Martin Hengel, Ebrei, Greci e Barbari. Una recensione

Tempio di Oropos (Attica). Di qui proviene l'iscrizione del più antico ebreo ellenizzato della storia: "Mosco, figlio di Moschione, giudeo, in seguito a un sogno su ordine del dio Anfiarao e di Igea"

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Il presente studio, editato dall’autore nel 1981, è la meta a cui egli è arrivato dopo anni di intense ricerche compiute sulla storia giudaica; ricerche che hanno trovato forma di espressione nella rivista che da anni accoglie i più importanti studi sul versante storico del giudaismo, la Cambridge History of Judaism. Tale opera dunque non è altro che la riproposizione in forma più vasta, aggiornata e compita dei precedenti contributi che egli pubblicò su tale rivista. Erudito in discipline storiche e filosofiche, l’autore riprende un tema tanto caro nella sua precedente produzione letteraria: l’incontro-scontro culturale del giudaismo con l’ellenismo con particolare riferimento alla Palestina fino alla seconda metà del II sec. a.C. L’autore stesso afferma: “questo lavoro rappresenta in molti punti una continuazione della ricerca svoltavi. I nuovi reperti archeologici che continuano a venire alla luce, come pure i continui progressi della ricerca, forniscono un ricco materiale a questo scopo”. Il presente contributo si colloca perciò nella stessa prospettiva dei precedenti: il tema preso costantemente in questione dall’autore è “l’incontro tra il giudaismo e la cultura ellenistica” in tutti i suoi aspetti, anche filosofici. L’autore, professore di N.T. all’Università di Tubinga, tratta questo argomento con l’intento di chiarire questo tema limitatamente a “quel periodo della storia giudaica tuttora oscuro per la precarietà delle fonti, in quanto egualmente lontano per gli studiosi dell’Antico Testamento come per quelli del Nuovo“, dal momento che proprio in tale periodo “vennero posti i fondamenti decisivi per l’autocoscienza del popolo giudaico dell’«epoca neotestamentaria» e non solo della diaspora nell’area di lingua greca, ma anche della madrepatria, la Palestina”.

L’autore quindi affronta il periodo oscuro che va dalla campagna di Alessandro Magno fino  alla riforma ellenistica a Gerusalemme sotto Antioco IV Epifane, perché tale periodo rappresenta per il popolo giudaico la fase in cui esso ha consolidato una propria autocoscienza, in quanto si è sviluppato dal punto di vista sociale, culturale e religioso. Tale epoca assume per l’autore una particolare importanza perché si è realizzato un primo intenso contatto tra il giudaismo e la cultura ellenistica, ponendo al tempo stesso il fondamento di una diaspora ebraica di lingua greca. Ciò che l’autore vuole far capire al lettore è che proprio in tale periodo si sono formati i presupposti essenziali per intendere meglio il cristianesimo primitivo e l’ambiente in cui nacque. Non è possibile capire il cristianesimo senza rifarsi alle sue radici giudaiche, o meglio al giudaismo palestinese e a quello babilonese. È una vera e propria epoca di fioritura da una parte, perché l’interazione con l’elemento greco comporta per il giudaismo una crescita dal punto di vista culturale, sociale e religioso sia in Palestina che nella diaspora, mentre dall’altra è di transizione, dal momento che gli sviluppi posteriori del giudaismo, quelli che troviamo nella Palestina e nella diaspora dell’età neotestamentaria hanno affondato le loro radici proprio in tale epoca. In particolare lo studio di Hengel presenta in sintesi la storia della Palestina e degli Ebrei nell’età movimentata di Alessandro Magno e dei Diadochi, non solo  analizzando il complesso problema della ellenizzazione con i suoi aspetti sociali, politici, filosofici e religiosi, ma anche ripercorrendo l’ellenizzazione del giudaismo della diaspora in Egitto, Grecia, Asia Minore e Siria, nonché l’ingresso della nuova cultura in Palestina.

Bassorilievo di Demetra e Persefone. Ai misteri eleusini partecipavano indifferentemente greci, "barbari" e donne

Nel primo capitolo l’autore, trattando il periodo oscuro della storia “politica e sociale della Palestina all’epoca del primo ellenismo”, diviene consapevole della povertà delle fonti pervenuteci perché frammentarie e scarse “dato che nella nostra principale fonte d’informazione, Flavio Giuseppe, si intrecciano fittamente leggenda e resoconto storico”, per cui in certi tratti si è limitato “a tracciare un quadro appena abbozzato e in parte anche ipotetico, che dovrà essere riveduto in continuazione, in seguito a nuovi ritrovamenti”. Tuttavia questo periodo viene considerato creativo e vitale dal momento che “avvenne il primo intenso contatto della Palestina e dell’antico mondo giudaico con la superiore cultura ellenistica, la quale ne ha condizionato in maniera determinante il successivo sviluppo. Di qui il significato e l’importanza di questo periodo”. L’autore, partendo dalla descrizione storica della Palestina sotto l’impero di Alessandro Magno, durante le lotte dei diadochi fino alla conquista della Palestina ad opera di Antioco III, si sofferma sul problema della ellenizzazione all’epoca del primo ellenismo, evidenziando che col termine ellenizzazione del giudaismo si vuole indicare “la vicendevole compenetrazione di giudaismo e cultura ellenistica in epoca pre-maccabaica, cioè nei 160 anni tra il 333 e il 175 a.C.”. Sebbene le notizie relative sugli ebrei della Palestina e della diaspora sono frammentarie e sporadiche, in quanto “la letteratura giudaica che a noi rimane di quell’epoca è in fondo solo una «letteratura di tendenza» di carattere prettamente religioso-nazionalistico”, resta possibile dare una definizione chiara di giudaismo in patria palestinese e nella diaspora, includendone la religione, i costumi e la letteratura, mentre per quanto concerne i concetti di ellenismo ed ellenizzazione. L’autore sottolinea che col termine ellenismo non si vuole indicare solo un’epoca storica “quella compresa tra l’impresa di Alessandro (334) e la battaglia di Azio (31 a.C.)”, ma anche una cultura “ben definita che grazie al suo carattere espansivo cercò di integrare pure il giudaismo”. La concezione dell’ellenismo intesa come cultura mondiale,  che s’inculcò in tutto l’Oriente tramite le conquiste di Alessandro, viene ereditata da Droysen, trovando un certo fondamento anche in Plutarco, dal momento che Alessandro  non viene reputato solo un conquistatore del mondo, ma anche come “l’istruito filosofo educatore del mondo e «pacificatore del mondo», che «rese civili i re barbari», «fondò città greche tra i popoli selvaggi» e «insegnò leggi  e pace a tribù ignoranti e senza ordinamenti

Dopo la morte di Alessandro, prosegue l’autore, i suoi successori (diadochi e i re ellenistici) non ebbero l’obiettivo di diffondere la cultura greca “tra i loro sudditi orientali, ma piuttosto di consolidare  ed estendere il loro potere personale”. Essi non miravano a raggiungere l’unità culturale del nuovo e più vasto mondo «ellenistico»; al contrario essi attuarono una meschina politica esclusivamente «mercantilistica» di vicendevoli limitazioni (e accaparramenti) e si distrussero a vicenda in guerre suicide dalla morte di Alessandro fino alla definitiva vittoria da parte di Roma. Il fenomeno dell’ellenizzazione si estese anche alle classi popolari soprattutto in Siria e in Palestina “solo sotto la protezione di Roma, che si poté quindi fregiare di aver salvato l’eredità culturale greca. Soltanto Roma ha contribuito a determinare la vittoria dell’«ellenismo» anche in oriente, fino all’Eufrate”. Dal punto di vista culturale, si ebbe l’ellenizzazione dei cosiddetti  Barbari. Una testimonianza inerente all’argomento ce la dà Filone: “nel suo encomio all’imperatore Augusto, enumerandone i meriti, dopo aver accennato alla fine delle guerre civili, della pirateria e alla pacificazione di «popoli selvaggi come animali», mette in rilievo «l’ellenizzazione» di Barbari, usando per la prima volta in quest’occasione il verbo ἀφελληνίζειν in senso transitivo”. La filosofia e la cultura greca classica operava una netta distinzione tra Greci e Barbari: i barbari, a motivo del particolare gergo linguistico diverso da quello dei greci, erano considerati “semicivilizzati e primitivi che non facevano parte del mondo greco”, mentre i Greci, benché non fossero un popolo in senso stretto, si contraddistinguono “in una precisa forma di vita, in una cultura determinata dall’immagine dell’uomo libero e dalle istituzioni  politiche derivanti, come pure da giochi comuni e santuari interregionali”. Era molto vivo tra i greci il valore della libertà, a tal punto che “l’esperienza della lotta per la libertà contro i Persiani rafforzò il sentimento di unità e di superiorità”. Agli occhi dei Greci i barbari erano “considerati incolti, animaleschi, ostili verso gli stranieri, dispotici e schiavisti, superstiziosi, crudeli, vigliacchi e infedeli”. Aristotele, che accolse “la concezione del carattere servile dei Barbari (…), deve aver dato al giovane Alessandro il consiglio di trattare i Greci come un comandante fa con i suoi uomini, e i Barbari invece come un padrone con i suoi schiavi”.

Costituisce una sorta di vanto per gli ateniesi, in particolare per Platone nel Menesseno, il non avere nella loro progenie alcun progenitore fenicio o egiziano. Tale pregiudizio si perpetua anche in età ellenistica. A tal proposito Livio e Polibio affermano che “guerra eterna esiste e sempre continuerà tra i Barbari e tutti i Greci. A motivo della natura che non muta…! essi sono nemici”. Anche in campo politico-militare i greci detenevano la propria supremazia sui barbari. Soprattutto nel periodo “del «primo ellenismo» del sec. III a.C., il muro fra i dominatori greco-macedoni e i popoli soggetti era in larga misura invalicabile”, mentre “un certo cambiamento si ebbe col II a.C.”, perché “l’afflusso di nuovi immigrati greci dalla madrepatria si riduce notevolmente permettendo così agli Egiziani e ai Semiti «grecizzati» di far sentire in modo più consistente il loro influsso”. Da adesso in poi, per quanto riguarda il fenomeno dell’ellenizzazione sotto il profilo filosoficoesiste tutta una serie di documenti soprattutto filosofici che infrangono il tradizionale schema negativo Greci-Barbari per sottolineare il valore «umano» comune a tutti se non addirittura talvolta la superiorità dei «Barbari. Ciò che quindi accomuna il sofista Antifone, i cinici e gli stoici è il fatto che tutti gli uomini per natura sono uguali. Eratostene, maestro di Tolomeo IV, “protesta contro la divisione, allora ancora generalmente dominante, degli uomini in Greci e Barbari, contro il suggerimento di Aristotele che consigliava Alessandro di trattare i Barbari da schiavi, e loda il comportamento di Alessandro che giudicava gli uomini non per la loro origine, ma secondo la loro qualità”. L’idea cosmopolita dell’uomo come cittadino del mondo, sebbene sia originaria di Zenone, si evolve negli altri filosofi stoici di ascendenza barbara, a tal punto che questa idea si fonde con il sentimento patriottico dei Barbari. Un esempio eloquente si ha con Meleagro di Gadara, nel quale “si fondono l’orgoglio nazionale della sua origine siriaca e l’autodifesa contro il tentativo di disprezzare la sua discendenza non greca”.

Mosaico paleocristiano della navata centrale di Santa Maria Maggiore: Mosè disputa con i filosofi (episodio tratto dai testi di Filone di Alessandria)

Dal punto di vista religioso il periodo del primo ellenismo (III sec. a.C.) vede decadere la religione tradizionale. Infatti subentrò il culto greco-egiziano a Serapide, a Iside e a Dioniso. Il processo di ellenizzazione si compì con Filone, il quale ha saputo conciliare la cultura e la filosofia greca con la religione ebraica. Anche dal punto di vista linguistico ci fu un vero e proprio superamento di tale barriera con l’apprendimento della lingua greca. Infatti la koinè  riscosse un’importanza unica “in quanto costituiva il legame che univa tutti i «Greci» oltre i confini delle singole monarchie in tutto il mondo, dalla Battriana alla Massalia. Non il potere politico degli stati greci divisi e in lotta tra loro, ma la lingua comune era il fondamento ultimo della «cultura ellenistica» e per questo motivo non si spense nemmeno dopo la vittoria dei «Barbari» Romani e Parti, ma sopravvisse nei due imperi, anzi trovò compimento solo sotto il patrocinio della pax Romana”. Il barbaro poteva cambiare condizione sociale non tanto perché aveva appreso la cultura greca, quanto perché sapeva parlare e scrivere correttamente il greco: “questa «barriera linguistica» costituiva una «barriera sociale» e lo dimostra la disperazione di un collaboratore, probabilmente palestinese-semitico, che Zenone al termine del suo viaggio in Palestina nel 258 a.C. lascia a Ioppe senza il compenso pattuito, che fugge «in Siria», ossia all’interno del paese, giustificandosi: «per non morire di fame». Richiamato in Egitto, fu privato anche del salario minimo: «Così sono in angustia d’estate e d’inverno. Giasone mi ha ordinato di accettare in paga vino aspro. Ora mi trattano con disprezzo, perché sono un barbaro. Ti prego ora…, di imporre loro di darmi quanto mi spetta e che per il futuro mi diano tutta la paga perché non abbia a morire di fame per il fatto che non conosco in modo corretto la lingua greca»”.

Verso la metà del II sec. a.C. la situazione cambia a sfavore dei greci, sia da parte egiziana che giudaica. Ne è un esempio eclatante la denuncia di Tolomeo del Serapion di Menfi, aggredito dagli egiziani perché greco, nonché la insurrezione dei Maccabei che “va inquadrata nel tentativo di una rivolta «nazionale» contro la «penetrazione ellenistica» ovviamente sostenuta soprattutto dagli esponenti dell’aristocrazia giudaica aperti all’assimilazione”. Sempre da parte giudaica alla consapevolezza della superiorità della civiltà greca si contrappone il sentimento di elezione divina: i giudei sono il popolo scelto da Dio, per questo si differenziano dai gojim: “perfettamente analoga suonava l’affermazione di R. Jehuda b. Elai verso il 150 d.C.: Tre sono le lodi da pronunciare ogni giorno: benedetto (sia Dio)…, che non mi ha creato donna. Benedetto sia, egli che non mi ha creato ignorante. Benedetto sia che non mi ha creato goi: poiché tutti i gojim sono un nulla davanti a lui” (Is 40,17)”.

Alla base dell’identità del popolo giudaico sta la fedeltà alla Torah, per cui un cittadino ebreo si distingueva dai gojim  per la sua vita conforme alla legge. Ciò costituiva agli occhi della polis greca un certo svantaggio per gli ebrei, perché difficilmente essa, orgogliosa della sua tradizione, poteva tollerare un simile culto: “Un esempio evidente ci viene fornito da Apollonio Molone di Rodi all’inizio del sec. I a.C. Nel suo cieco odio contro gli Ebrei per il loro comportamento nelle città greche, non solo li definisce ἄθεοι e μισάνθρωποι, ma sostiene che sono «i più stupidi tra i Barbari» (…) e non «inventarono nulla di importante per la vita», un’accusa alla quale  gli apologeti ebrei rispondono esaltando i Patriarchi e Mosè che furono i «primi inventori». Del resto anche Cicerone eredita questa diffamazione del giudaismo sostenendo che esso è una barbara superstizione. Anche da parte dello stato romano gli ebrei incontravano diffidenze e spesso subivano misure restrittive. “che arrivavano, di tanto in tanto, alla vera e propria espulsione dalla città”.

Nel terzo capitolo l’autore passa a trattare il tema dell’incontro tra giudaismo ed ellenismo nella diaspora e in patria, sottolineando che “l’ambiente in cui erano più frequenti i contatti tra Ebrei e Greci e più sentita era la necessità di adeguarsi, per quanto possibile, alla vita di questi ultimi erano gli eserciti mercenari ellenistici e le colonie militari”. A partire da Tolomeo VI Filopatore le unità di combattimento erano costituiti in buona percentuale dagli ebrei, oltre che dai greci. Per la loro fedeltà ai Tolomei erano completamente ellenizzati, tanto è vero che “due loro ufficiali, Dositeo e Sosipatro, portano nomi greci”.  A fomentare l’aumento dei reclutati ebrei nell’esercito fu la decadenza economica e politica della monarchia tolemaica, causando una diminuzione di greci nelle truppe militari. Essendosi costituita la colonia militare di Leontopoli, grazie al sommo sacerdote Onia, i mercenari ebrei “ottennero una crescente importanza politico-militare nella monarchia tolemaica e raggiunsero le più alte posizioni di comando, che poterono mantenere fino alla conquista romana del paese dopo la battaglia di Azio”. Nel primo periodo ellenistico, oltre che per l’aumento di soldati ebrei, il giudaismo della diaspora si ingigantì con l’afflusso di “schiavi, lavoratori e artigiani ebrei”. Ne fa fede la testimonianza di Zenone che “acquista in Palestina numerosi schiavi; tra questi due idumei riescono a fuggire  per tornare ai loro vecchi padroni”. Nel III e II secolo abbiamo anche la presenza di contadini e pastori ebrei, oltre che di ebrei salariati. Per quanto riguarda la lingua e la cultura greca nella diaspora giudaica al tempo dei Tolomei in Egitto l’autore ci informa che gli ebrei residenti in Egitto iniziarono a parlare e a scrivere in greco, in quanto “il greco divenne la lingua ufficiale corrente, non solo nei rapporti con l’ambiente ellenistico, ma anche tra le comunità giudaiche”. Infatti gran parte della documentazione ebraica era scritta in greco piuttosto che in aramaico ed ebraico. Era invalso anche l’uso di adottare nomi greci da parte dei coloni militari ebrei del II secolo, “infatti tra gli ebrei dell’Egitto troviamo i nomi di Apollonio, Artemidoro, Diosdoto, Demetrio, Dionisio, Diofanto, Eraclea ed Eracleide, Ermaio, Ermia e altri”. Anche in ambito religioso ci fu una vera e propria ellenizzazione dei luoghi di culto: basti pensare al culto Qos-Apollo nelle colonie militari idumee nei sec. II  e I a.C. E alla traduzione letterale da parte dei LXX del Pentateuco nella koinè, la lingua ufficiale greca. Oltre ai Settanta, la compenetrazione della cultura greca con il pensiero giudaico emerge dall’antica letteratura  giudeo-ellenistica: “l’autore tragico Ezechiele descrive l’esodo dall’Egitto in forma di dramma e nella lingua di Eschilo ed Euripide. Secondo lui però non l’onnipotente destino dei Greci, bensì la provvidenza del Dio d’Israele governa l’universo e guida il corso della storia”.

La Bibbia dei Settanta, uno degli episodi più importanti dell'incontro fra Ebraismo ed Ellenismo

Non sono da dimenticare i frammenti di Aristobulo consigliere di Tolomeo IV Filometore (180-145), raccolti da Eusebio, dai quali traspare evidente il tono filosofico-apologetico, teso a interpretare allegoricamente alcuni passi tratti dal Pentateuco, con l’intento di dimostrare che Pitagora e Platone “avrebbero conosciuto la legge di Mosè, una tesi dalla quale poi Filone sviluppa il tema del plagio perpetrato dai Greci”. Con Aristobulo si ha una vera e propria rielaborazione del pensiero greco alla luce della dottrina rivelata. Un esempio significativo è la sua lettura allegorica del settimo giorno che, in quanto sapienza divina e luce primordiale, è al fondamento della struttura noetica del mondo: “l’interpretazione allegorica avviata da Aristobulo, trova ulteriore sviluppo nella lettera di Aristea in funzione della apologia della legge…L’interpretazione della legge di Aristobulo e dello pseudo-Aristea, come pure più tardi di Filone, presenta un evidente influsso neopitagorico”. Per quanto riguarda l’ellenizzazione della diaspora fuori dell’Egitto assai scarse sono le notizie, mentre a proposito dell’influsso della cultura ellenistica sulla Palestina giudaica fino ai Maccabei l’autore sottolinea che all’inizio tra i giudei e greci vi fu uno “scontro polemico che prosegue nell’immagine del «quarto regno crudele ed empio» della tarda apocalittica”. Poi con il passare del tempo e con il consolidamento della situazione politica palestinese ad opera di Tolomeo I, diversamente da quanto avveniva in Egitto, i comandanti delle colonie militari non furono greci ma ebrei. Questo è il caso di Tobia che “tiene corrispondenza con Apollonio e lo stesso re ad Alessandria che tratta quasi come suoi pari…Secondo il romanzo della famiglia di Tobia, riportato da Giuseppe, il figlio Giuseppe, probabilmente sotto Tolomeo III Euergete, acquista notevole peso politico ed economico a Gerusalemme. Non solo diventa προστάτης, rappresentante dell’ethnos giudaico davanti alla corona tolemaica, ma riesce anche ad ottenere da Alessandria il monopolio sulle tasse per l’intera provincia della “Siria e Fenicia”, grazie ai rapporti particolarmente  buoni di cui dispone a corte”.

Il processo di graduale ellenizzazione comportò la comparsa di nomi greci non solo nell’ambiente fenicio, ma anche in quello ebraico: “i nomi greci ricorrono persino presso gli ebrei “conservatori” della Palestina”. Si ricordano in particolare i 72 anziani che tradussero in greco la Torà, i quali “molti hanno nome greco, come Teodosio, Teodoto, Teofilo, Dositeo e Giasone”. Anche in Qohelet, in Ben-Sira e a proposito degli strumenti musicali citati nel libro di Daniele si trovano le prime tracce dell’influenza linguistica greca. Inoltre in Palestina si assiste a una graduale osmosi della cultura greca: “ad esempio a Gaza e Sidone sono state rinvenute due lunghe iscrizioni, redatte in forma scrupolosamente metrica, risalenti al 200 a.C. Quella di Gaza è un’epigrafe per due ufficiali tolemaici e i loro congiunti, mentre a Sidone si tratta dell’elogio del suffeto Diotimo per la sua vittoria nelle corse coi carri conquistata nei giochi panellenici nemei di Argo”. A livello culturale l’infiltrazione dell’ellenismo negli ambienti fenici ed ebraici comportò anche la fioritura di scuole filosofiche. Basti ricordare che “nelle città fenicie tenevano la loro scuola famosi filosofi come lo stoico Boeto di Sidone e l’epicureo Zenone di Sidone. Meleagro e il più giovane Filodemo aderivano allo spirito gioioso di Epicuro. Accanto a Gadara nel sec. II a.C. Anche Ascalon diventa un centro spirituale, da cui escono molti importanti filosofi e scrittori”.

Pure nella letteratura biblica sapienziale traspare l’influsso del pensiero greco. In particolare nel Qohelet si ritrovano i concetti greci del destino, della nullità, del tempo, della concezione impersonale di Dio, dell’idea fatalistica che l’uomo è abbandonato al suo destino e dell’ascensione in cielo dello spirito dell’uomo. Non di meno è il Siracide, nel quale si riflettono gli echi della filosofia greca a proposito della “figura intermediaria della sapienza, che nella sua universalità potrebbe essere paragonata con l’anima cosmica di Platone o con il Logos stoico…Come per Crisippo, il male è presente nel mondo per la giusta punizione dei peccatori. Egli (Ben Sira) tratteggia il rapporto di Dio con il mondo con formule che sembrano quasi panteistiche”. Tuttavia è opportuno menzionare il movimento degli hasidim che, opponendosi allo spirito dell’ellenismo, diviene il capostipite di una nuova era “intesa come segno di un nuovo individualismo religioso fondato sulla libera scelta, la «conversione» del singolo. Indizi dello spirito di una nuova era sono anche molte loro concezioni religiose, fissate principalmente nella letteratura apocalittica sorta in questi ambienti”.

Cinzia Randazzo

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