Jan Patočka, Il mondo naturale come problema filosofico. Una recensione

a cura di Guelfo Carbone *

Pubblicato a Praga nel 1936, Le monde naturel comme problème philosophique (Nijhoff, La Haye 1976) è lo scritto di abilitazione del giovane Jan Patočka, che fu, come è noto, allievo diretto sia di Husserl che di Heidegger. Del primo assistette nel 1929 a quei Discorsi parigini che formano il nucleo delle Meditazioni Cartesiane, del secondo nel 1933 seguì a Friburgo i corsi universitari posteriori a Essere e Tempo, non rinunciando però a proseguire gli studi privatamente con Husserl e Fink. Decisive, in particolare per il Mondo naturale, furono le conferenze di Vienna e Praga del 1935, quest’ultime confluite nella I e II parte della Krisis, le uniche pubblicate da Husserl, l’anno successivo, proprio nel 1936, contemporaneamente a una recensione dello stesso Patočka. Patočka dunque visse in prima persona il conflitto aperto tra il padre della fenomenologia e il suo «miglior allievo» eretico, e quel suo primo significativo contributo alla filosofia fenomenologica ne porta tutti i segni evidenti. Ma non è questo il merito del suo libro. O perlomeno non è questo il motivo dell’interesse per uno studio che per forma e contenuti si presenta, a prima vista, con intenti principalmente divulgativi e riepilogativi della fenomenologia. È l’intuizione che sta al fondo, o a monte, del lavoro di Patočka che risveglia l’interesse – fenomenologico, in primo luogo, ma non solo – per il tema di cui si fa portatore, quello appunto della costituzione del mondo in cui ognuno di noi vive e può vivere, quel mondo «unico e comune» di cui parlava Eraclito (fr. 89, Diels-Kranz), al centro delle riflessioni husserliane nella Krisis.

Il problema del mondo, che secondo Fink era la questione «centrale» della fenomenologia, ha – nell’opinione di chi scrive – provocato in maniera determinante l’esigenza della «nuova fenomenologia» che mosse le Meditazioni Cartesiane di Husserl e ciò che ne seguì. Ed è un filo rosso del pensiero del suo allievo eretico, che si dipana dall’inizio (i primi corsi pubblici a Friburgo) alla fine (il Mondo-Quadro del dominio tecnologico), oltre che un compito del pensiero odierno. Sta dunque qui la ragione principale dell’interesse per il libro di Patočka: averne sospettato l’importanza al punto da farne un polo di gravitazione dei temi fondamentali della fenomenologia e del suo metodo (l’intenzionalità, la riduzione, l’empatia, la costituzione intersoggettiva), che vengono qui discussi in relazione alla riabilitazione del mondo naturale operata dalla fenomenologia husserliana in aperto contrasto con le altre filosofie sue contemporanee, e pure, in particolare, con le scienze.

Scritto in ceco, il Mondo naturale si rivolge innanzitutto alla comunità scientifica ceca, di cui riporta, all’occasione, brani di dibattito e relativi risvolti critici. Parallelo alle riflessioni della Krisis husserliana, ne assume pienamente l’impianto speculativo, prendendo come punto di partenza la constatazione di uno «stato d’animo globale», ossia il «nichilismo», che si è impadronito dell’uomo moderno a seguito di una programmatica svalutazione del mondo della vita. Scelta fatale, quest’ultima, da cui secondo Patočka deriva la crisi del suo tempo presente (MN, 6).

L’uomo moderno – si avverte nell’Introduzione come fosse lo sfondo storico della trattazione – non ha una concezione unitaria del mondo, ma vive in un mondo doppio: immediatamente nel suo ambiente, che trova già dato, e contemporaneamente nel mondo creato dalle scienze moderne, basate sul principio per cui le leggi naturali sono essenzialmente leggi matematiche. Che essi siano paralleli o che l’uno venga preso come il duplicato, instabile e sempre revocabile dell’altro, ciò non cambia l’atteggiamento di fondo nei confronti del problema del mondo. I filosofi che si sono adoperati per trovare una via di uscita nella maggior parte dei casi hanno fallito, perché tutto ruotava intorno alla loro unica mira: liberarsi dell’uno o dell’altro dei due membri dell’opposizione (ambiente naturale o mondo della scienza), riducendo uno dei due a parte o risultato dell’altro. La fenomenologia e il suo soggettivismo trascendentale hanno posto un termine a questo riduzionismo, segnalandone un’alternativa, a suo modo già implicita nella metafisica moderna (Patočka indica naturalmente Kant come predecessore).

Questa la prospettiva generale in cui Patočka inquadra il suo lavoro del 1936. Ma quella del mondo non è l’unica questione centrale della fenomenologia che ha il merito di far emergere, precocemente, in tutta evidenza, cogliendo l’essenziale della fenomenologia. Ad essa l’autore stesso allega una riflessione che occupa significativamente il quarto e ultimo capitolo, e che, come egli stesso avverte, è del tutto sperimentale: quella sul linguaggio. La costituzione mondana del soggetto da una parte, e il linguaggio come fenomeno privilegiato di accesso ad essa sono i due aspetti che risaltano maggiormente di questi iniziali, ma per nulla acerbi studi fenomenologici di Patočka.

1. La terza via anti-riduzionista: la costituzione intersoggettiva del mondo

Patočka lega il destino della modernità alla concezione di un mondo non unificato, ma raddoppiato in ambiente naturale e mondo scientifico. In questa divaricazione prende forma la vita tipicamente moderna e così anche le sue crisi. Il positivismo e il naturalismo moderni, affrontati in particolare nel Primo capitolo (e in cui troviamo annoverati senza troppe distinzioni tanto Avenarius e Mach, quanto Carnap e Wittgenstein), esibiscono questi problemi, senza però poterli risolvere.

Con la fenomenologia – il primo volume delle Ideen è il testo husserliano citato più spesso – si palesa un’altra soluzione, non si fermi all’alternativa tra ambiente vitale e mondo scientifico, e non operi riduzioni di sorta. Quella fenomenologica è affatto una terza via, non riduzionista, concentrata sull’attività soggettiva che, in maniere differenti ma in entrambi i casi, dà forma a ciascuno dei due mondi.

Soggettività costituente e non arbitraria, metodo analitico positivo ma non psicologico sono anche i presupposti metodologici del lavoro di Patočka. L’intreccio tra soggetto e mondo, ossia lo «schema globale» (MN, 2) tramite cui l’uomo, senza rendersene esplicitamente conto, si rapporta all’universo che lo circonda, ne è l’oggetto.

Solo nel Terzo capitolo (dedicato al fenomeno del mondo naturale) Patočka comincia il lavoro analitico concreto. Nel secondo paragrafo sono passati in rassegna quei filosofi che, prendendo le distanze da ogni metodo e sistema costruttivisti, hanno concepito il mondo come uno schema ontologico. L’attenzione è rivolta a Kant, Humboldt, Dilthey, Simmel, ma soprattutto a Husserl e Heidegger, per quanto lo spazio loro dedicato sia molto ridotto. Al problema della schematizzazione ontologica del mondo naturale sono legati anche altri filosofi e scienziati (come von Uexküll, Bergson, Lévy-Bruhl, Piaget), e nella scuola diltheyana sono indicati gli unici tentativi di trattare seriamente la questione dal punto di vista della storia delle idee e della filosofia della storia.

Ora, proprio la revisione dei caratteri peculiari dello schema ontologico che emergono in questo capitolo rappresentano l’apporto originale del Mondo naturale alla fenomenologia. Secondo lo schema di Patočka, infatti, il mondo naturale è segnato dalla contraddizione tra domicilio e estraneità, è definito dalla dimensione temporale e colorato dagli stati d’animo. Questo schema ontologico sembra a prima vista ricalcato sull’impianto di Essere e Tempo, di cui il Mondo naturale non sarebbe altro che una sorta di epitome con l’aggiunta di uno sguardo storiografico alle correnti contemporanee del positivismo e del naturalismo. Eppure proprio quello schema è ragione non solo di una critica perspicace all’opera maggiore di Heidegger, approfondita nella lunga Postfazione che chiude il volume, ma deriva da un’intuizione felice riguardo al work in progress della fenomenologia husserliana.

È certo uno dei meriti di questo libro aver insistito sulla svolta che stava animando le frenetiche ricerche husserliane per correggere il tiro del metodo fenomenologico, cioè sulla radice intersoggettiva della costituzione del mondo, ignorata dal naturalismo e dall’obiettivismo moderni. Per Patočka, che coglie in pieno lo spirito innovatore delle Meditazioni Cartesiane, l’intersoggettività è la «nozione concreta» di soggettività, altrimenti la fenomenologia non sarebbe altro che un solipsismo trascendentale[1]. Le monadi che compongono la soggettività trascendentale collaborano, si costituiscono insieme, «costituire è co-costituire» (MN, 71).

Il mondo intersoggettivo è accessibile ai diversi individui e, in linea di principio altrettanto ugualmente accessibile, questo uno dei risultati più importanti della fenomenologia. Ma – ed è questo il punto in cui Patočka coglie un’insufficienza tanto husserliana che heideggeriana – la costituzione intersoggettiva del mondo non è un processo astratto il cui ruolo sarebbe identico in ogni caso e relativamente a tutti i soggetti. L’unità del mondo che ne deriva è quella di uno «stile di esperienza» definito dalla «comunità di vita di cui facciamo parte» (Patočka riporta come esempi, certamente rozzi ma di uso corrente al suo tempo, quella del borghese, del contadino, del selvaggio o del civilizzato ecc; MN, 79). Come approcciare fenomenologicamente questi mondi comuni, che, come cerchi inanellati si intrecciano, confondendosi reciprocamente i confini? È una domanda che, se non trova risposta nel testo, trova almeno (e non è poco) l’opportunità della sua formulazione.

L’analisi della costituzione intersoggettiva del mondo rimane tronca senza l’inclusione delle «categorie materiali» che la sorreggono, della “carne” delle monadi, per così dire. Questa una delle tesi più interessanti del testo, che troviamo nell’ultima parte del Terzo capitolo. Ma quali sono le categorie individuate da Patočka? «Altri» è il nome proprio di «una delle prime e più importanti categorie materiali», seconda solo al pragma, alla cosa d’uso, strumento passivo primario di qualsiasi agire.

Però la dimensione della collettività («communauté») diviene rilevante agli occhi del fenomenologo non in ragione di una remissione impotente alla sua ingombrante presenza (come accade per esempio nella fenomenologia di Lévinas), ma in forza della collaborazione cui siamo votati, perché non si dà comprensione tra gli uomini se non quella che si costruisce «sulla base di un’opera comune» (MN, 118). Le due tendenze basilari dell’essere umano a «disporre» e «comunicare» (MN,109) sono le fondamenta dell’opera comune che dà luogo al nostro mondo naturale, in cui però «non vi è nulla di naturale» (MN, 81)[2]. L’intreccio tra domestico ed estraneo che lo struttura non definisce infatti mondi compartimentati, ma è piuttosto l’indice di qualcosa che non mi appartiene in via esclusiva, il segno di una comunanza (di nuovo: «communauté») che non è integralmente “nostra”. Da qui l’essenza composita del mondo naturale che risulta dall’analisi dell’intersoggettività di Patočka, insieme (e irriducibilmente) conflittuale e solidale (MN, 118).

Le categorie materiali elencate da Patočka nel sesto e ultimo paragrafo del Terzo capitolo sono gli a priori della riflessione trascendentale sull’esperienza ingenua, dipendono dal nostro «essere-al-mondo», e non sono derivati da un’universalizzazione del suo contenuto (MN, 120). Tuttavia, qualunque forma assuma, questa riflessione suppone già il linguaggio, ossia l’altra categoria materiale incontrata nell’analisi dell’intersoggettività.

2. Lo «Schizzo per una filosofia del linguaggio e del parlare»

Alla fine del Primo capitolo Patočka espone quella che è la tesi che come un filo rosso si dipana lungo tutto il lavoro (e che ritroviamo anche nelle sue riflessioni più tarde): la metafisica non è possibile se non come ripresa del vissuto del reale nella sua totalità. Questo compito «infinito» non può essere portato avanti dal pensiero teorico, ma apre invece la strada alla filosofia della storia, che dovrà rendere conto proprio delle teorie e della loro origine, amministrando il risultato, raggiunto ma non pienamente dimostrato, del primato del mondo naturale-ingenuo su quello scientifico, e di conseguenza la necessità di dare fondamento al pensiero teorico sul mondo del senso comune. Il primo passo per penetrare nel legame tra i due mondi è compiuto appoggiandosi proprio a ciò che ci dà l’accesso al livello della coscienza teorica, ossia al linguaggio (MN, 29).

Il riferimento al linguaggio consente a Patočka non solo di spiegare come mai il mondo ingenuo non potrebbe essere esplicitato integralmente nel quadro teorico delle scienze psicologiche e matematiche, ma anche di inserirsi in quella divaricazione tra mondo naturale e mondo scientifico da cui aveva preso le mosse il suo lavoro. In questo modo Patočka si pone sulla scia della Krisis husserliana, rispetto alla quale il Quarto capitolo, l’ultimo del Mondo naturale, può essere considerato una sorta di prosecuzione ideale.

Nella prospettiva del Mondo naturale, il linguaggio è la via di accesso alla critica al pensiero teorico, senza la quale nessuna riabilitazione del mondo naturale sarebbe possibile. Da cima a fondo strumento della pratica quotidiana, il linguaggio è «il grado pre-liminare di ogni teoria possibile». Questo lo lega in modo indissolubile al problema del mondo naturale, inserendolo nell’«orizzonte universale» della vita in comune.

Al momento in cui si destano l’interesse e l’attività teorici l’universo dell’uomo, lo «sfondo» di ogni esperienza umana, è già costituito. L’attività teorica non dà luogo ad alcuna nuova realtà, bensì ci porta in una relazione «più intima» con le cose circostanti. Tuttavia – ed è qui che sorge l’urgenza dell’interrogazione fenomenologica sul linguaggio – questi momenti dell’esperienza (a differenza degli altri) offrono la possibilità di comprendere la loro condizione. La teoria può mettere a nudo ciò che la rende teoria, e questo accade in un fenomeno particolare, quello del linguaggio, appunto, che per Patočka è «al tempo stesso testimone e risultato del carattere accidentale della teoria» (MN, 121-23).

È proprio il carattere misto del linguaggio – né pura origine, né mero strumento derivato – a costituire l’interesse per il fenomeno, interesse che si aggiunge come naturale sbocco di un percorso che, va ricordato, ha di mira una critica all’obiettivismo moderno delle scienze e delle filosofie scientifiche e la riabilitazione del mondo naturale come problema filosofico. Il linguaggio viene presentato, insomma, come il banco di prova su cui confutare l’indebito riduzionismo delle filosofie obiettiviste moderne.

Ad essere preso di mira è ancora una volta il pensiero positivista, in cui Patočka fa rientrare anche il Tractatus di Wittgenstein, oggetto di una critica (non molto approfondita in verità) nel quinto paragrafo. Ogni teoria, filosofica o scientifica si basa sul legame tra pensiero e linguaggio e si riferisce al mondo naturale precedentemente dato. Ma in nessun caso una teoria – questa l’obiezione di Patočka – può svilupparsi in maniera indipendente: essa presuppone sempre il terreno fertile del mondo naturale e della vita umana. Non possiamo separare una teoria dalla sua funzione vitale, mentre viceversa occorre comprendere ogni teoria a partire proprio da questa funzione.

Riabilitare il mondo naturale implica uno sguardo più ampio sul linguaggio, non derivato dalla teoria scientifica o filosofica, ma diretto ai fenomeni concreti, quali appunto il parlare. Il capitolo rimane un abbozzo, e non offre accenni a fenomeni concreti. Nonostante questa carenza un punto chiaro possiamo individuarlo: il linguaggio è la via di accesso al mondo e senza un’analisi di questo fenomeno la fenomenologia rimane ingabbiata nel solipsismo trascendentale, e nella corrispettiva astrazione. E se il mondo naturale è sempre espressione di un conflitto tra collettività, la comunicazione linguistica da parte sua si presenta come «strumento esistenziale del conflitto eternamente rinnovato in seno alla società» (MN, 132).

L’edizione francese da cui leggiamo aggiunge alla fine una Postfazione dell’autore che data quarant’anni di distanza dalla prima edizione del 1936, un anno prima della morte del filosofo, avvenuta nel 1977 a Praga per mano della polizia sovietica ceca. Non possiamo qui seguire l’andamento di questa lunga appendice, in cui troviamo condensate le critiche a Essere e Tempo (in verità già implicite nel testo del 1936).

Quarant’anni dopo – notiamolo per concludere – Patočka esprime più nettamente la sua posizione fenomenologica, che corregge parzialmente quella adottata nel 1936, esplicitandone in ogni caso delle tendenze già latenti. L’ontologia fondamentale di Essere e Tempo – fallimentare, per altro – completa, radicalizzandola, la fenomenologia husserliana, componendo con essa un unicum fenomenologico: «seguendo il cammino che abbiamo tracciato non intendiamo assolutamente rimpiazzare un sistema fenomenologico con un altro. Esprimiamo piuttosto la nostra fede nell’unità della fenomenologia» (MN, 179). Lo studio della fenomenologia può oggi prendersi in carico proprio questa unità, non come un suo tacito e ovvio presupposto, anzi, come ottica su di sé e la propria sorte, come orizzonte in cui verificarsi costantemente.
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* Guelfo Carbone è dottorando in Filosofia e Storia della Filosofia presso l’Università “La Sapienza” di Roma. E-mail: guelfo.carbone@gmail.com


[1] Si vedano le riflessioni husserliane nei Discorsi parigini, cfr. Meditazioni Cartesiane, Bompiani 2002, p. 29.

[2] Il mondo naturale della fenomenologia non ha nulla a che vedere con l’ambiente vitale romantico e neoromantico, quel mondo della natura «genuina» che larga parte aveva avuto nell’ideologia nazional-patriottica del Volk tra Otto e Novecento (si veda la prima parte di George L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich).

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