra avere tra le sue conseguenze la sempre più frequente comparsa di patogeni in ambiti più vasti di quelli originari. Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale ha due possibilità: trovare una nuova casa, un nuovo tipo di casa, o estinguersi. Dunque non ce l’hanno con noi, siamo noi a esser diventati molesti, visibili e assai abbondanti. «Se osserviamo il pianeta dal punto di vista di un virus affamato» scrive lo storico William H. McNeill «o di un batterio, vediamo un meraviglioso banchetto con miliardi di corpi umani disponibili, che fino a poco tempo fa erano circa la metà di adesso, perché in venticinque-ventisette anni siamo raddoppiati di numero. Siamo un eccellente bersaglio per tutti quegli organismi in grado di adattarsi quel che basta per invaderci» 7 I virus, soprattutto quelli di un certo tipo, il cui genoma consiste di RNA e non DNA e dunque è più soggetto a mutazioni, si adattano bene e velocemente a nuove condizioni.

Tutti questi fattori non hanno portato solo all’emergere di nuove malattie e di tragedie isolate, ma a nuove epidemie e pandemie, di cui la più terribile, catastrofica e tristemente nota è quella provocata da un virus classificato come HIV-1 gruppo M (ne esistono altri undici parenti), cioè quello che causa la maggior parte dei casi di AIDS nel mondo. Ha già ucciso trenta milioni di persone dalla sua comparsa una trentina di anni fa e oggi altri trentaquattro milioni circa sono infetti. Nonostante la sua diffusione planetaria, pochi conoscono la fatale combinazione di eventi che portò il virus HIV-1 gruppo M a uscire dalla remota giungla africana dove i suoi antenati stavano ospiti delle scimmie, in apparenza senza causare danni, e a entrare nel corso della storia umana. Ben pochi sanno che la vera storia dell’AIDS non inizia tra la comunità omosessuale americana nel 1981 o in qualche metropoli africana negli anni Sessanta, ma cinquant’anni prima, alle sorgenti di un fiume chiamato Sangha, nella giungla del Camerun sudorientale. Ancora meno hanno avuto notìzia delle sorprendenti scoperte degli ultimi anni, che ci hanno permesso di aggiungere dettagli alla storia e di rivedere le nostre posizioni. Ne parleremo nel capitolo 8; però sappiate fin d’ora che se anche l’argomento delle zoonosi fosse limitato all’emergere dell’AIDS basterebbe da solo a richiedere seria attenzione e sforzi da parte nostra. Ma come abbiamo già visto, c’è molto altro in ballo: pandemie e catastrofi sanitarie del passato (la peste bubbonica, l’influenza), del presente (la malaria, l’influenza) e del futuro.

Le malattie del futuro, ovviamente, sono motivo di grande preoccupazione per scienziati ed esperti di sanità pubblica. Non c’è alcun motivo di credere che l’AIDS rimarrà l’unico disastro globale della nostra epoca causato da uno strano microbo saltato fuori da un animale. Qualche Cassandra bene informata parla addirittura del Next Big One, il prossimo grande evento, come di un fatto inevitabile (per i sismologi californiani il Big One è il terremoto che farà sprofondare in mare San Francisco, ma in questo contesto è un’epidemia letale di dimensioni catastrofiche). Sarà causato da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale?

[…]

Due ricercatori dell’Università di Edimburgo hanno pubblicato nel 2005 uno studio che ha esaminato 1407 specie note di patogeni umani: ha scoperto che il 58 per cento sono di origine animale. Solo 177 sul totale si possono considerare emergenti o riemergenti, e tre quarti dei patogeni emergenti provengono dagli animali. In parole povere: ogni nuova e strana malattia, con grande probabilità, arriva dagli animali. Un altro studio condotto in parallelo dal gruppo di Kate E. Jones, della Zoological Society di Londra, è stato pubblicato su «Nature» nel 2008. Gli autori esaminavano più di trecento malattie infettive emergenti (EIDS, Emerging Infections Diseases, nella scrittura abbreviata dell’articolo) apparse tra il 1940 e il 2004, interrogandosi sulle variazioni di tendenza nonché sui pattern spaziali del fenomeno. Benché la loro lista di «eventi» fosse indipendente dall’elenco di patogeni dei ricercatori di Edimburgo, Kate Jones e colleghi trovarono quasi la stessa percentuale di zoonosi (il 60,3 per cento). «Inoltre il 71,8 per cento di questi eventi EIDS zoonotici erano causati da patogeni provenienti da animali selvatici», 8 distinti quindi da quelli domestici. Essi citavano Nipah in Malesia e la SARS nella Cina meridionale. Inoltre, la maggiore incidenza delle malattie associate alla fauna selvatica, a differenza di quelle dovute agli animali domestici, tendeva ad aumentare nel tempo: «Le zoonosi di origine selvatica rappresentano la più consistente e crescente minaccia alla salute della popolazione mondiale tra tutte le malattie emergenti» è la conclusione degli autori. «Le nostre scoperte mettono in evidenza la necessità ineludibile di monitorare lo stato di salute globale e di identificare nuovi patogeni potenzialmente trasmissibili all’uomo nella fauna selvatica come misura preventiva nei confronti di future malattie emergenti». Sembra una proposta ragionevole: teniamo d’occhio gli animali selvatici, perché mentre li stiamo assediando, accerchiando, sterminando e macellando, ci passano le loro malattie.

Figlia del cielo e della terra

(di Elisa Scirocchi)


È così, per tutti.

Se ci pensiamo bene la mitologia è un po’ come il racconto che nostro nonno ha del giorno della nascita del suo primo nipote. Fantasmagoriche storie di amori, punizioni e tradimenti, raccontano il nostro passato, descrivono la natura, i vizi degli umani, anticipano il nostro presente. Eccallà. Reduci della vita ci troviamo a riflettere sul tempo, o meglio ancora sulla memoria. Cosa vuol dire ricordare? Cosa rimane nella nostra memoria, al netto di ciò che ci sforziamo di cancellare con un’enorme gomma metà rossa e metà blu? Che rapporto abbiamo con i nostri ricordi? Lontani da teorie psicologiche e tesi medico-scientifiche, rimane la speculazione filosofica. Poco male, no?

Mnemosiune (Μνημοσύνη – memoria) figlia di Urano (Οὐρανόςcielo) e Gea (Γῆ – terra) si staglia nelle nostre vite come collante tra le due dimensioni. E mentre cerchiamo di stare “con i piedi per terra” ci ritroviamo rapiti dai ricordi e con “la testa fra le nuvole”. Nacque dalla terra bagnata delle nostre giornate (a volte piovose emotivamente) e dagli arcobaleni colorati dei nostri pensieri più evanescenti. Vissuta prima degli Dei dell’Olimpo al fianco dei Titani, fu sorella di Cronos (Κρόνος –  tempo). Caduta in una tresca con Zeus generò le Muse, e tutta la poesia in senso lato che ne deriva.

Non vi sembra illuminante?

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Il viandante di nome Ulisse e il tizio che guardava una finestra chiusa

(di Elisa Scirocchi)

Konstantinos Kavafis nasce ad Alessandria D’Egitto quando l’Italia aveva da poco dato alla luce il suo Regno dall’acerbo tricolore. Poi i viaggi, l’Inghilterra, la Turchia, la Grecia, e di nuovo Alessandria d’Egitto per tornare ad essere lieve più della terra. Nella lingua greca, tanto cara al nostro poeta, il verbo “fare” si traduce con la parola “ποιέω”. Viene da sé che la poesia altro non sia che il Fare per eccellenza.

Espressione profonda dell’umano sin dalla notte dei tempi la poesia a colpi di armonie ha raccontato a noi stessi, poeti o fruitori, chi siamo. E se Croce vedeva giusto tra le sue pagine[1] non c’è nulla che ci allontani per qualità d’animo da un Poeta se non una maggiore capacità, presente nel suddetto Poeta, di trasferire l’intuizione artistica in espressione mediante un’immaginifica estrinsecazione esterna. Insomma, fuori dalla boria del linguaggio accademico, siamo tutti poeti di noi stessi, filosofi dell’umanità.

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Thomas Nagel, Questioni mortali. Una recensione

(di Stefano Comito)

Thomas Nagel è un filosofo serbo, naturalizzato americano, il cui campo di interesse spazia dall’etica fino alla filosofia della mente, all’interno dell’ambito di indagine della filosofia analitica. Tra i suoi scritti più importanti si devono annoverare, tra gli altri, saggi come: Uno sguardo da nessun luogo, La possibilità dell’altruismo e anche il più recente La mente e il cosmo. Quest’ultima opera è una critica radicale al materialismo, che permea di sé la scienza, e alla possibilità del fisicalismo di fornire una spiegazione esauriente del cosmo, a partire dall’assunzione dell’esistenza di esseri senzienti dotati di caratteristiche mentali.

Questioni mortali è un’opera del 1979, ma è ancora attuale al giorno d’oggi dopo quarant’anni, in quanto affronta problematiche che sono ancora vive all’interno del dibattito filosofico odierno, anzi, possiamo dire che il nostro filosofo abbia precorso i tempi. Basti pensare al suo anti-riduzionismo in filosofia della mente che resiste agli attacchi di qualsiasi filosofia riduzionista o eliminativista, vedi Daniel Dennett o Paul e Patricia Churchland, nei riguardi dell’indagine nel campo degli studi sulla coscienza. Non solo, è contenuta all’interno dell’opera, una strenua opposizione all’etica utilitarista o consequenzialista, che dominava il panorama etico-politico negli anni ’70 e una critica molto aspra nei riguardi dell’intervento militare statunitense in Vietnam accusato di avere sacrificato la vita di migliaia di innocenti, donne, bambini e popolazione inerme, in virtù di obiettivi di carattere più generale come l’esito finale del conflitto. Questioni mortali affronta diverse problematiche: la morte, l’assurdo, il sesso, la sorte morale, l’etica, il problema mente-corpo.
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“Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano. Una recensione per una filosofia a venire

(nella foto, HIATUS, di Dino Valls)

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di Alessandro Stella

L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant”. L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Se Pascal voleva dire che siamo precari, deboli, “sapienti sul mondo” ma così tremendamente ignoranti su noi stessi, ignari delle radici del nostro stesso pensare e vivere, dei poteri e legami che ci torturano e deformano, allora aveva ragione. Siamo degli illusi nella nostra volontà di controllo, nel nostro autoinganno quotidiano biopolitico (i “poteri” sfruttano la nostra illusione di libertà). Ma è un autoinganno anche psicologico (con l’illusione del controllo ci difendiamo dall’angoscia e dal dolore), l’illusione di possedere una libertà e assieme ad essa una mente-ragione separata dal resto, che così può ordinare noi stessi, il mondo, e cambiarlo, scovare i problemi e illuminarlo. Ma Pascal, il “misantropo sublime” (così lo chiamava l’illuminista Voltaire) si sbaglia sul “pensiero”. L’uomo non è un pensiero. E’ un corpo, un corpo che comunica in tante maniere, qualche volta anche col pensiero che, a stento e con dolore, diventa parola (o succede viceversa?). Pascal, che combatteva il pensiero di Cartesio, ne era anch’esso vittima, vittima del suo stesso dualismo, vittima dell’odioso dualismo “mente-corpo”. Lo stesso dualismo che ammorba il pensiero occidentale e la filosofia. Lo stesso dualismo di quando i media dicono che Michela Marzano sia un “cervello in fuga”, lei che è diventata un docente ordinario in Francia. Nel suo libro, giustamente si arrabbia per questo cliché giornalistico, e rivendica il suo corpo, lei che per tanto tempo l’ha bistrattato. “Volevo essere una farfalla”, non è un libro sull’anoressia. E’ un libro che solo in piccola parte parla del sintomo, l’anoressia, della “sua” anoressia, perché Michela lo sa benissimo, ogni anoressia è diversa ma è uguale, poiché, “non esistono anoressiche e bulimiche, esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa”. Questo toccante diario, questo flusso di coscienza di una vita intera, parla del malessere che ne è alla base, malessere a cui ognuno di noi risponde come può, alcuni (spesso donne, e sempre più uomini) con i “disturbi alimentari”. Ed è un libro che parla di filosofia, ma di una filosofia che viene (o che, finalmente, ritorna). Una filosofia che si occupa della vita e affronta il dolore, senza finalmente rimuoverlo.

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Come uscire dalla caverna. La filosofia di Westworld

 

Sotto l’onnipresente musica del Debussy di “Reverie”, che contribuisce a creare un paesaggio onirico in cui si ridefinisce il concetto stesso di realtà, gli sceneggiatori/divinità Jonathan Nolan e Lisa Joy costruiscono un palcoscenico teatrale in cui uomini e macchine si scambiano i propri copioni/programmazioni, ed in cui si riedificano, come da buona tradizione della letteratura classica e fantascientifica, l’identità, il concetto di soglia, quello di autocoscienza e di libertà. Westworld è uno dei più meravigliosi prodotti di letteratura cinematografica degli ultimi anni,  travalicando l’etichetta di “fantascienza” per approdare ad un racconto esistenziale sui confini dell’umano: e come ben si sa, vivere ai confini significa rendersi conto dei vari “interregni” tra una zona e l’altra. Per guardarsi finalmente con occhi diversi.   (ATTENZIONE, SEGUE SPOILER)
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Perchè un referendum come questo è un grande laboratorio psicosociale

Recalcati alla Leopolda illustra le sue "ragioni" per il sì. Psicanalizzando e quasi patologizzando le ragioni del NO, ma non le sue

Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un giocattolo della tua “grande ragione” (Friedrich Nietzsche, Dei dispregiatori del corpo, in Così parlò Zarathustra)

Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per “la gente comune” e le “sane opinioni del popolo” […] invece di indignarsi o di prendere gioco, a guisa dei “mezzo addottrinati”, sempre pronti a “fare i filosofi” e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune” (Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane)

Il referendum costituzionale italiano, non molto dissimile da quello pseudo referendum che ha animato la campagna dualista delle elezioni americane, con la logica binaria dei sì e dei no, e con l’accavallarsi di “pseudo ragioni” da tutte le parti coinvolte, è un prezioso laboratorio di psicologia sociale che ci riporta ad un dato di fatto che affiora prepotentemente proprio in questi casi, ma che è onnipresente nelle nostre vite di ogni giorno. Questa verità riguarda il proprio posizionamento e il concetto stesso di “decisione”. In questa giostra, sono coinvolte persone più o meno istruite, ma il risultato è sostanzialmente invariabile. Una delle principali differenze tra intellettuali e “popolo” è che i primi motivano i propri pregiudizi in maniera sontuosa; il secondo non li motiva affatto o lo fa in maniera grossolana. In tutti e due i casi, altro non si fa che dare a se stessi e agli altri delle ragioni di precedenti scelte o pseudo-tali fatte sulla base d’impressioni o di altre componenti psicologiche e sociali. Queste giustificazioni posteriori cambiano a seconda del proprio capitale educativo, e perciò posson essere più o meno complesse, più o meno raffinate. Fatto sta che prima scegliamo, o ci avviciniamo nettamente alla scelta, poi la giustifichiamo, razionalizzando.
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