Akira Kurosawa, Barbarossa (Akahige, 1965)

Akira Kurosawa ha affrontato diverse volte il tema della “morte” (basti pensare all’episodio della donna della neve – Yukionna – in Dreams), ma in questa scena di “Barbarossa” raggiune un’impatto emotivo e simbolico senza precedenti. Il piccolo  Chobu, un poverissimo bambino che vive di piccoli furti, spinto dalla sua famiglia, ha ingerito veleno per topi per porre fine alla sua esistenza. “Barbarossa”, il medico filantropo della piccola e umile borgata, e i suoi due assistenti, cercano di salvarlo. A loro si uniscono le donne della borgata, che si affidano invece ad una vecchia tradizione giapponese.  La  morte è un pozzo buio, umido, di cui non si vede il fondo: come le donne, bisogna attaccarsi alla vita con ogni mezzo, con ogni fede, con ogni pretesto. Così la vede Akira Kurosawa, che pure tentò il suicidio, sopravvivendo, e che uscì dalla depressione con un altro film, Dersu Uzala, la straordinaria storia di un’amicizia ai limiti del mondo umano, un’amicizia che può riempire la vita. In Barbarossa, Akira affronta la problematica dell’ingiustizia sociale ed esplora due dei filoni narrativi preferiti: l’umanesimo e l’esistenzialismo. Il film è la trasposizione di un romanzo di Shūgorō Yamamoto, ed ha diversi riferimenti alla grande letteratura russa.

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