La funzione Democratica della Cultura nella Società di Massa

Per Democrazia si potrebbe intendere non tanto il potere (κράτος) del démos (δῆμος) in senso stretto, quanto la possibilità (e la capacità) di un gruppo sociale di “fabbricare” il soggetto/oggetto del proprio Governo. Se provassimo a leggere ogni esperienza “democratica” alla luce di questo nesso (dall’Atene periclea alle Democrazie liberali moderne, passando per i Regimi “totalitari” del Novecento), non è escluso che si potrebbe commentare in maniera diversa la Storia politica dell’Occidente. Si vedrebbe, forse, come il nesso principale del Governo “democratico” non stia solo nella conquista del Potere, ma si potrebbe trovare nella ricerca del consenso di massa. Dove c’è consenso, più o meno diffuso, c’è realmente Democrazia. Solo il leninismo si pose il problema della gestione del Potere con l’esperienza dei Soviet (tradotti in Italia con i “Consigli di Fabbrica” durante il biennio rosso). Anche questo tentativo, però, presto fu ricondotto ai “normali” processi democratici del consenso sviluppatesi in seno alla fondazione dello Stato stalinista (l’Economia di Guerra era funzionale a costruire un consenso politico). Con questo si potrebbe dire, più o meno provocatoriamente, che anche il Fascismo ebbe una propria caratteristica democratica perché, indubitabilmente, poteva contare su un consenso diffuso, derivato principalmente dalle criticità esplosive dello Stato liberale che non riusciva più a dare risposte effettive ad un disagio sociale sempre più ampio. Insomma, la Democrazia non sarebbe tanto il “potere al popolo”, come spesso si dice, quanto il “potere del popolo”. Per “potere del popolo” non s’intende la possibilità di guida “diretta” delle Istituzioni ma la capacità di legittimarne il Governo attraverso il consenso. La capacità di un gruppo, quindi, starebbe nel creare le condizioni politiche, sociali, culturali ed economiche per ottenere consenso e legittimazione.

La Cultura è una delle “camere oscure” in cui si condensa il soggetto/oggetto del Governo perché svolge, nella Società di massa, una funzione direttamente riconducibile alla creazione del consenso. Essa, in particolare, eserciterebbe quest’ufficio non solo in senso propagandistico, bensì ponendo le condizioni per l’unificazione “culturale” del δῆμος su cui esercitare il κράτος. Per porre in evidenza l’importanza “democratica” del consenso, ai fini del raggiungimento del Potere, si è scelto di riprendere la querelle tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, all’alba della Repubblica italiana, sul rapporto tra Politica e Cultura.

Era il 29 Settembre del 1945 quando Il Politecnico vide la luce. Inizialmente si presentò come un settimanale di cultura contemporanea – edito da Einaudi – sotto la direzione di Elio Vittorini (che probabilmente si ispirò al Politecnico diretto da Carlo Cattaneo, a periodi alterni, tra il 1839 ed il 1860) ed il “beneplacito” del Partito Comunista Italiano. Una delle caratteristiche più innovative del giornale era l’impostazione grafica curata da Albe Steiner. Nell’editoriale d’esordio, intitolato “Una nuova cultura”, Vittorini sosteneva che la “cosa” (testualmente) sconfitta nel dramma mondiale appena concluso, e che invece avrebbe dovuto insegnare l’inviolabilità delle cose e degli Esseri umani, fosse proprio la Cultura: “Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro” (Vittorini E., Una nuova cultura, “Il Politecnico” 1945, n. 1, p. 1). Quindi, alla domanda che alcuni intellettuali si ponevano pubblicamente, seduti sulle macerie ancora fumanti della seconda Guerra mondiale, se la Cultura potesse influire sui “fatti degli uomini”, Elio Vittorini rispondeva in questo modo: “La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del ‘dare a Cesare’ e perché i suoi principì sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stesa vive” (ibidem). Il programma e lo sforzo culturale de Il Politecnico consistette nel provare a costruire una “nuova cultura” che non fosse solo “consolatoria” dei drammi dell’esistenza umana ma si ponesse direttamente il problema quotidiano del pane, del lavoro e dalla sofferenza. Questo senza negare “a priori” tutta la “cultura borghese”, perché considerata “nemica di classe” (come faceva il Partito Comunista Italiano, nelle sue aree più massimaliste), ma partendo anche da questa per costruire un nuovo sentire comune. A tale scopo si affrontavano argomenti anche molto diversi tra loro, e si mostravano molteplici fenomeni artistici (dalla letteratura alla filosofia passando per l’arte), in una consapevole reazione “liberatoria” a Vent’anni di oscurantismo fascista. Il Politecnico voleva essere lo strumento attraverso cui i giovani lavoratori avrebbero potuto emanciparsi.

D’altronde, com’è possibile immaginare, il miasma delle fornaci dove fu gabbata la civiltà era ancora ben visibile (la ricostruzione era solo all’inizio, la distruzione “materiale” era evidente), ed ancora più sentita era la necessità non solo di capire ma soprattutto di andare oltre il fetore lasciato dalla Guerra. Così l’impegno di molti intellettuali si produsse concretamente nelle strutture dello Stato, ad ogni livello, costituendo le basi del consenso diffuso a sostegno del nuovo sistema democratico repubblicano. Ma la geografia delle culture politiche (immutata, nonostante il passaggio del Fascismo), l’arcipelago dei movimenti di trasformazione sociale, della radicalità democratica, proponevano già, in nuce, un altro conflitto “culturale”. I “ceti medi“, infatti, rappresentavano il grande campo (culturale e produttivo) di consenso che le Organizzazioni democratiche cercavano di conquistare. Anche il Partito Comunista Italiano, a cui il Vittorini era iscritto, cercava di organizzare la sua campagna culturale per egemonizzare il consenso della piccola e media borghesia. La costruzione di un immaginario (la Cultura “nazionalpopolare”) che tenesse insieme i contadini del Sud, gli operai del Nord in un’alleanza con una parte di borghesia, era un tentativo inseguito con insistenza dalle dirigenze comuniste.

Dopo qualche tempo dalla prima pubblicazione de Il Politecnico, però, avvenne un fatto che ormai è entrato a far parte della Storia culturale e politica del nostro Paese e rappresenta una chiave di lettura di alcuni processi democratici e di consenso che, altrimenti, non si potrebbero capire. Facciamo riferimento allo scontro epistolare tra la rivista diretta da Vittorini ed il PCI. Nel numero 31-32 di Luglio-Agosto del 1946, il direttore de Il Politecnico scriveva, rispondendo ad un articolo di Mario Alicata sul numero 5-6 di Rinascita (la nota, dove si criticava l’impostazione idealista del giornale di Vittorini, era intitolata “La corrente Politecnico”), un’editoriale dal titolo “Politica e cultura” dove si proponeva di affrontare la questione dei “rapporti tra una linea politica e un atteggiamento culturale, tra azione politica e azione culturale” con la conclusione che questo lavoro implicherebbe “la distinzione tra doveri politici e doveri culturali” (Vittorini E., Politica e cultura, “Il Politecnico” 1946, n. 31-32, p. 2). La posizione di Vittorini era chiara: “Certo la politica è parte della cultura. E certo la cultura ha sempre un valore anche politico. L’una, certo, è cultura diventata azione. L’altra ha un valore anche politico nella misura in cui inclina a diventare azione. Ma l’una, la politica, agisce in genere sul piano della cronaca. La cultura, invece, non può non svolgersi all’infuori da ogni legge di tattica e di strategia sul piano diretto della storia. Essa cerca la verità e la politica, se volesse dirigerla, non farebbe che tentare di chiuderla nella parte già trovata della verità. Soprattutto non vorrebbe lasciarla sbagliare, e l’errore è necessario pungolo alla cultura perché si rinnovi” (ivi, p. 3l). Una strategia “autonoma” degli intellettuali, che potesse entrare in competizione con quella del Partito, non poteva che essere ritenuta quantomeno inaccettabile.

All’interno del campo della Cultura (e della Politica) comunista, e del processo di rinnovamento culturale italiano, cominciavano a porsi le prime questioni di “ortodossia” e, in modo particolare, di aderenza “organica” degli intellettuali al gruppo sociale che un Partito voleva rappresentare ed organizzare per raggiungere il Potere (sempre secondo criteri ancora vivamente gramsciani). Insomma, il conflitto egemonico per il consenso cominciava a dipanarsi con tutta la sua forza. All’editoriale di Vittorini su Il Politecnico rispondeva, con una lettera, lo stesso Segretario del Partito Comunista Italiano sul numero 10 di Rinascita. Togliatti criticava Il Politecnico perché ne intravedeva una certa debolezza teorica, profetizzandone la fine delle pubblicazioni come accaduto per altri “conati” culturali che mancavano di “costanza nel perseguire il fine preposto” facendo affiorare ben presto “una generica irrequietezza, una superficiale ricerca del nuovo […] mentre guadagna terreno e finisce per trionfare, senza che nessuno gli sbarri la strada, l’analfabetismo fascista, e la nostra cultura subisce un’azione devastatrice” (Togliatti P., Politica e cultura. Una lettera di Palmiro Togliatti, “Il Politecnico” 1946, n. 33-34, p. 4). La tesi di Togliatti rientra pienamente nei criteri di organizzazione di massa del Partito (e del “blocco storico”) pensati da Antonio Gramsci, il quale scriveva nei Quaderni: “[…] tutta la filosofia idealista si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso sociale degli intellettuali e si può definire l’espressione di questa utopia sociale per cui gli intellettuali si credono ‘indipendenti’, autonomi, rivestiti di caratteri loro proprii ecc.” (Gramsci A. 1975, Quaderni del Carcere. Volume terzo, quaderni  12-29 (1932-1935), op. cit., p. 1515). La questione del Proletkult (della “Cultura Proletaria”), per Gramsci, era uno dei problemi principali per l’accesso al Potere delle masse operaie e contadine (era una questione che intrecciava quella economico-politica). Nel campo socialista si soffriva, già all’inizio degli anni Venti del Novecento, l’assenza di un processo culturale che unificasse politicamente la base materiale delle forze produttive del Paese. Il problema dell’Organizzazione era una questione di soggettività politica, di “coscienza”, di Classe. Quando Togliatti parla di “nostra cultura”, sembra riferirsi proprio a questo.

Alla lettera di Togliatti seguiva una lunga e risentita (ma sempre rispettosa), risposta di Vittorini sul numero 35 (Gennaio-Marzo 1947) de Il Politecnico, che si concludeva con il perspicuo interrogativo “suonare il piffero per la rivoluzione?“. La tesi espressa era la seguente: “[…] è necessario che la cultura abbia sempre aperta la possibilità di essere cultura, cioè di cercare, porsi problemi e rinnovarsi. Per questo è non meno necessario che la politica rifugga sempre di più dal pericolo di essere sistema tradotto in politica e si sforzi sempre di più di riuscire ad essere ricerca tradotta in politica. Per questo è necessario infine che il rapporto tra politica e cultura non sia regolato né dalla politica né dalla cultura e sia lasciato ‘libero’ di variare (e di implicare una maggiore o minore dipendenza reciproca, una maggiore o minore autonomia reciproca) secondo il variare delle fasi che la storia attraversa nella sua marcia di avvicinamento alla società senza classi a al primo stadio, in essa, della libertà dell’uomo” (Vittorini E., Politica e cultura. Lettera a Togliatti, “Il Politecnico” 1946, n. 35, p. 105). L’attenzione di Vittorini si spostava direttamente sull’individuo, leggendo la Rivoluzione come una trasformazione innanzitutto individuale, prima che “collettivistica”. Trasformazione individuale pensata, quindi, come “emancipazione culturale”. La Cultura, per Vittorini, avrebbe proprio questo compito “strategico”, ossia permettere l’ascesa dell’individuo in modo da eguagliare un processo che ha portato, attraverso il protestantesimo (si ricordi l’analisi sul beruf di Weber), la Borghesia a fare la propria Rivoluzione dell’Individuo. Su questo ci sarebbe uno scarto interpretativo con Gramsci che, riguardo alla Riforma protestante, si è soffermato anche (e, forse, soprattutto) sulla capacità di aver prodotto “cultura popolare”. Insomma, per Il Politecnico, la Politica avrebbe dovuto occuparsi del “contingente” mentre alla Cultura sarebbe toccato l’obbligo di avere una visione ed una capacità di ricerca in grado di andare ben oltre le turbolenze della “cronaca”. Questa ricerca non avrebbe potuto prescindere neanche da alcune espressioni della “cultura borghese” che avevano cominciato ad interrogarsi sulla crisi della società occidentale. Così, sempre nell’analisi di Elio Vittorini, “la linea che divide, nel campo della cultura, il progresso dalla reazione, non si identifica esattamente con la linea che li divide in politica” (ibidem). Era questa una posizione che, come già ipotizzato, risultò difficilmente digeribile dal Partito Comunista Italiano il quale, invece, stava tentando un difficile processo di unificazione “gramsciano” tra teoria e prassi dentro il movimento rizomatico della Cultura popolare, in un “blocco storico” ancora in via di definizione (anche a causa del rapporto controverso tra Nord e Sud del Paese, tra Città e Campagna). La posizione di Vittorini, agli occhi di Togliatti, rappresentava un’anomalia sistemica che avrebbe potuto indebolire lo sforzo strategico del Partito.

In realtà una simile argomentazione a sostegno della divisione tra Politica e Cultura poteva già leggersi nel “Manifesto degli Intellettuali antifascisti” ispirato e redatto da Benedetto Croce (bersaglio principale della polemica gramsciana sull’autonomia “idealista” e liberale degli intellettuali) e pubblicato su Il Mondo – giornale fondato da Giovanni Amendola nel 1922 – il primo maggio del 1925 (in risposta al “Manifesto degli Intellettuali fascisti“, scritto da Giovanni Gentile come risoluzione del “Convegno per la Cultura fascista” tenutosi a Bologna il 29-30 Marzo 1925). In particolare, nel testo degli antifascisti, si affermava che “[…] gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’iscriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica e le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale affinché con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso“. In realtà, prima che un Manifesto dell’antifascismo, questo pamphlet sembra voler essere un tentativo di riaffermazione dei principi liberali (che si riconducono al Risorgimento italiano), messi seriamente in discussione dopo il delitto Matteotti (Giugno 1924) dalle innovazioni apportate del Regime fascista anche in ambito culturale, che si definirono con la fondazione dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista (INCF) nell’Agosto del 1926 (con altre leggi “fascistissime”). In effetti, come sottolineato dallo storico inglese Eric J. Hobsbawm, tra il 1922 ed il 1942 in Europa avvenne un collasso (di consenso) inesorabile dei governi e delle istituzioni liberali prodotte dall’Ottocento. Quindi, mentre Amendola guidava la “secessione dell’Aventino” con un profilo squisitamente morale (e poco politico), cercando l’indignazione civile del popolo italiano contro il Governo Mussolini, il Fascismo, attraverso un profondo lavoro culturale, cominciava a costruire l’immaginario collettivo di una Nazione, di uno Stato, di uno spazio politico alla base del Ventennio. È proprio questa funzione intellettuale, di creazione del “senso” e dei confini di un ambiente comune, che divenne fondamentale.

Il Politecnico sospese le stampe nel Dicembre del 1947 (anche, e forse soprattutto, per motivi di gestione economica della rivista) ed Elio Vittorini, qualche anno dopo, decise di allontanarsi dal PCI. Evidentemente la relativa autonomia del Vittorini, pur iscritto al Partito, mal si coniugava con la necessità dell’Organizzazione di stringere il controllo sulle funzioni di creazione del consenso. A posteriori si potrebbe dire che le scelte di Togliatti servirono a compattare il Partito Comunista (creando una Comunità politica nello Stato italiano), a non farlo oscillare sotto i duri colpi della propaganda democristiana ed ecclesiastica. Non riuscì completamente, però, l’assalto al consenso dei “ceti medi” e dei “cattolici”, indispensabile per accedere al Potere.

Il problema del rapporto tra Cultura e Politica, posto nuovamente all’ordine del giorno nell’immediato dopoguerra, non si riduce ad un tentativo “libertario” di qualche personalità autonoma della Cultura contro la temibile oppressione politica di un Partito dogmatico e bigotto (per rimanere al caso specifico del nostro esempio, ma questioni simili potevano accadere anche altrove). La questione da considerare è che in quei giorni, per molti aspetti entusiasmanti, si stavano radicalmente riformando le Istituzioni della Repubblica italiana; si stava fabbricando lo Stato e la base di massa su cui fondarne i presupposti democratici e di consenso. Le Organizzazioni di Partito, come la Chiesa e tutti i movimenti intellettuali che si proponevano all’attenzione del pubblico, erano, potenzialmente, mattoni e cemento di quel processo costituente. Un serrate le fila, in questi settori della vita pubblica italiana, era comprensibile (e doveroso, nella logica soggettiva del consenso). Ogni Organizzazione politica, infatti, cercava di costruire la propria Narrazione per conquistare le alleanze necessarie e governare. Basti pensare, alla scomunica che la Chiesa cattolica lanciò contro i “comunisti” (1949) per prendere chiaramente le distanze dall’ideologia marxista (stava nascendo qualche commistione tra la dottrina sociale della Chiesa ed alcune aree del comunismo). In questo clima la funzione culturale degli intellettuali, e delle Organizzazioni di massa, non rappresentava un mero “esercizio di stile” auto-referenziale, bensì diventava parte fondamentale del processo democratico perché serviva a produrre, mantenere ed organizzare gli universi simbolici dentro cui raccogliere pezzi di Società e coinvolgere le masse popolari. L’intellettuale era messo al lavoro nella creazione dell’immaginario collettivo e del consenso, ed assumeva una funzione “ausiliaria” rispetto al Governo di un gruppo sociale sugli altri.

BIBLIOGRAFIA
* Il Politecnico, Elio Vittorini (1945-1947);
* Quaderni del Carcere, Antonio Gramsci (1932-1935);
* Manifesto degli Intellettuali anti-fascisti (1925).

4 pensieri su “La funzione Democratica della Cultura nella Società di Massa

  1. Grazie dell’intervento Zapata! al di là del tema pricipale della tua email, e cioè il tema della costruzione del consenso, mi ha colpito un tema che è emerso in maniera significativa e cioè quello dell’autonomia dell’intellettuale. Se per Gramsci ed il PC la pretesa idealista dell’intellettuale era nefasta, e l’intellettuale era quello organico, allora mi chiedo perchè vi furono intellettuali che furono assorbiti dal consenso (es: Heidegger) e altri che vi seppero oppore dei preziosi anticorpi. Gli stessi intellettuali che magari osannavano baffone Stalin in Francia e che coraggiosamente fecero dietro front quando si accorsero dove erano diretti i carri armati sovietici. Ralf Dahrendorf li chiamerebbe erasmiani. Gramsci non avrebbe mai sospettato che proprio un intellettuale coraggioso come Enrico Berlinguer avrebbe portato autonomia al PC italiano, lui che già si era accorto delle stranezze di Stalin. Che anticorpi sono? Sicuramente quel gusto (e lo dico con convinzione) tipicamnete borghese, quella vera ed unica invenzione dell’occidente, e cioè l’individuo, che affonda le sue radici nel pensiero greco (meglio, nei “pensieri greci”) e nella loro tremendamente tipica idea di libertà ed autonomia.

    Una nota a margine: spero che questo blog sia davvero una riedizione del Politecnico di Vittorini. Guardare alla terra, ma da mille angolazioni diverse, in autonomia. Solo così ne emerge lo spessore e la fragranza dell’Humus! Abbiamo bisogno di terra, ce la stanno pian piano togliendo da sotto i piedi, col nostro tacito consenso, noi, intellettuali di regime. Buoni odori a tutti 🙂

  2. In realtà l’intellettuale Enrico Berlinguer (solo perchè l’hai citato tu) era pianamente organico alla strategia del Partito Comunista del compromesso storico. “Organico” non vuol dire diventare fossile di un qualche tipo di astrazione, bensì essere armoniosamente inserito nello sviluppo storico e sociale (quindi, Politico), di un’Idea. Significa essere “Umano troppo Umano”, per dirla con Nietzsche.

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