Antropologie negative, modernismo e antimodernismo. La filosofia di Giovanni Paolo II

(Nell’immagine al lato, un quadro di William Blake)

Sul tema della filosofia di Giovanni Paolo II abbiamo già pubblicato recentemente un intervento (link). Aggiungo sull’argomento una interessante pubblicazione di Micromega, intitolata Karol Wojtila. Il grande Oscurantista, con interventi di Kung, Franzoni, Gigante, Flores d’Arcais, Coda, Severino, Bianchi, Vattimo, Riccardi, Cacciari, Galimberti, Savater, Kolakowski, Marchesi, Viano, Paglia, Pavanelli. A parte il titolo un po’ sensazionalista, ed il taglio di Flores d’Arcais secondo me un po’ troppo impegnato a mostrare un Giovanni Paolo II scagliato contro l’illuminismo, il libro offre un’ottima panoramica filosofica/teologica sul pontefice. Riguardo il suo anti illuminismo, affrontato più volte da Flores d’Arcais, vanno aggiunte delle precisazioni: non è certo Giovanni Paolo II più di altri pontefici contro l’illuminismo. Tesi forte del mio intervento, di cui verrà data spiegazione, è che la Chiesa è per sua essenza, ideologia e struttura, anti illuminista e antimodernista, per le tre ragioni che vedremo in seguito.

1)L’antimodernismo della Chiesa cattolica è atavico, ed è tutt’uno con la nostalgica avversione all’individualismo e alla secolarizzazione dell’idea di “salvezza”, idea di origine, è opportuno dirlo, giudaico-cristiana. L’illuminismo combatuttto dalla Chiesa è riassunto dal “luciferino” e gnostico/goetiano “noi siamo dèi”. Quell’ergersi come datore di verità e valori combattuto dall’ebraismo e dal cristianesimo, ed additato come il primo peccato, quello dell’Eden. Dio proibì all’uomo di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. E’ l’inizio dell’antropologia negativa, della sfiducia nell’uomo. Il Dio ebraico/cristiano è convinto che l’uomo non possa sopportare il peso di un tale sapere, e ne morirebbe. Come convincerlo del contrario? Aggiungo però quanto segue: Il “noi siamo dèi”, pur se lo analizziamo con la valenza goethiana/luciferina – ha in sé un appello positivo e unico: del resto lo stesso Prometeo, il vero anti-dio di Goethe, è l’uomo che per il bene dell’umanità si ribella agli dei, a Zeus, dio geloso del fuoco che fa di tutto perchè l’umanità rimanga in stato di minorità (come il dio dell’antico testamento riletto dagli gnostici). Chi si ribella a dio può essere solo un altro dio (l’ uomo?). Il giovane Goethe si pone in una posizione divina, come se il rango divino spettasse all’umanità. Ma lo stesso grande Goethe risente di una classica deformazione, come se questo ruolo di dominatore – non a caso ho usato la parola “rango” – che prima spettava a questo mostro, ora debba spettare all’uomo. Deformazione che gli viene dal dio che respirava nel mondo di allora, l’ Europa, e che ha la sua più classica espressione nalla tradizione giudacio/cristiana. Il “noi siamo dèi”, comunque lo si consideri, per me farà sempre appello al combattimento fra l’uomo e quella aberrante e tradizionale immagine di dio. Il dio onnipotente, il dio trascendente, il dio società, o il dio natura. Fa appello al combattimento fra l’uomo e tutte quelle ideologie che da sempre lo hanno partorito. L’emancipazione prometeica/illuminista dell’uomo da dio è l’emancipazione da quel vecchio arrogante dio, l’uomo, che alienandosi da se stesso crea e creava, ad esempio, una morale eteronoma, ma che invece è positiva, e bisogna andarla a pescare dagli abissi dell’anima umana e dall’incontro con altri uomini.

Se fossimo degli osservatori imparziali delle realtà religiose umane, non troveremmo alcuna differenza fra un Prometeo, singolare imago greca della condizione umana, che si fa squartare dalla volontà di Zeus per bene
dell’umanità, e Cristo, che si fa squartare, per il bene dell’umanità, per la stessa volontà misteriosa del dio di cui parlavo prima. E’ sempre lo stesso singolare combattimento fra uomini e titani, lo stesso scontro luciferino, il vero armaggedon che demistifica il vecchio mito. La lettura filosofica della teologia della morte di dio effettuata sulla passione di cristo è, da questo punto di vista, affascinante e provocante anche per il mondo laico. Gesù che grida in croce diventa un anti dio, è colui che tramite gli eventi, lo nega. E’ il finalmente disilluso Gesù che scopre che questo “dio fuori di lui” non verrà a salvarlo. Il vecchio dio è morto, e muore con Gesù. Grandezza, bassezza, violenza, sacrificio, purezza, umiltà, gloria, potenza, non dobbiamo più andare a cercarle fuori di noi, ma dentro di noi. Si conclude il cammino del saggio; il saggio che cercava DIO per il mondo, non sapendo che lo aveva nelle “tenebre splendenti” della propria casa. Mi si potrebbe certo rispondere che Prometeo era uomo (nella versione di Goethe) e che Gesù è Dio (nella versione della Chiesa). Che se il primo si innalza, il secondo si abbassa. Per me il problema fondamentale non cambia, ma viene affrontato in due maniere divere. Se di sfida si parla nel primo, Gesù invece parte dalla sfida ma arriva ad una riconciliazione, ad una redenzione con quella idea di dio “mostruosa” di cui ho parlato.

2) La Chiesa è contro l’illuminismo perché è l’ideologia che ha inventato l’individuo. La Chiesa continua ad essere contro forme individuali di religiosità in nome di un collettivismo che impedisce, spesso, qualsiasi presa autentica e genuina di posizione. Di conseguenza, non condivide alcuni dei risvolti dello stato laico, con le sue tendenze alla privatizzazione della religione, o comunque, a sposare un lato comunitario con un lato individualistico del proprio culto.

3) La Chiesa è contro l’illuminismo ed è antimodernista anche per un’altra ragione. L’antimodernismo (che è essenzialmente un anti illuminismo) della Chiesa si sposa ed è alleato con quello di alcuni partiti di destra: storicamente, però, sono un tutt’uno. E’ normale che ci siano richiami più che evidenti fra l’antimodernismo clericale da una parte e l’antimodernismo politico di tradizione realista/fascista e dei partiti di estrema destra. Le ragioni storiche di tale connubio sono chiare. Da quando la rivoluzione francese è sussunta come il simbolo del crollo delle vecchie gerarchie (sia secolari che religiose), vi sono stati sempre filoni conservatori che hanno visto nel passato mitico prerivoluzionario (spesso, nel medioevo, da qui la sua riscoperta da parte del romanticismo) un modello da seguire. Con questa matrice “radicale” (cioè, tornare alle radici) nasce in parte il romanticismo europeo. La predilezione per l’incontaminato, spesso per la cultura contadina e la religiosità popolare è l’espressione di questo ritorno alla purezza dei valori pre-illuministici, della immobilità sociale asfittica del passato mitico. Fa pensare che una della prime opere del romanticismo europeo, Ivanhoe di Walter Scott, sia ambientata in Scozia, la terra che, anche nell’immaginario, era quella delle tradizioni e delle signorie, ai bordi della vita cittadina europea, città in cui, al contrario, trionfava l’uomo nuovo, di cui Napoleone incarnava il modello. Il figlio di nessuno che, non per i suoi natali né per il suo rango, ma solo per le sue capacità, diviene l’imperatore d’Europa. Non mi stupisce molto che la Chiesa cattolica proibì i romanzi di Balzac. Forse quello che è il più grande scrittore/sociologo (come Sartre ammise) d’Europa raccontava magnificamente quelli che erano i nuovi miti della borghesia europea, le loro illusioni, la fine delle loro illusioni di provinciali, la creazione di nuove classi abbarbicate sui vecchi privilegi. L’ideologia anti-borghese ed il populismo “romantico” di una certa Chiesa non poteva che essere, assieme a quello dei partiti della destra, un anti illuminismo. Il filo rosso si lega alla critica della modernità di Leo Strauss, dando ampie armi all’attuale deriva teocon. Ma, come vedremo, l’intervento di Cacciari nella pubblicazione di Micromega complica le cose, e le problematizza ulteriormente dal punto di vista storico-filosofico.

Torniamo alla pubblicazione di Micromega: è un lavoro collettivo interessante che da voce a più voci, anche molto diverse fra loro. Più interessante di tutti gli altri interventi reputo quello del sempre lucido Cacciari, che qui riporto. Mi pare abbia centrato il vero problema filosofico/teologico di una certa teologia cattolica, compresa quella del papa polacco. A quello che scrive, aggiungo solo un dato: la vecchia opposizione fra l’ultimo dei greci, Pelagio, ed il primo vero filosofo cristiano, Agostino, si ripropone nel corso della storia della Chiesa in maniera ripetitiva ed ossessionante. Anticamente vinse l’antiumanista Agostino e Pelagio fu scomunicato; rimane solo da vedere quando, nel prossimo futuro, tornerà a vincere il monaco Pelagio.

I rapporti del papa con l’illuminismo, con la modernità, con i totalitarismi sono rapporti complessi, come complessa, e anche contraddittoria, è la sua figura. La sua posizione nei confronti dei totalitarismi in senso specifico è già in se molto differenziata, anche se questa differenza il papa l’ha espressa più volte in modo assai esoterico. La sua critica ai totalitarismi non è altro che la punta dell’iceberg di una critica complessiva al mondo moderno, ma non ne deriva direttamente. Papa Wojtyla distingue acutamente i diversi tipi di totalitarismo, al contrario di quello che fanno Berlusconi e simili. Da un lato riconosce nella tradizione comunista una vera e propria eresia, contro cui va combattuta una lotta senza tregua, senza quartiere; ma un’eresia, come tutte le eresie, è qualcosa che sta anche dentro la grande tradizione. Dall’altro riconosce, e ha sempre riconosciuto, nel nazismo – anche prima della notorietà, nei suoi scritti degli anni Cinquanta e Sessanta, che sono i più impegnativi filosoficamente – non un’eresia, ma una sorta di male assoluto, un’incarnazione del nemico, dell’Anticristo, dell’antikeimenos, che si contrappone nettamente alla grande tradizione, senza condividerne in alcun modo nessuna parte. Già questo mostra quanto sia difficile una reductio ad unum della sua posizione nei confronti dei totalitarismi. Poi naturalmente riconosce in entrambi, sia alle “eresie” sia alle “inimicizie assolute”, un denominatore comune: l’idea che la salvezza possa essere intesa come opera dell’uomo. Questa per lui è la quintessenza dell’ideologia. Questo spiega quanto poi, negli anni Novanta, diventi tragicamente difficile la sua posizione nei confronti di un mondo in cui la dimensione della salvezza è diventata totalmente indifferente. Ma ripeto: le ideologie contro cui il papa combatte sono queste grandi ideologie che hanno come denominatore comune l’idea che l’uomo possa essere fino in fondo fabbro della sua fortuna, fino a realizzare un mondo nel quale ogni forma di contraddizione, ogni forma di conflitto possa essere risolta. Questa formidabile teleologia, o questa formidabile filosofia della storia, che è una secolarizzazione dell’escatologia giudaico-cristiana, è totalmente assente nel mondo post-comunista e post-totalitario.

Contro questo mondo il papa si trova del tutto impotente, sguarnito di armi telelogico-filosofiche efficaci, come le aveva invece nei confronti dei totalitarismi, comprendendone anche le specifiche differenze. Questa, come dico da anni, è la vera tragedia di questo papato, il vero calvario finale di questo papa. Ora, soprattutto in Fides et Ratio, il papa aggancia questo discorso a una critica di impianto teoretico-filosofico più generale. Ma anche qui bisogna stare molto attenti, perché in questa criticaci sono elementi che non hanno niente a che fare con un fondamentalismo o un integralismo cattolico tradizionale. La critica del cogito ergo sum è una critica che attraversa tutta una corrente della cultura tedesca, anche pre-idealista, e lo stesso idealismo, che è dominante nella cultura filosofica contemporanea. Da questo punto di vista, dunque, le compagnie del papa sono quanto mai numerose: per esempio, tutta la filosofia del linguaggio da Hamann in poi è dominata dalla critica la cogito langagère, come diceva Merleau-Ponty. Attenzione: nella sua critica al cristianesimo, il papa riprende cose che gli hanno insegnato Max Scheler ed Edith Stein. Basta leggere una sua opera degli anni Sessanta, Persona e atto, per trovare una fenomenologia tutta declinata in chiave di critica della tradizione cartesiana. Una fenomenologia, dunque, ben diversa da quella husserliana. Quindi non si può vedere una continuità lineare tra questa critica, che da un punto di vista filosofico contemporaneo potrebbe essere anche banale, e la critica di Wojtyla della modernità, della contemporaneità o dell’illuminismo; perché la critica della cultura illuministica, della Bildung, è fondamentale per tutta una serie di correnti assolutamente laiche della cultura contemporanea, che con il papato, con il cattolicesimo, con papa Wojtyla, la sua cultura e la sua teologia, non hanno assolutamente niente a che fare. Lui attinge abbondantemente a queste correnti, soprattutto nelle sue opere negli anni Sessanta. E questa è la parte più caduca del suo pensiero, perché Wojtyla non discerne – in questo è in buonissima e numerosa compagnia – e ritiene che a partire dal cogito cartesiano, a partire appunto dall’esse come positum del cogito, sia possibile soltanto una deriva di carattere scettico, relativistico e agnostico. In Italia, questa era la posizione di Del Noce, ma anche la posizione di Pareyson, che per altro verso non ha niente a che vedere con Del Noce, e così via. Questa necessaria continuità tra critica del cogito ed esito scettico-relativistico-agnostico è assunta da Wojtyla in tutte le sue opere fino alla Fides et Ratio in termini assolutamente dogmatici: è soltanto asserita. Questa è la critica che ho sempre mosso a queste posizioni, perché non comprendono come da questa critica del cogito possano darsi esiti completamente diversi, che invece non vengono in alcun modo tematizzati nell’interpretazione di Wojtyla.

Anche nel consumismo papa Wojtyla non riesce a trovare alcuna linea di compromesso – per usare una terminologia che risale a Troeltsch e a un’altra grande epoca di crisi della religiosità occidentale – con quello che è heideggerrianamente si direbbe il Gestell, l’ “apparato”, “il sistema”, l’ “impianto tecnico-scientifico”. Egli vede ovunque progetti autoreferenziali, e ciò che intende – eroicamente, per un certo verso – a indicarci ancora come unica salvezza possibile è una grande architettura di timo tomista, dove ogni disciplina, ogni dimensione della cultura è sotto-ordinata, e si riconosce come membro di un insieme, di un tutto cristianamente orientato, cristocentrico. Le conseguenze di questa architettura tomista, della rigorosa limitazione dell’autonomia del soggetto, sono molteplici. L’aborto, per esempio, è per Wojtyla – con una coerenza per certi versi ammirevole – l’equivalente dell’olocausto, esattamente come per Heidegger, ancora in assoluta coerenza con il suo discorso, è un equivalente dell’olocausto la manipolazione genetica delle piante o degli animali. Entrambi, rispettivamente, date quelle premesse devono concludere in qualche modo, perché non vedono la contraddittorietà e la complessità del moderno. La modernità scaturirebbe meccanicamente dalla metamorfosi del soggetto, dell’upokeimenon – non aristotelico, ma tomista – in soggetto moderno, in ego. Da qui traggono tutte le possibile conseguenze dirette, unilinearmente, univocamente, ovunque, in tutti i campi. E laddove non posso trarre linearmente queste conseguenze – e questo è caratteristico di Wojtyla come lo era di Del Noce – vedono il nichilismo. Di qui i riferimenti a Kafka, Dosteoevskij, e così via, cioè a drammi tutto sommato sentimentali, psicologici, ma che non indicano alcuna via diversa rispetto a quella che loro hanno tracciato. L’unica strada è quella del ristabilimento della grande architettura dell’universalismo teleologico tomista. (Massimo Cacciari, in Karol Wojtyla. Il grande oscurantista, pp. 83-87, Micromega)

3 pensieri su “Antropologie negative, modernismo e antimodernismo. La filosofia di Giovanni Paolo II

  1. Secondo me, Giovanni Paolo II é banale, per questo ha avuto successo e per questo viene commentato. Se quegli scritti fossero stati composti da pinco pallino nessuno li avrebbe considerati. Qui si confonde semplicitä con semplicismo. La banalitä é sempre estremamente pericolosa, perché genera un´ampio consenso…un consenso violento. Tuttavia questo semplicismo colpisce a mio avviso “i micromeghiani” come Flores o Scalfari (non ho letto l´intervento specifico, ma in altri interventi…) concentrati sulla difesa indefessa dell´illuminismo come unico contesto in cui possa manifestarsi una criticitä. Aldilä del fatto che bisognerebbe capire che cos´é l´illumismo (non penso sia possibile ridursi alla risposta kantiana) o meglio cosa é stato, o meglio ancora cosa ha prodotto, o nello specifico se la modernitä é riconducibile all´illuminismo o se questi ne sia solo un´espressione ( per i Flores la parte sana—emancipante) nonché il rapporto tra idee- discorsi- storie e controstorie. Ora questa complessitä di questioni é ridotta tutto sommato ad uno schema bene/male in cui ricade anche (a mio avviso) Habermas quando vede nella salvezza degli spazi dell´agire comunicativo la possibilitä di una criticitä ed emancipazione (anche io banalizzo). Insomma i neo-illuministi lavorano a mio modo di vedere con un´antropologia negativa e con un concetto di razionalitä univoco e lo scopo o l´agire politico si riduce alla salvezza dell´individuo come idea, versione secolarizzata della salvazza dell´anima( non a caso non sono mai messe in discusione idee come mercato, tribunale, legge, liberalismo e perfino potere). La lotta o la disputa contro Woijtila é perciö concentrata sullo stesso oggetto o precisando ancora meglio sulla forma/e di potere sull´oggetto. La chiesa con i suoi sacramenti o lo stato con le sue istituzioni duellano con i loro campioni (sempre piü scarsi) sul medesimo. Tuttavia si tratta di una lotta banale e banalizzante perché individuo e anima sono finiti, sepolti, ciö che resta sono corpi frammentati e spiriti inquieti irriducibili a qualsiasi unitä statica. Niente di piü e meno che carne da macello.

  2. (u tedesk) Banale può esserlo Flores, io penso che Giovanni Paolo abbia distinto, come ben individua Cacciari (non condivido in toto il suo intervento), la portata e la tipologie dei vari pericoli insiti nelle ideologie del Novecento. Banale Giovanni Paolo può esserlo agli occhi di un filosofo (e neanche tanto), penso che il suo ruolo fosse diverso rispetto al mettersi a discutere di teoretica. Del tuo intervento però condivido quello che dici a riguardo dei limiti dei “neo-illuminiasti”, anche se è un vizio proprio di Flores d’Arcais quello di costruire un novello giusnaturalismo. Sui diritti umani è una operazione che va pure bene, su tutto il resto diventa una bomba pronta ad esplodere in qualsiasi momento.

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