Margherita Isnardi Parente, Le radici greche di una filosofia non antropocentrica

Aristotele studia gli animali (1791)

Ospitiamo sul nostro sito il noto piccolo saggio della studiosa dedicato ai prodromi della coscienza animalista e dell’ambientalismo moderno rintracciati nella filosofia antica occidentale. Come Galilei mise in  discussione il geocentrismo,  alcune filosofie greche misero in discussione l’antropocentrismo, che dominò la cultura occidentale anche e soprattutto sulle basi del pensiero ebraico e cristiano che si riappropriarono di alcuni schemi della filosofia greca, censurandone altri. La studiosa sfata un pregiudizio storico culturale: la credenza che la cultura cristiana debba al suo contatto con la grecità il suo antropocentrismo e il suo scarso spirito ecologico.  Al contrario: la studiosa dimostra come la tradizione pitagorico-platonica-aristotelica, in un lungo percorso articolato fra pratiche etiche, qualche deriva spiritualistico-metafisica, e considerazioni  più propriamente razionaliste, raggiunse una coscienza critica altissima sul carattere problematico che riveste il rapporto fra i viventi, che servirà da base per la speculazione moderna e contemporanea.

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Verso metà del III secolo il cristiano Origene si assumeva il compito di confutare gli argomenti del platonico Celso: una fortuna per noi, che così – né è certo questo l’unico caso – siamo venuti a conoscenza di un’opera che altrimenti, bandita e proscritta, sarebbe del tutto scomparsa dalla storia della cultura. Sotto l’aspetto filosofico, uno dei motivi più interessanti che traspaiono dall’opera dell’autore pagano sta nelle argomentazioni di Celso relative alla provvidenza, e al posto e ruolo, in essa, dell’essere umano. Celso era autore di un’opera intitolata Ricerca intorno agli esseri viventi, il cui intento principale era quello di dimostrare che l’universo non è stato fatto in vista dell’uomo più di quanto non lo sia stato in vista di qualsiasi altro essere vivente: l’opera tendeva quindi a contrapporsi ad una concezione antropocentrica della provvidenza. Gli argomenti di Celso sono esposti e intrecciati con le controargomentazioni di Origene, per un tratto che occupa buona parte del IV libro dei Contra Celsum (cc. 74-99 all’incirca); Origene li prendeva in considerazione uno per uno, opponendo loro in ogni caso la visione di una provvidenza divina che ha scopo della sua creazione l’uomo, essere privilegiato dell’Universo.

Tutto ciò che nasce in virtù di forze naturali, diceva Celso, alberi piante frutta erba, non è fatto per l’uomo più di quanto sia fatto per gli altri animali che ne godono e ne vivono. Perché dire che l’uomo è superiore per natura agli altri animali? Essi (e qui Celso riprendeva argomenti di lontana origine cinica) hanno una superiorità naturale su di noi, che dobbiamo procacciarci il cibo con fatica e con ingegno, mentre nell’animale alogon, <<non ragionevole>>, esso si offre spontaneo: se noi, per dar caccia agli animali, abbiamo bisogno di armi e di cani, essi dispongono di armi fornite loro dalla natura. Per essi e per noi, allo stesso modo, sono fatti il giorno e la notte, il sole che illumina e riscalda, che dà vita alle formiche come all’uomo. Né possiamo dire che Dio ha fatto gli animali per nostro uso e che ciò risponde all’ordine naturale, se guardiamo a quello ch’era l’ordine naturale primitivo, allo stato più autentico, vediamo ch’erano allora in realtà gli animali a usare di noi a loro piacere. Celso perseguiva, inoltre, temi assai cari, come meglio vedremo, al pensiero greco, quello dell’ intelligenza dell’animale <<non ragionevole>> (la sua capacità di costruire città e di avere governi veri e propri, come nel caso delle api e delle formiche) e quello delle sue capacità etiche (egli sembra si soffermasse ancora sull’esempio delle formiche, che provano compassione delle compagne cadute e le soccorrono: ma l’esemplificazione tradizionale delle virtù degli animali era ricchissima, e certo la trattazione non si limitava ad una sola specie animale). Gli animali, Celso diceva, pur se chiamati aloga, hanno capacità di comunicazione reciproca, di reciproco colloquio: se il riferimento di Origene è esatto, egli usava il verbo dialégesthai, quello che si addice al discorso ad alto livello, al dialogo filosofico. E se, diceva, immaginiamo un essere immenso e perfetto che dal cielo guardi giù sulla terra, potrebbe questi rilevare una qualche differenza fra le nostre azioni e quelle degli animali?

I serpenti conoscono meglio di noi i farmaci risanatori: sono gli uccelli ad insegnare agli uomini l’arte divinatoria, il che vuol dire che sono più vicini di noi alla divinità e che la loro anima è più della nostra impregnata di divino. Alcuni fra gli animali, gli elefanti , ad esempio, si elevano fino alla conoscenza del divino e alla pietà religiosa: era, questo della pietà dell’elefante e dei suoi atti di preghiera (la preghiera al sole, con la proboscide levata), un antico motivo, probabilmente risalente alla prima conoscenza diretta che i Greci ebbero di quesii animali durante la spedizione di Alessandro in India: un motivo talmente tenace che vedremo ancora Feuerbach, all’inizio di Dar Wesen des Christenthums, misurarsi con questa credenza sentendo la necessità di confutarla. E perché dunque dovremmo credere che l’universo sia fatto per noi più di quanto non lo sia per l’aquila, per il delfino e l’elefante? Conclusione di Celsoera che la divinità è assolutamente imparziale nella sua cura dell’universo: lo regge, lo governa, lo ama nel suo insieme, né subordina una parte di esso all’altra, né verso l’uomo è mossa da affetti particolari – non si volge a lui con predilezione, non si adira con lui né lo minaccia, più di quanto non faccia con qualsiasi vivente di altra specie.

Non erano, vedremo, teorie nuove, ma teorie già ben radicate nella tradizione filosofica greca. Ma nuove non erano nemmeno le teorie che Origene opponeva di volta in volta all’interlocutore pagano, bensì proprie di un diverso filone della stessa tradizione, adattate alla cornice della teologia cristiana come più consone ad essa. Per Origene Dio ha provveduto e provvede in primo luogo all’uomo e permette agli altri animali di godere dei beni ad esso primariamente destinati. Ha dato la terra da godere all’uomo e agli animali <<che ci servono>>. Dominiamo gli animali con la superiorità della nostra intelligenza, sì che questo dominio si inserisce nell’ordine della natura: la nostra intelligenza, superiore, ci è data da Dio allo scopo di soggiogarli. L’uomo, con la sua anima immortale, è al centro dell’universo, ed è lo scopo per cui l’universo è stato fatto. Quando Origene non trovava argomenti, ricorreva allo scherno: dunque aquile e delfini ed elefanti sarebbero, secondo Celso, più sapienti di Pitagora, di Ferecide, di Socrate, di Platone! Dunque Dio avrebbe creato il mondo con gli occhi volti alle formiche! Argomenti del genere, incentrati sulla figura di un Dio ch’era l’antenato immediato del Dio cristiano – il Dio dell’Antico Testamento – erano stati già utilizzati ed adattati dall’ebreo Filone Alessandrino, in quell’opera, De animalibus, ch’è giunta a noi solo attraverso la tradizione armena, contro il suo proprio nipote Tiberio Giulio Alessandro, a sua volta sostenitore del tema dell’intelligenza degli animali.

Ma vediamo di risalire piuttosto lontano, alle origini di questa controversia che ha radici remote. Lo sforzo di definire chiaramente i viventi nelle loro caratteristiche reciproche, creando fra loro fasce di divisione sostanziali, giunge alla sua maturazione solo nell’opera di Aristotele. Prima della speculazione di Aristotele, i contorni sono confusi e il concetto di vivente ancora privo di una precisa articolazione interna. I motivi del rispetto per gli animali in Pitagora e nei primi pitagorici erano essenzialmente religiosi, e le testimonianze in proposito sono incerte, talora contraddittorie, talora investite di carattere aneddotico e anche malevolo-ironico, come la storia di Pitagora che riconosce la voce di un amico defunto del guaito del cagnolino. Incerte le notizie sull’astensione dal cibo a base di carne: alla testimonianza di Porfirio che parla di una astensione generalizzata da quel  tipo di nutrimento, basata sul rispetto per gli esseri a noi simili – e vedremo poi quali siamo i tramiti, accademici e peripatetici, di questa tradizione – si oppone una tradizione probabilmente più antica e genuina, che ci viene da Diogene Laerzio, un biografo e dossografo tardivo, ma risale al IV secolo a.C., al peripatetico Aristosseno, raccoglitore di notizie remote: qui si parla di astensione solo da certi tipi di animali, come bovi e montoni: Aulio Gellio più tardi raccoglie una tradizione secondo cui Pitagora non disdegnava di cibarsi di porcellini e agnellini, una testimonianza che risale ad un’opera perduta di Aristotele. Infine ci dà notizie ancora più interessanti per il loro sapore arcaico, che cioè Pitagora si sarebbe astenuto non dalla carne in generale, ma dal cuore e dall’utero degli animali, le fonti del sangue e della vita (fr. 194 Rose). In ogni caso il divieto di cibarsi di carne nel pitagorismo antico è fondato sulla metensomatosi, e appare ancora di tipo antropocentrico: corrisponde piuttosto a un rispetto per l’uomo decaduto, migrante nel corpo dell’animale, che non a considerazioni incentrate sull’animale in sé e per sé;  è ancora dominato da uno spirito di arcaica religiosità che fa emergere in primo piano il problema delia purificazione attraverso la transizione per più forme vitali e corporee che non il problema di una vita animale diversa per natura da quella umana.

Le piante e gli animali sono esseri unificati dai pitagorici sotto l’unica categoria di vivente. Il confine fra di essi è estremamente oscillante, ed Empedocle, cui si deve il grande poema Le purificazioni, (Katharmoi), attribuisce anche alle piante intelligenza e ragionamento, phronesis  e logikà. Platone nel Timeo dà una singolare descrizione della pianta come un animale con le radici rovesciate: noi e gli altri animali abbiamo radici aree, nella testa, la parte più nobile del corpo, sede dell’intelligenza e ciò ci  permette la deambulazione, mentre le piante sono viventi con le radici terrestri, il che le rende prive di movimento ambulatorio. Ma quello che insinua un cuneo in questa unità è la considerazione, via via più particolareggiata e motivata, dell’intelligenza artigianale propria dell’animale, che la pianta non possiede. Democrito (su questo punto non a caso ci ragguaglia Plutarco) descriveva le opere tipiche dell’ingegnosità di animali quali i ragni tessitori o gli uccelli costruttori di nidi, attribuendo loro una téchne: e si sa quale importanza la téchne abbia nell’ambito della filosofia greca: Platone paragonerà di lì a poco, con metafora che ha avuto una enorme fortuna storica, l’opera di costruzione dell’universo all’opera del falegname costruttore, che forma e foggia, il demiurgo, l’artigiano cosmico. Ma bisognerà attendere Aristotele perché sia data una trattazione sistematica delle facoltà psichiche degli animali – la sensazione, la memoria, la capacità di discernimento che li rendono simili a noi – e perché sia isolata la facoltà vegetativa allo stato puro, il threptikon, che caratterizza le piante e stabilisce il confine fra i due regni. Il De anima di Aristotele segna l’inizio di una nuova fase del rapporto intellettivo fra essere umano e mondo animale da un lato, mondo animale e mondo vegetale dall’altro, rapporto che ancora ci domina e determina i nostri orizzonti concettuali odierni.

Le precisazioni di Aristotele daranno i loro frutti però solo dopo di lui. Se intendiamo risalire all’origine del tema del rispetto per l’animale come non più fondato su ragioni religiose, ma sulla considerazione della sua somiglianza con noi quanto a funzioni psichiche e moti affettivi, troviamo sulla nostra strada i nomi del discepolo di Aristotele Teofrasto e, parallelamente, del discepolo di Platone Senocrate. Anche in questo caso i riferimenti sono assai tardivi. E’, per esempio, il cristiano Eusebio che, nella sua Praeparatio evangelica, ci riporta le argomentazioni con cui Teofrasto respingeva i sacrifici usuali della prassi religiosa greca opponendo ad essi un altro culto, quello agrario (che Plutarco ci dice essere stato elogiato, nello stesso periodo, anche da Senocrate): i sacrifici cruenti, basati sull’uccisione di animali, diceva  Teofrasto, sono buoni per i cattivi demoni, non per gli dèi, che aborrono il sangue. Ma le più ampie e ricche  testimonianze ci vengono da due autori appartenenti entrambi alla tradizione platonica in due differenti fasi, dal medioplatonico Plutarco fra I e Il secolo d.C., dal neoplatonico Porfirio fra III e inizio IV secolo d.C.. Entrambi scrissero un’opera sull’astensione dal cibo a base di carne, il De esucarnium Plutarco, il De abstinentia Porfirio, riprendendo alla lettera, quest’ultimo, molti argomenti plutarchei. In altre opere (il De sollertia animalium, il Gryllus) lo stesso Plutarco trattava prevalentemente di un altra tema, quello dell’intelligenza animale; e fra i trattati di Aristotele e di Teofrasto e quelli di Plutarco si sviluppa tutto un arco di minuta indagine che noi possiamo purtroppo assai imperfettamente seguire, una historia fatta di esemplificazione concreta e dettagliatissima, una serie di opere Peri  ton zoonche dovevano costituire nel loro insieme la summa del patrimonio di osservazione zoologica  propria del mondo greco-romano. Tutte queste opere sono perdute, ed è agli autori di età imperiale che dobbiamo ricorrere per raccogliere i relitti di questo naufragio.

Busto di Plutarco

Nel De esu carnium plutarcheo abbiamo la trattazione esauriente della somiglianza fra gli animali e noi quanto a passioni, non solo, ma anche quanto a ragionamenti veri e propri, logismoi. Plutarco riporta un episodio riguardante il platonico Senocrate: gli Ateniesi si rivolgono a lui, saggio, e noto per il suo amore per gli animali, per sapere che pena dovranno infliggere a un tale che ha scorticato vivo un ariete; ma Senocrate risponde che non è condannabile la crudeltà, bensì semplicemente l’uccidere, l’atto di <<strappare la vita>> a un altro essere, e indifferente è la forma con ciò che viene compiuto (De esu, 996 b). E dello stesso Senocrate Porfirio (De abst. IV, 22) ci dice che era suo comandamento espresso <<non uccidere chi è della tua stessa stirpe>>, homogenes, estendendo a tutti i viventi tale concetto. Lo stesso Porfirio,  a proposito di Teofrasto, ci dice che questi teorizzava la parentela (oikeiotes) fra tutti eli esseri viventi (De abst. III, 25): parenti noi siamo in virtù di quelle manifestazioni psichiche che ci rendono affini. Non dimentichiamo che, pur se teorizzata espressamente per la prima volta nel IV secolo a.C., una simile valutazione del rapporto fra animale e uomo si colloca all’origine della letteratura greca. Odisseo tornato sotto umili vesti non è riconoscibile da nessuno: anche la nutrice Euriclea ha bisogno di un piccolo segno fisico di riconoscimento per rendersene conto. Ma chi lo riconosce subito è il cane Ago, che lo ha aspettato per morire. E’ nel De esu di Plutarco (997 b) che abbiamo l’esplicito distacco dalle antiche motivazioni religiose del vegetarianismo. <<Riteniamo che l’anima sia cosa di sì poco conto? E non parlo dell’anima che potrebbe essere quella di un figlioletto, o della madre, o del padre, o di un amico, come diceva Empedocle: ma dell’anima in generale, che partecipa della facoltà del sentire, di vista, udito, immaginazione, dell’intelligenza, quella che da natura ciascuno di noi ha avuto in sorte>>. Plutarco qui parla in prima persona, senza ambizioni specifiche all’una o all’altra fonte. Ma la svolta nella sensibilità e nella riflessione dei pensatori greci riguardo ai rapporti fra  l’uomo e gli altri viventi è certamente da porsi assai a monte di Plutarco stesso.

Non troviamo un solo argomento di Senocrate sostenuto da riferimenti alla teoria della metensomatosi, e questo è già significativo. Dei peripatetici sappiamo però con certezza che se ne distaccarono esplicitamente: dopo Teofrasto e ancor più decisamente, Stratone di Lampsaco, il suo successore alla guida del Liceo, dava fondamento teorico alla convinzione secondo cui l’animale cosiddetto <<irragionevole>> possiede facoltà intellettive affini alle nostre; ed è con ogni probabilità da vedersi in questa fase della speculazione greca il momento in cui il divieto di uccidere gli animali per cibarsene si è caricato di tutti quei motivi razionali che vengono a noi trasmessi dalla letteratura più tarda. Nel periodo ellenistico, fin dallo scorcio del IV secolo a.C. la questione fu del resto ampiamente dibattuta. E’ Porfirio, ancora nel De abstinentia (I, 7-12) a riportarci un lungo brano dell’epicureo Ermarco, successore immediato di Epicuro a capo della scuola, in cui, contrariamente a quanto avveniva nell’Accademia e nel Liceo, si argomentava la liceità di uccidere gli animali a nostro vantaggio. Gli uomini saggi che, all’origine, hanno posto una regola e un ordine alla vita sociale, diceva Ermarco, hanno posto alla base di quest’ordine il comandamento del <<non uccidere>>; ma questo vale solo in vista del genere umano. Con Epicuro, Ermarco riteneva infatti che non ci possano esseri doveri reciproci e regole reciproche di convivenza là dove non è possibile stabilire patti circa il non dare né ricevere danno: e la sua convinzione discendeva coerentemente dalla concezione epicurea della giustizia che è di carattere contrattualista. Ermarco usava anche di un argomento pragmatistico di scuola epicurea: se noi non uccidessimo gli animali, questi crescerebbero in modo tale da sopraffarci: e ciò vale non solo nei riguardi degli animali feroci, contro i quali anche i vegetariani come Plutarco avrebbero ritenuto lecito l’uccidere per legittima difesa, ma anche degli animali miti, nostri collaboratori, perché anche questi un giorno potrebbero sopraffarci col loro numero. Era una sorta, come si vede, di argomento malthusiano ante litteram.

C’era nella Stoà una posizione analoga, tuttavia assai meno giustificabile in rapporto alle premesse della scuola e di dubbia coerenza: la Stoa predicava infatti la simpatia universale fra tutte le parti dell’universo, basata sulla ragione che il soffio vitale intelligente che lo regge provvidenzialmente, lo pneuma cosmico, penetra ovunque e permea di sé anche le parti più vili e più infime dell’universo anche stesso, dando dignità a ragni e vermi. Nonostante ciò, Crisippo sosteneva che fra noi e gli animali non ragionevoli esiste una profonda dissimiglianza, una anomoiotes che impedisce, per dirla con Cicerone (De finibus, 111, 67) che fra noi e loro possa essere <<communio iuris>>, una comunanza di diritto, una appartenenza allo stesso modo di norme, alla stessa cittadinanza, poiché tale stato può sussistere solo fra chi partecipi alla stessa stregua della ragione. Crisippo teorizzava una provvidenza incentrata sull’uomo: per questo era foggiato il cosmo dalla immanente mente divina ordinatrice; egli riconosceva funzioni provvidenziali a tutti gli esseri che popolano  l’universo, ma funzioni aventi l’essere umano come termine di riferimento – così avviene anche per gli animali apparentemente più dannosi o fastidiosi: la funzione provvidenziale delle pulci sta nel mordere I’uomo per tenerlo vigile al lavoro, e il coraggio dei galli nel combattere serve ad incitare l’uomo a provar vergogna della propria viltà. La ferrea convinzione di Crisippo che il mondo sia, nei suoi cicli periodici,  foggiato e retto al suo interno da provvidenza antropocentrica agì potentemente sull’ebreo ellenizzato Filone Alessandrino come più tardi, attraverso tramiti, sui padri della Chiesa.  Filone vedeva nell’essere umano la creatura privilegiata cui Dio aveva insufflato direttamente l’anima razionale, il che era già un andare ben oltre l’arcaismo del dettato; i padri della Chiesa  combinavano il provvidenzialismo stoico col trascendentismo platonico e con la platonica teoria dell’anima immortale, rivisitandola del tutto a loro modo, privandola cioè della caratterizzazione religiosa che aveva attenuato fin dall’inizio la differenziazione fra i viventi, la teoria metensomatosi. Non va dimenticato che l’immortalità dell’anima per Platone era ancora un fatto superindividuale: una sola anima passava attraverso una pluralità di formazioni corporee e di vite.

Prima di abbandonare Plutarco e Porfirio, occorre ancora sottolineare alcuni loro argomenti la cui «modernità», se così può dirsi, ci colpisce, come un filone di pensiero per lungo tempo andato smarrito, come un aspetto del passato che richieda da noi un tardivo riconoscimento. I pensatori cristiani si interessavano dell’uomo: Tertulliano lanciava la sua condanna contro il celebre anatomista di età ellenistica Erofilo, <<non medicus, sed lanius… qui hominem odit, ut nosset>>: Erofilo era giunto all’odio dell’umanità per amore della scienza, rendendosi famoso per le sue spietate dissezioni anatomiche compiute sui barbari prigionieri di guerra.  Ma nella tradizione platonica tardiva il tema si allargava in quello di una difesa generalizzata della vita. E’ straordinario, in certo senso, notare come Plutarco prenda le sue distanze da quella esaltazione della caccia che era stata un topos prediletto della letteratura greca di ispirazione aristocratica: la vita umana, egli dice, non ha certo bisogno per il suo miglioramento del crudele divertimento della caccia (De sollertia, 965 a). Egli esprime nello stesso tempo la sua condanna anche per quell’altro crudele divertimento, assai più plebeo e diffuso, che consiste nello spettacolo dei teatri, ove le bestie sono costrette, contro la loro volontà, a  combattere con l’uomo: tutto questo non fa che eccitare in noi l’elemento phonikon kai theriòdes, l’istinto a uccidere bestialmente, quello che ci rende simili agli animali più feroci (ivi, 959 e). Plutarco ritiene che sia, sì, nostro diritto lottare contro le belve per resistere alla loro furia, che sia però assurdità crudele e stupida quella per cui, invece di uccidere di preferenza queste, togliamo la vita agli animali nostri compagni e collaboratori, oppure ad esseri graziosi e innocenti, quali ad esempio gli uccelli: << non ci cibiamo di leoni e lupi uccisi per nostra difesa, ma catturiamo e uccidiamo esseri che non ci recano alcun danno, privi di strumenti che possano dilaniarci, e tali che la natura sembra averli formati solo per amor di bellezza e di grazia>> (ripetuto in De soll. 964 b, in De esu 994 b. 998 b.). Porfirio riprenderà questi temi ma con una limitazione, una riflessione che non c’è in Plutarco: il divieto di cibarsi di carne non può essere estensibile all’uomo comune. alla moltitudine volgare degli uomini (De abst. I. 27, iI 3, e altrove). C’è quindi in Porfirio una nota di aristocratismo più accentuata, così come c’è un motivo mistico-religioso più evidente quando egli afferma che, pur essendo preferibili in assoluto i sacrifici del culto agrario, qualche volta può essere necessario accedere per ragioni sociali ai sacrifici cruenti, e allora l’importante è di non cibarsi poi delle carni degli animali sacrificati: sembra qui di veder sovrapposti al «non uccidere» il rispetto per il carattere sacro della vita, il ricordo di una arcaica paura della contaminazione.Su questi temi – forse per una sua maggior vicinanza alla cultura ellenistica – il razionalismo di Plutarco appare più semplice e più limpido.

C O N C L U S I O N I

Systema Naturae di Carl Von Linné (1735)

Ci sono alcuni luoghi comuni da sfatare, a conclusione di questo nostro rapido discorso. L’uno è quello, che ancora si sente ripetere, che la cultura cristiana debba al suo contatto con la grecità e alla sua assimilazione di motivi del mondo greco anche il suo antropocentrismo e il suo scarso spirito ecologico. Non si potrebbe fare più marchiana confusione, il pensiero greco (e si è visto, in una tradizione tutt’altro che secondaria, quale quella pitagorico-platonica-aristotelica, con i più tardi sviluppi del medio e neoplatonismo) fu il primo, e credo l’unico, a teorizzare coerentemente e a razionalmente argomentare i temi della nostra parentela psichica con gli altri viventie della necessità del rispetto che ne scaturisce. Se in esso non mancò anche una prospettiva antropocentrica, ciò vuol dire semplicemente che in qualche modo tutti i temi della speculazione ulteriore vi sono anticipati, ma questo è altro discorso. I padri della Chiesa adattarono semplicemente alle loro esigenze certe posizioni che si prestavano meglio di altre ad essere inserite nel quadro generale della loro concezione filosofica e giustificarono così la loro teodicea, adeguandosi in ciò del resto all’operazione che già per suo conto aveva compito Filone, ebreo alessandrino, sulla scorta della teologia biblica.

Un secondo pregiudizio strettamente connesso con questo è quello che fa di Aristotele il principale punto di riferimento o, se si vuole, il principale colpevole di questa operazione. Aristotele fu certamente il primo a introdurre nell’universo un ordine gerarchico finalistico, per cui l’animale «non ragionevole» è potenziale di fronte alla superiore attualità dell’essere umano pensante. Ma perché la dottrina di Aristotele potesse diventare base effettiva di una teologia e teodicea antropocentrica le mancava un aspetto fondamentale, quello del provvidenzialismo. L’ordine gerarchico che Aristotele istituisce fra gli esseri non è rovvidenziale: esso culmina in un intelletto divino che è <<pensiero di pensiero>> , non esce da sé pena il perdere la sua caratterizzazione di atto assoluto, non può quindi guardare ad alcun essere dell’universo, neanche all’uomo, la forma privilegiata. Né va dimenticato che, come si è già rilevato, Aristotele con la sua analisi delle facoltà psichiche senzienti proprie degli animali aveva aperto la strada alla teoria teofrastea della nostra parentela con essi, della parentela universale fra i viventi. Senza contare che Aristotele penetrò assai tardi nel mondo cristiano, a parte alcuni motivi sporadici; e che lo sforzo di inserimento di esso nella teologia cristiana rimane talmente ardito da far comprendere facilmente come ciò potesse inizialmente suscitare condanne; ancor oggi, valutato fuori di quegli schemi scolastici che sono per antonomasia conciliatori, esso ci appare come avente in sé qualcosa di impossibile e di disperato.

Infine, vi è un ultimo pregiudizio, di ordine più generale: quello secondo cui tutto ciò che vi era di positivo e vivente  nei pensiero pagano sia stato trasfuso nel nascente pensiero cristiano per formarlo e strutturarlo. Ciò non è vero, ed è chiaro che gli apologeti cristiani scelsero in esso solo i motivi loro più consoni – le argomentazioni, ad esempio, tipiche del provvidenzialismo stoico – lasciando cadere motivi altrettanto vitali e altrettanto teoricamente fondati. Una delle correnti più vive e vitali del pensiero pagano, il platonismo, restava estranea a questo modo di concepire la provvidenza, ed essa continuò la sua vita storica indipendentemente fino a che il verbo cristiano non prevalse. In altri termini, non morì di morte naturale né indolore. Nell’ambito del corso storico che non conosce andamento lineare ed univoco, e che è un processo insieme creativo e distruttivo, nessun valore si  acquista se non pena la perdita di altri talvolta pagando per essi un prezzo assai duro. Isolando l’uomo con la sua individuale anima immortale, i pensatori cristiani  guadagnavano una nuova prospettiva nei rapporti fra essere umano e trascendenza divina e conseguivano una nuova e diversa concezione della personalità: ciò che rifiutavano era peraltro assai importante: lasciandolo cadere essi perdevano il senso dell’unità fra i viventi e del loro apparentamento autentico, fondato su ragioni di ordine razionale, imponendo al suo posto un rapporto di subordinazione e di dominio, con tutte le sue pesanti conseguenze di fatto, non certo sanate da quel mascheramento ch’è il ricorso generico ad una comune derivazione creazionistica.

Certo, ai nostri occhi di moderni, l’universo di Origene appare più angusto e arcaico di quello di Celso: con la cesura operata fra uomo ed esseri viventi, da un lato il valore della vita è scaduto, dall’altro l’infinità di Dio si è contratta. E’ evidente come i platonici vivessero nella relativa insicurezza di una provvidenza allargata, mentre il cristiano (e questo stato d’animo s’inserisce nell’ambito di quello più genericamente proprio della religione soteriologica) intendeva vivere nella più garantita sicurezza di una provvidenza che lo rivelasse. Non è questo, del resto, il solo motivi valido della cultura pagana di cui possiamo rimpiangere la perdita. Un secolo e più dopo la diatriba di Origene contro Celso, si sarebbe combattuta una lotta per la tolleranza dei culti da una parte, dall’altra per l’affermazione totale e dominatrice della religione cristiana, resa famosa letteralmente da una controversia tra il patrizio Simmaco e il vescovo Ambrogio. Oggi lo stesso ecumenismo sembra dar ragione a Simmaco contro Ambrogio («non uno itinere – diceva Simmaco – potest perveniri ad tam grande secretum>>) e anche a questo proposito il pensiero pagano dimostra tutta la vitalità dei suoi valori, vitalità non esaurita anche se nella realtà storica fu sopraffatta dalla «victrix causa».

Il razionalismo greco raggiunse una coscienza critica altissima del carattere problematico che riveste il rapporto fra i viventi. Dubito che essa sia stata di nuovo raggiunta in tale misura, e con un dibattito così ampio, nel corso della storia dell’occidente, anche se vediamo riemergere questi temi isolatamente, in spiriti pensosi (basti pensare a Michel de Montaigne: <<nous ne les entendons non plus qu’elles nous. Par cette mesme raison elles nous peuvent estimer bestes, comme nous les en estimons>>). Si tratta di un filone di pensiero di riflessione che andò per lo più obliterato sotto la pressione di un universo teologico incompatibile con esso: ma il fatto che esso fosse e rimanesse vitale, per le sue motivazioni di fondo, lo dimostra il suo riproporsi oggi con l’ampiezza di un movimento di opinione. Con ciò si dovrebbe aprire tutto un più ampio discorso sui recuperi di momenti essenziali del razionalismo greco che sarebbero da operarsi, superando schemi obsoleti che rappresentano solo cascami di una vecchia filosofia della storia: ma qui, in questa sede, non intendiamo spingerci tanto oltre.

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