Recensione a Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, a cura di Matteo Giangrande

Eraclito l' "oscuro" (Skoteinòs), in un dipinto di Hendrick ter Brugghen, 1628

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Il fulmine governa ogni cosa (fr. 64)

Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno (fr. 50)

Le cose della più grande importanza non dobbiamo giudicarle a caso” è il motto proposto da Heidegger per il seminario su Eraclito, condotto insieme all’allievo e amico Fink, la cui trascrizione costituisce il testo, edito da Laterza all’interno della collana “I libri dell’Ascolto” diretta da Vittorio Tamaro, che qui viene recensito. Il tentativo del seminario è quello di spingersi fino alla «cosa stessa del pensiero», oscura nella sua modalità d’essere e d’accesso, che stava dinanzi allo sguardo spirituale di Eraclito, pensatore storicamente imponente, che, nonostante dimori all’origine dell’Occidente, non è stato nella storia del pensiero mai raggiunto. Il seminario è una “pratica del pensare”, ovvero è un meditare pensieri pre-meditati da Eraclito, è uno sforzo di «interpretazione speculativa» della lingua di Eraclito, che possiede un’intima polivocità e multidimensionalità e che non conosce per nulla la differenza tra pensiero interiore e dire esteriore: interpretazione – “non più” in maniera metafisica di un testo che “non è ancora” metafisico – che prende le mosse dal contenuto espresso in modo immediato ed ingenuo e, nel corso del pensare-attraverso, perviene a un dire che non si lascia riempire da un’intuizione immediata, effettuando la transizione, indirizzata in modo selettivo dal percorso dell’interpretazione stessa, da un enunciato conforme alla percezione ad un enunciato non sensibile (ma non sovrasensibile). La proposta di Fink di un possibile “ordinamento speculativo” ha la sua ragion d’essere nell’esigenza di trovare –  restando all’interno della fondamentale difficoltà del circolo ermeneutico, nella quale ci muoviamo costantemente – un intima connessione di senso attraverso una molteplicità di frammenti. E’ bene dire subito che tutto il seminario gioca intorno ad una questione fondamentale, quella di individuare il significato dell’ap-par-tenenza di en e panta, che, come ci segnala l’eccellente Avvertenza di Adriano Ardovino, si configura come una “distinzione senza separazione”.

In questa recensione non si potrà accennare ai diversi richiami che sono presenti nel testo a vari pensatori, tra cui Kant, Holderlin, Husserl, ma soprattutto Hegel, al suo tenersi in rapporto con il mondo greco di cui si traccia una differenza radicale rispetto al tenersi in rapporto con i Greci di Heidegger. A tal proposito sia istruttivo il modo in cui si conclude il testo: «In Hegel sussisteva il bisogno del pacificante appagamento di ciò che è pensato. Per noi vige invece l’assillo dell’impensato nel pensato». Heidegger sottolineerà, nel corso del colloquio, che il percorso che Fink ha in mente per il seminario è quello di prendere consapevolmente le mosse dai frammenti sul fuoco e, soltanto alla fine, di portare allo sguardo tutto ciò che si conosce in termini di frammenti sul logos: «io miro soltanto a caratterizzare la sua via, che procede dal fuoco al logos. La mia via all’interpretazione di Eraclito procede dal logos al fuoco». Heidegger inoltre intravede una difficoltà nell’interpretazione di Fink, che pensando la totalità dello en si muove in una prospettiva cosmologica: «quando si parla dell’appartenenza di en e panta sembra che si pensi una relazione tra i due, che si sono localizzati in modo oggettivo e per i quali cercheremmo un arco che li lega assieme, tenendoli in tensione. Ma alla fine, tuttavia, le cose stanno in modo tale che l’appartenenza è lo en, che esso si tiene in rapporto a ta panta mentre li lascia essere come ciò che essi sono».

Il primo passo del colloquio comune con Eraclito condotto dai due filosofi è quello di portare lo sguardo, attraverso l’interpretazione del fr. 64, sulla singolare appartenenza (che non può essere colta in nessun modo con le comuni categorie di relazioni) tra il sintagma (non il concetto) ta panta e il keraunos, tra ‘tutti gli essenti’ nel loro complesso e la folgore, tra il molteplice-nell’uno dei panta, inteso come insieme comprensivo di ciò che è intramondano, e l’uno. Tutti gli essenti nel loro complesso sono l’insieme di tutto ciò che è nella sua individualità. L’irrompere repentino del lampo luminoso del fulmine – il chiarore di un bagliore che apre con uno squarcio – nell’oscurità della notte mostra gli essenti articolati nel loro contorno determinato: non sono ta panta ad essere l’universo, bensì ciò che forma il mondo è il fulmine stesso, nel cui bagliore le molte cose nel loro insieme pervengono al distinto apparire. Il fulmine, come successivamente il sole o le stagioni, non è altro che un emblema di un unico fondamento, il movimento producente del fuoco, di cui si indaga l’appartenenza con il movimento di tutto ciò che è prodotto. Il fuoco, che è, ad un tempo, luce e tempo, produce e si ritrae in ciò che è prodotto e nelle sue trasformazioni. Nelle trasformazioni del fuoco ciò che è determinato non permane nella propria configurazione, bensì si muove, attraverso opposizioni, secondo un’insondabile saggezza, ossia è un movimento ‘governato’. Il movimento – simbolo di quel movimento del produrre che non è esso stesso intratemporale, bensì rilascia e concede tempo – presente nello sfolgorio istantaneo del fulmine, nell’irrompere del chiarore che persevera nei movimenti delle cose fa giungere all’essere nella misura in cui è un intervento governante nella motilità conflittuale intracosmica degli essenti che si trovano nella sfera dell’apparire, conformando tale movimento al logos. Il governare, messo in relazione da Heidegger alla cibernetica e all’interpretazione del biologico in termini di teoria dell’informazione, è inteso come produzione di movimento nell’insieme dell’essente: non c’è un’autoregolazione immanente dei panta.

I panta sono, da un lato, chiamati in causa in quanto mossi in modo confome al logos non umano, mentre, dall’altro, i panta vengono chiamati in causa nel loro riferimento al conoscere umano e portati allo sguardo come un che di distinguibile. Inoltre, i panta e le loro modalità di movimento non vengono riferite solo al logos, ma anche alla contesa, considerata come l’origine dei panta che li guida e li dirige. Chiamando in causa l’appartenenza dei panta all’en e dell’en ai panta si pensa l’unità come ciò che riunisce, e il sofon è l’essenza dell’uno riunente: l’uno del fulmine, nel suo bagliore, riunisce e raccoglie il molteplice essere distinto nel suo insieme comprensivo. Il contegno degli uomini migliori – il pensatore – che preferiscono l’unica cosa che conta di contro a tutte, che prediligono l’onore della gloria perenne – l’en nella sua appartenenza ai panta – è contrapposto ai più – gli inesperti – che non ambiscono al fulgore orato della gloria, bensì si adagiano e si abbandonano, sazi come bestie, all’oscurità delle cose transeunti, alle merci, e di conseguenza non scorgono l’uno. I panta sono il portato delle ore, delle congiunture dei tempi, come il fulmine e i volgimenti temporanei del sole.

Dal fr. 64, col quale si è fatto iniziare l’ordinamento, si passa al fr. 11, dove nel colpo di sferza, che sprona un gregge e lo conduce con violenza al pascolo, sorvegliandolo, mentre lo lascia pascolare in pace, si vede un’altra parola fondamentale per il colpo di folgore, il tuono che risuona attraverso lo spazio in lontananza: la voce del fulmine sprona e guida, e spartisce e assegna il dovuto a tutto ciò che va prono. L’andare indica un carattere insito nei panta nel loro insieme, che non si mostra in modo immediato, ma soltanto con riguardo alla subitaneità della folgore, la quale, nel suo chiarore, lascia venire all’apparire ta panta. Paragonato alla subitaneità della folgore che apre la luce con uno squarcio, il movimento dei panta, raccolti nel chiarore del fulmine, è quello dell’andare proni. Tutto ciò che si aggira nella dimensione della chiarità del fulmine viene spronato dal colpo. In questo essere spronati, i panta acquisiscono il carattere di ciò che va prono. Il fuoco, non soltanto rischiara, ma misura anche il tempo. Il sole è l’orologio cosmico: non è uno strumento che indica i tempi, ma è ciò che rende possibili le Ore, che non sono il tempo calcolato, ma i tempi ciclici del giorno e delle stagioni, tempi che portano tutto [fr. 100]. I panta non sono raccolti in modo tale da essere contemporanei, ma sono nel modo secondo il quale essi si articolano, e sorgono e tramontano katà ton logon, governati dalle Ore che apportano, che portano a compimento e che portano allo scoperto. Le Ore sono la maturazione integrale, modalità dell’adempiersi, del tempo, al quale attiene il carattere del portare: fintanto che non lo intendiamo insieme alla physis, ma come il tempo omogeneo rappresentato come linea, come successione, non c’è posto per il portare. Le Ore sono manifestamente in una connessione con un fuoco, che non apre con uno squarcio in modo repentino, e nemmeno fissa tutto nell’impronta del contorno, come il fulmine, bensì, in quanto fuoco celeste, persiste e, attraverso le ore del giorno e le stagioni dell’anno, si trasforma nella durata, lasciando tempo ad ogni cosa. Il luminare celeste di Elios non resta rigidamente in un unico luogo, bensì migra sulla volta del cielo, ed è, in questo cammino sulla volta celeste, ciò che misura il tempo e dispensa luce e vita. Dunque, possiamo distinguere due sensi dei metra di Elios: i metra del corso del sole e i metra che, a partire dal corso del sole, influiscono su ciò che al di sotto di esso è alimentato dalla luce.

Un altro modo, completamente diverso, di oltrepassamento del limite si darebbe nel caso in cui Elios penetrasse in una cerchia altra rispetto a quella eliaca delle cose raccolte-distinte. Elios, che si sposta da mattino a sera sulla volta celeste, viene limitato, nella sua possibilità di deviare verso nord e sud, dall’Orsa e della pietra confinaria di Zeus raggiante, che sta di fronte all’Orsa e che si deve pensare come la potenza del giorno che rischiara l’insieme di ta panta [fr. 120]. Mentre i metra sono dei punti determinanti sulla traiettoria del sole a noi nota, i termata sono i confini estremi della cerchia della luce, un terzo significato di metra. Se si arrestasse o se deviasse la sua traiettoria solare il sole si spingerebbe oltre le proprie misure in un abisso notturno che non pertiene alla cerchia eliaca, le Erinni, le aiutanti di Dike, divinità di ciò che è giusto, lo scoverebbero [fr. 94]. Se la cerchia eliaca del chiarore diurno si espande nell’aperto senza fine, un altro confine del regno della luce è l’intrasparenza del suolo terrestre e la trasparenza limitata dell’oceano. Come le stelle sono una luce nella notte, e come la cerchia luminosa del sole ha i suoi confini nella chiusità della terra, così, in un senso più profondo, l’intero mondo di Elios, al quale appartiene l’insieme dei panta, viene circoscritto da un abisso notturno che delimita la cerchia in potere di Elios. Sui confini tra la cerchia luminosa di Elios e l’abisso oscuro vegliano le ministre di Dike. Al sole, in quanto fonte della luce, spetta soltanto, nel suo peculiare chiarore, un posto minuscolo e irrilevante, cosìcché la potenza aprente di Elios sembra essere soltanto, nello stesso spazio di luce solare aperto, una cosa insignificante [fr.3]: ciò che apre si occulta in ciò che è da esso stesso aperto e si colloca tra le cose da esso stesso circoscritte in qualità di potenza luminosa. Allorché Eraclito pensa l’unità di giorno notte, con il giorno è indicata a regione eliaca, dove è domiciliato il linguaggio, e con la notte l’abisso notturno, il riparo dell’essere, che circoscrive e delimita internamente la regione eliaca: insieme formano lo en (al di là dell’essere).

Se il fulmine è il fuoco subitaneo e se il sole è il fuoco nel regolare avvicendamento del corso del tempo, il «fuoco eternamente vivo» del fr. 30 è qualcosa che, diversamente dal fulmine e dal fuoco, non si rinviene nel fenomeno. Il cosmo, in quanto ornamento, compaginazione bella dei panta, conflittualmente mossa, è ciò che compare nello splendore del fuoco. Sebbene anche gli dèi e gli uomini siano esseri disvelanti, portanti al comparire, l’ordinamento del mondo non è opera né degli dèi né degli uomini, bensì è l’opera della più originaria poiesis del fuoco eternamente vivo (col quale dèi e uomini stanno in un contraddistinto riferimento), non però del fuoco che era ed è e sarà; il fuoco eternamente vivo non è nel tempo, poiché è esso che apre con uno squarcio la traiettoria del sorgere nel tempo, dello stagionare nel tempo e del tramontare nel tempo. Da un lato, dunque, il lasciare tempo del fuoco, originaria insorgenza di tempo, dall’altro, il tempo dispensato che le cose hanno per un tratto nel passato, nel presente e nel futuro: il fuoco è ciò che porta all’apparire e che soltanto concede la successione, e stabilisce misure per giorno e notte e per tutte le cose che hanno il loro essere-nel-tempo nei modi del sorgere, del permanere e del passare. Comparato con il fuoco che porta all’apparire, il più bel cosmos appare come un mucchio di cose gettate a caso [fr. 124]. Fink ammette di trovarsi in un’aporia, di non poter disporre di nessuna possibilità, nell’ordine dell’enunciazione, con cui poter chiamare in causa, facendo a meno di determinazioni temporali, la sorgente di tempo occultata appunto da determinazioni intratemporali. Se potessimo far ciò, saremmo in grado di recuperare il linguaggio premetafisico.

Se si vuole tenere lontane dai volgimenti del fuoco le rappresentazioni grossolane della trasmutazione chimica e dell’emanazione, deve essere pensata la formula, del fr. 62. “vivere la morte di”. Gli immortali sono gli dèi, i mortali gli uomini. Gli déi non sono toccati dal destino di morte, bensì, in un certo modo, mediante il retro riferimento alla morte dalla quale sono liberi, essi sono in un riferimento, non linguisticamente afferrabile, alla morte dei mortali. Gli dèi vivono la morte degli uomini. Essi sono spettatori e testimoni, che accolgono la morte degli uomini alla stregua di dono sacrificali. E gli uomini muoiono la vita degli dèi. L’immorsatura di vita e morte possiede la sua collocazione soltanto sul sottostante e stabile della vita. Vita è l’intero periodo di vita che un uomo possiede e che termina nella morte. Veglia e sonno, in quanto stati mutevoli, sono la forma, di regola alternantesi, del corso della vita umana. Essere giovane ed essere vecchio costituiscono il tempo iniziale e quello terminale del corso della vita umana. Le appartenenze di veglia e sonno e di giovane e vecchio sono parallelismi determinati dall’appartenenza di vita e morte, relazione che diventa ancora più complicata giacché la tipologia delle tre distinzioni è del tutto diversa. «Vivo e morto, desto e dormiente, giovane e vecchio, di volta in volta consentono insieme in riferimento a uno Stesso», riferimento al fr. 88. Vita e morte sono un’appar-tenenza dell’intero tempo della vita a qualcosa che lo sovrasta con la sua ombra senza comparire in esso. Contro la tendenza ad un mondo articolato in distinzioni, Eraclito dirige il suo pensiero con riguardo a una stessità, il che non significa che i fenomeni perdano le loro distinzioni, ma che essi, in riferimento allo en, siano tauto.

In Zeus si può pensare lo en, sebbene a causa sua, in quanto è il più elevato degli esseri intramondani, lo en del tutto, che abbracciando si estende, venga dissimulato [fr. 32]. Lo en è l’unità che raccoglie al modo del logos e del sofon, è l’unità all’interno della quale, soltanto, si dà l’insieme dei panta nelle loro molteplici opposizioni. «Lo en è l’appar-tenenza dei panta». Appar-tenere e tenere significano qui in primo luogo il custodire, il tenere in serbo e accordare nel senso più ampio. Tutte le determinazioni dello en, come fulmine, sole, Ore e fuoco, non sono immagini, bensì contrassegni al carattere di sofon dello en, contrassegni che caratterizzano il tenere, le modalità in cui ta panta sono per lo en e lo en stesso, che non è un contenitore, ma è ciò che riunisce, raccoglie e, rilasciando, concede. En e panta configurano una distinzione incomparabilmente unica ed enigmatica in quanto lo en non cade sotto l’onnitotalità di ta panta, bensì, al contrario, ta panta sono collocati nello en al modo dell’essente nell’essere. To pan è la parola in cui ricomprendiamo, insieme, en e panta. Ad esso soltanto possiamo applicare espressioni paratattiche paradossali. Fr. 88: dio è giorno notte, estate inverno, guerra pace, sazietà fame.

Se nell’essere cosciente, titolo per la filosofia trascendentale, si tratta di un sapere che viene pensato in quanto rappresentare, al contrario, nell’esser-ci non si indica il puro essere fattizio dell’uomo ma l’essere in sé diradato. Il Ci è il diradamento e l’apertità dell’essente, alle quali l’uomo resta esposto. L’oggettivo “stare di contro per” presuppone il diradamento in cui ciò che è presente si fa incontro all’uomo. L’essere cosciente è possibile soltanto sul fondamento del Ci, come di un modo derivato di esso. All’interno di questo diradamento si danno per l’uomo tanto il giorno quanto la notte; la luce del sofon, in cui vengono all’apparire e si raccolgono le cose, e l’oscurità; il comprendere linguistico, un comprendere nella distanza le cose che si mostrano in un determinato chiarore, che presuppone nondimeno la differenza ontologica e il principio che il dissimile viene conosciuto con il dissimile, e il comprendere oscuro il fondamento notturno, che presuppone invece la vicinanza ontica, sempre un modo di essere aperto, e che poggia sul principio che il simile viene conosciuto col simile. Il dormiente e il morto sono figure che indicano il rientrare dell’uomo all’interno della natura, viva e morta.  L’uomo, essere che agisce nella speranza e nel timore, si tiene in rapporto non solo alla luce, che possiede la struttura del distinguente-rinserrante assieme, ma anche al fondamento notturno, nella misura in cui fa parte, con il corpo carnale, della terra e del flusso della vita. Nel sonno, il vivo è a contatto con la modalità di un trattenersi in diradato, l’uomo, che è consentaneo alla cerchia della luce e che ad essa presta ascolto, ha una specie di esperienza dell’essere-ritornato nel fondamento oscuro, in un che di indistinto. «Essendo desti, ci teniamo in rapporto al cosmo molteplicemente ordinato, e in ciò sappiamo al tempo stesso, in modo oscuro, del poter spegnersi nel sonno, l’immediato essere a contatto con il fondamento oscuro. […] Di più non possiamo dire, giacché altrimenti cadiamo facilmente in una mistica speculativa».

Eraclito dice che una volta morti, attende gli uomini qualcosa a cui essi non arrivano né mediante la speranza che si protende né mediante la percezione. L’uomo viene respinto dall’inacessibilità del regno dei morti, non esiste alcun percepire che sia in grado di inoltrarsi nella “terra di nessuno”. Colui che percepisce di più non è orientato solamente al molteplice che si mostra all’apparire della luce, bensì, in quanto al tempo stesso affine alla luce, ha la capacità di rinserrare assieme le cose in direzione della con-tenenza, dell’ap-per-tenenza. Gli artefici di menzogne sono coloro che hanno sciolto i panta dalla compagine dell’unità che raccoglie, e li percepiscono solo come tali: vedono ciò che rifulge nella luce, ma non percepiscono ciò che appare alla luce dello en. La Dike è la potenza che ispira il pensatore che, al contrario dei molti che sono testimoni di cose effettive ma che non colgono la raccolta compagine dei panta, veglia sull’unità raccolta dei panta nello en. Ciò che tende alla mutua contrapposizione è ciò che, riluttando, si trattiene di contro. Al tempo stesso, ciò che tende alla mutua separazione è ciò che è portato assieme. Da ciò che è condotto alla mutua separazione e alla mutua contrapposizione procede la più bella armonia. Nel fr. 51, l’arco riunifica in sé l’opposizione di ciò che confligge nella lotta e del regno dei morti, mentre la lira è lo strumento che celebra la festa, che riunifica ciò che tende alla contrapposizione. Morte e festa sono rinserrate assieme. Il seminario, che ha preso le mosse a partire dal fuoco non è stato portato a termine. Fink non ha completato il suo programma: il colloqui comune con Eraclito si interrompe senza giungere a tematizzare esplicitamente il logos. Il testo qui proposto, duque, ci viene restituito come frammentario: un “frammento su frammenti”.

4 pensieri su “Recensione a Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, a cura di Matteo Giangrande

  1. Spero di acquistare il libro , del commento su Eraclito , per sostenere l’esame di Estetica , ma anche per approfondire l’aspetto fenomenologico sull’essere e sul tempo , in cui oggi l’anti-metaficismo sembra smantellare il tessuto storico originario e occidentale della storia del divenire e dell’evoluzione del linguaggio, come esistenza.

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  3. se la differenza ontologica ha senso (nella terra di nessuno fra significanti e significati) l’impensato non è impensabile. E il logos è la voce del fuoco che per illuminare qualcosa deve bruciare qualcos’altro, sofon, panta, en. Aiuto! dov’è andata a finire la differenza ontologica? Nella trappola del teorema di Goedel!!

  4. La formazione di movimenti di massa-scrive a questo proposito Germani -sara’ determinata , quindi , da una marcata situazione di “spostamento” , ma anche dalla presenza dei seguenti elementi: masse disponibili , elites’ disponibili e ideologie disponibili. Dalle masse si e’ detto. Quanto alla “disponibilita’” delle elite’ , i meccanismi sono gli stessi descritti intorno alle masse. L’elites’ deve inoltre essere in una condizione di intenso ” spostamento” ; e’ infatti riconosciuto che una elite’ consolidata e stabilizzata non e’ in grado di assumere la leadership di un movimento di massa estremistico. La combinazione di una elite’ stabilizzata cin masse rapidamente mobilitate puo’ produrre ideologie” di superficie” assai estremistiche ,.ma non e’ in grado di tradurre. in azione rivoluzionarie.
    [Renzo De Felice]- Le interpretazioni del fascismo.
    gLf Editori Laterza.

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