Darwin e l’incendio nella fabbrica di stoffe, di Stephen J. Gould

Herbert Spencer, e alcune operaie dei primi anni del Novecento

Cosa ha a che fare la terribile sorte delle 146 operaie morte nel 1911 a New York con una disputa accademica sul darwinismo? Ce lo racconta Stephen J. Gould, toccando temi come il paradigma del darwinismo sociale (o meglio, “spencerismo” sociale), e cioè l’estensione sistematica delle leggi dell’evoluzione biologica all’ “evoluzione” culturale. Secondo Gould, l’accettazione acritica di tale paradigma ebbe un ruolo teorico e pratico fondamentale nel ritardo con cui vennero approvate le leggi di tutela sociale dei lavoratori e delle lavoratrici nel mondo. Il seguente articolo è apparso, inedito, in Micromega (n. 3, maggio 2008), tradotto da Libero Sosio.

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Christopher Wren, il principale architetto della ricostruzione di Londra dopo il grande incendio del 1666, è sepolto sotto il pavimento dell’edificio più famoso da lui ricostruito, la cattedrale di St. Paul. La chiesa non contiene un suo elaborato monumento sepolcrale, ma solo una semplice tomba nella cripta. Su una lastra di marmo, sul pavimento, si legge il famoso epitaffio scritto da suo figlio: «Si monumentum requiris, circumspice» (Se cerchi il suo monumento, guardati intorno). C’è forse un po’ di magniloquenza, ma io non ho mai letto una testimonianza più bella dell’importanza centrale – si potrebbe dire della sacralità – dei luoghi autentici, rispetto alle repliche, ai simboli o ad altre forme di somiglianza vicaria. Una strana coincidenza della mia vita professionale fece tornare il mio pensiero a questo famosissimo epitaffio quando, per la seconda volta, mi fu assegnato un ufficio in un luogo ricco di storia: un luogo in cui si sentiva ancora la presenza di fantasmi di eventi del passato che avevano un’importanza centrale per la nostra cultura comune e che al tempo stesso erano particolarmente significativi per la mia vita e le mie scelte. Nel 1971 trascorsi un semestre come ricercatore ospite all’Università di Oxford. Ricevetti un piccolo spazio in un ufficio al piano superiore del museo dell’università. Mentre sistemavo i miei libri, le mie chiocciole fossili e il mio microscopio, notai una placca metallica affissa alla parete, dalla quale appresi che quello spazio riconfigurato di scaffali e cubicoli era stato, in origine, il luogo del confronto pubblico più famoso all’inizio della storia del darwinismo. In quello stesso luogo, nel 1860, pochi mesi dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin, Thomas Henry Huxley aveva estratto la sua spada retorica, infilzando clamorosamente il campione astuto ma superficiale del creazionismo: il vescovo Wilberforce, noto anche come il «saponoso Sam».

Come nella maggior parte delle leggende, la versione ufficiale si presenta come un semplice schizzo sommario di contro a una verità molto più complessa e sfaccettata. Wilberforce e Huxley diedero vita a uno spettacolo splendido e in gran parte spontaneo, ma dallo scontro non emerse un chiaro vincitore, e Joseph Hooke, l’altro campione di Darwin, diede al vescovo una risposta molto più efficace, purtroppo dimenticata dalla storia. In proposito si può vedere il mio saggio Chi ha vinto?, pubblicato nel volume Risplendi grande lucciola (1). Non posso dire che la persistente presenza di tali giganti vittoriani abbia accresciuto il mio impegno o migliorato il mio lavoro, ma mi piaceva il senso di continuità che mi veniva garantito da quella felice circostanza. Apprezzai molto anche le implicazioni etimologiche, poiché circostanza significa «stare intorno» (così come il circumspice di Wren significa «guardati intorno»), e io ero proprio là, forse proprio nello stesso punto in cui Huxley aveva detto, secondo la leggenda, che preferiva essere disceso da un scimmia onesta, piuttosto che da un vescovo che distorceva una verità nota per trarne un vantaggio retorico.

Non molto tempo fa, ricevetti un incarico part-time come visiting professor di biologia e ricercatore all’Università di New York. Mi fu assegnato un ufficio al decimo piano del Brown Building a Washington Place, una struttura indefinibile dell’inizio del Novecento oggi piena di laboratori e altri locali con finalità accademiche. Mentre il decano mi guidava in una visita informale conducendomi al mio nuovo alloggio, fece un’osservazione en passant che nelle sue intenzioni doveva essere poco più che una semplice notazione «turistica», ma che produsse in me una scossa elettrica. Sapevo, mi domandò, che nell’edificio aveva avuto luogo il famigerato incendio del 1911 alla Triangle Shirtwaist Company e che il mio ufficio occupava proprio una posizione d’angolo in uno dei piani in cui si era diffuso l’incendio? Addirittura, come scoprii in seguito, proprio vicino alla via di fuga usata da molte lavoranti della fabbrica di bluse per cercare scampo sul tetto. Il decano mi disse anche che ogni anno il 25 marzo, anniversario dell’incendio, l’International Ladies’ Garment Workers Union tiene ancora una cerimonia in quel luogo e depone corone per commemorare le 146 operaie, in gran parte immigrate, perite nell’incendio.

Se la controversia fra Huxley e Wilberforce definisce una leggenda primaria nella mia professione, l’incendio della Triangle Shirtwaist Company occupa un posto ancora più centrale nella mia visione più generale della vita. Io crebbi in una famiglia di lavoratori ebrei immigrati che lavoravano in fabbriche di confezioni, e questo olocausto (nel senso letterale di un sacrificio totale attraverso il fuoco) aveva consolidato le loro opinioni e aiutato a definire il loro futuro. La blusa – un camiciotto con colletto, tagliato sul modello della camicia maschile e indossato sopra una gonna – era diventata il simbolo alla moda delle donne più indipendenti. La Triangle Shirtwaist Company, la più grande azienda produttrice di bluse di New York, occupava tre piani (dall’ottavo al decimo) dell’Asch Building (in seguito comprato dalla New York University e ribattezzato Brown anche per cancellare l’infamia della sua associazione con l’incendio). L’azienda aveva alle proprie dipendenze circa cinquecento operaie, quasi tutte ragazze ebree recentemente immigrate dall’Europa orientale, o giovani donne cattoliche provenienti dall’Italia. Le uscite dall’edificio, oltre agli ascensori, comprendevano solo due piccole rampe di scale e una via di fuga per gli incendi assurdamente inadeguata. I proprietari, però, non avevano violato alcuna legge, sia perché le norme di sicurezza era allora molto modeste, sia perché si pensava che l’edificio fosse a prova d’incendio (e tale si dimostrò, visto che è ancora in piedi) anche se le pareti e i soffitti, infiammabili, non poterono impedire al fuoco di propagarsi al suo interno nei piani colmi di indumenti e di ritagli di stoffe. La Triangle Company, in realtà, a causa della sua posizione nell’edificio, era una trappola mortale, poiché i tubi di quel tempo non potevano pompare acqua sopra il sesto piano, mentre reti e teloni non potevano sostenere l’urto di un corpo umano in caduta da altezze maggiori.

L’incendio scoppiò all’ora dell’uscita. La maggior parte delle operaie riuscì a fuggire, usando gli ascensori, scendendo per una scala (ci occuperemo dell’altra scala più avanti), o salendo con l’altra fino al tetto. La fiamme intrappolarono però 146 dipendenti, quasi tutte giovani donne. Una cinquantina di operaie subirono una morte orribile, gettandosi terrorizzate dalle finestre del nono piano, mentre un muro di fuoco avanzava verso di loro. Vigili del fuoco e spettatori le scongiuravano di non saltare, e poi tentarono di tendere sotto le finestre reti improvvisate di lenzuola e coperte. Non fu però possibile contrastare efficacemente con le reti la forza della caduta, e molti corpi lacerarono il debole tessuto andando a sbattere violentemente sul selciato, o addirittura a infrangere le lastre circolari di vetro opaco sui marciapiedi che dovevano trasmettere luce alle cantine sottostanti, che sono ancora un aspetto importante (e attraente) del mio sobborgo a SoHo (2). (Su questi marciapiedi ci sono ancora grandi cartelli che avvertono gli autisti dei furgoni delle consegne di non salire inavvertitamente su di essi quando manovrano a marcia indietro.) Nessuna delle operaie che si gettarono dalle finestre si salvò, e il ricordo di quei disperati salti nel vuoto rimane una delle immagini più lancinanti di quella dolorosa tragedia americana.

Intorno a tutti gli importanti eventi storici si creano versioni ufficiali da leggende semplificate: penso che la ragione principale sia da cercarsi nel fatto che tendiamo a usare tali eventi per trarne considerazioni morali, e che la complessità della situazione vera offusca sempre l’efficacia di uno stringato epigramma. Così Huxley, rappresentando la virtù dell’obiettività scientifica, deve uccidere il drago dell’antico dogma irrazionale. La leggenda, ugualmente ipersemplificata, dell’incendio alla Triangle, dice che le operaie rimasero imprigionate nell’edificio perché la direzione aveva chiuso tutte le porte d’uscita per impedire piccoli furti, interruzioni del lavoro non autorizzate, o l’ingresso a sindacalisti, lasciando come unica uscita praticabile quella antincendio. Tutte le mie cinque guide sull’architettura di New York raccontano questa versione «ufficiale». La mia guida preferita, per esempio, dice: «Benché l’edificio fosse dotato di uscite antincendio, le operaie, terrorizzate, scoprirono che le porte del nono piano erano state chiuse dai sorveglianti. Una sola uscita antincendio era del tutto insufficiente per far fronte all’urto delle lavoranti in preda al panico».

Queste leggende tradizionali (e in effetti virtualmente «ufficiali») possono forse esagerare per rafforzare la giusta condanna morale, ma interpretazioni del genere emergono comunque da una base di fatti ancora più ambigua, e questa realtà, come vedremo nel caso della Triangle, incarnava spesso una lezione più profonda e più importante. Huxley, dopo tutto, discusse con Wilberforce, anche se non si assicurò una vittoria decisiva, e Huxley stava dalla parte degli angeli: i veri angeli della luce e della giustizia. E benché molte operaie della Triangle siano fuggite per mezzo degli ascensori e di una scala, l’accesso a un’altra scala (che avrebbe potuto salvarle quasi tutte) era quasi sicuramente chiuso. Se avessero vinto Wilberforce e i suoi tirapiedi, oggi io potrei essere un operaio, un linguista o un avvocato. Ma l’incendio della Triangle avrebbe potuto cancellarmi completamente. Mia nonna arrivò in America nel 1910. In quel giorno fatale del marzo 1911 lavorava come cucitrice sedicenne in una delle tante aziende con mano d’opera a basso costo, ma grazie a Dio non alla Triangle Shirtwaist Company. Mio nonno, lo stesso giorno, stava tagliando stoffe in un’altra azienda vicina.

Queste due storie estremamente diverse – separate da mezzo secolo e da un oceano, e con tutto il divario che c’è fra una tragedia industriale e una controversia accademica – potrebbero sembrare assolutamente prive di qualsiasi attinenza, come i proverbiali cavoli a merenda. Io sento però che un legame profondo unisce queste due storie nell’illustrare poli opposti di un problema centrale nella storia della teoria evoluzionistica: l’applicazione del pensiero darwiniano alla vita e ai tempi della nostra specie esagitata. Io non sostengo che ci sia qualcosa che vada oltre il significato personale – e certamente neppure che ci sia qualche ragione per tediare altre persone – nell’accidentale ubicazione di due miei uffici in luoghi così sacri della storia. Ma l’emozione di uno stimolo personale spesso induce ad abbandonare un tema generale che invece varrebbe la pena di condividere.

L’applicazione della teoria dell’evoluzione all’Homo sapiens ha sempre turbato profondamente la cultura occidentale, non per una qualsiasi ragione che potesse essere definita scientifica (gli esseri umani sono infatti oggetti biologici, e devono perciò trovar posto, insieme a tutti gli altri esseri viventi, sull’albero genealogico della vita), ma solo in conseguenza di antichi pregiudizi sul carattere distinto dell’uomo e sulla sua insormontabile superiorità. Lo stesso Darwin usò la massima circospezione quando sfiorò questo argomento nell’Origine delle specie, edita per la prima volta nel 1859 (anche se nel 1871, pubblicando l’Origine dell’uomo, avrebbe affrontato l’argomento con un piglio più deciso). La prima edizione dell’Origine delle specie dice poco sull’Homo sapiens, oltre alla promessa criptica che «si farà luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia». (Nelle edizioni successive Darwin divenne un po’ più audace e si avventurò a introdurre la seguente correzione: «Molta luce sarà fatta sull’origine dell’uomo e sulla sua storia») (3).

Problemi inquietanti di questo tipo trovano spesso la loro soluzione ovvia in un po’ di saggezza che ha permeato da tempo immemorabile le nostre tradizioni, da fonti così sublimi come l’aurea mediocritas (il «giusto mezzo») di Aristotele alla sensibilità più profana di Riccioli d’Oro di dividere la differenza esistente fra due estremi e trovare una soluzione che si trovi esattamente nel mezzo («né troppo caldo né troppo freddo», «né troppo grande né troppo piccolo»). Similmente, si può chiedere o troppo o troppo poco al darwinismo nel suo tentativo di capire l’origine dell’uomo e la sua storia. Di solito una soluzione appropriata sta nella posizione intermedia di «molto ma non tutto». Il «viscido» Sam Wilberforce e l’incendio della Triangle Shirtwaist meritano il loro collegamento, strano ma dotato di un senso, in quanto esempi dei due estremi che devono essere evitati: Wilberforce, infatti, negò l’evoluzione del tutto e in modo assoluto, mentre la principale teoria sociale che ostacolò la riforma industriale (e permise le condizioni di lavoro che condussero a disastri come l’incendio della Triangle Shirtwaist) – ossia il «darwinismo sociale» – seguì la via dell’applicazione più radicale dell’evoluzione biologica a modelli della storia umana. Comprendendo gli errori della negazione di Wilberforce e dell’adesione acritica e totale al darwinismo sociale, possiamo trovate la giusta via di mezzo fra i due estremi.

Se lo chiamarono «saponoso» avranno avuto qualche ragione. Il magniloquente vescovo di Oxford si riservò la sua invettiva migliore per il tentativo di Darwin di applicare le sue eresie all’origine dell’uomo. Nella sua recensione dell’Origine delle specie (edita nel 1860 nella Quarterly Review, la principale rivista letteraria inglese), Wilberforce si duole soprattutto del fatto che «prima di tutto Darwin dichiara chiaramente che applica lo schema d’azione del principio della selezione naturale all’Uomo stesso, oltre che agli animali che lo circondano». Dà poi la stura a un’argomentazione appassionata a favore dell’unicità umana, la quale poteva avere solo un’origine divina: «La supremazia derivata dell’Uomo sulla Terra; la capacità dell’uomo di parlare; il suo dono della ragione; il suo libero arbitrio e la sua responsabilità; il peccato e la redenzione; l’incarnazione del Figlio di Dio; la compresenza dello Spirito Santo, sono altrettante cose del tutto inconciliabili con la degradante nozione dell’origine animale di colui che fu creato a immagine di Dio e redento dal suo eterno figlio».

Ma la marea della storia inghiottì presto il buon vescovo. Quando Wilberforce morì, nel 1873, per una ferita alla testa conseguente a una caduta da cavallo, Huxley osservò acidamente che, per una volta, il cervello del vescovo era entrato in contatto con la realtà, e il risultato gli era stato fatale. Il darwinismo divenne la novità intellettuale dominante della fine dell’Ottocento. L’ambito potenziale della selezione naturale, il principio esplicativo cardine della teoria di Darwin, sembrava quasi infinito ai suoi seguaci (anche se non al maestro stesso; è infatti interessante la prudenza usata dallo stesso Darwin circa eventuali estensioni del principio oltre l’ambito dell’evoluzione biologica). Se l’evoluzione degli organismi era controllata da una «lotta per l’esistenza», un principio simile non avrebbe potuto spiegare la storia di quasi tutto, dalla cosmologia alle lingue, all’economia, alle tecnologie e alla storia culturale dei diversi gruppi umani?

Persino le massime verità possono essere estese in misura eccessiva da accoliti zelanti e acritici. La selezione naturale può anche essere una delle idee più potenti che siano mai state sviluppate nella scienza, ma solo certi tipi di sistemi possono essere regolati da un tale processo, e il principio di Darwin non può spiegare tutte le sequenze naturali che si sviluppano storicamente. Per esempio, possiamo parlare dell’«evoluzione» di una stella che passa per una serie prevedibile di fasi nel corso di molti milioni di anni, dalla sua nascita alla sua esplosione, ma la selezione naturale – un processo mantenuto in moto dalla sopravvivenza e dal successo riproduttivo differenziali di alcuni individui in una popolazione variabile – non può essere la causa dello sviluppo stellare. Per spiegare l’evoluzione di una stella dobbiamo guardare invece alla fisica e chimica intrinseche degli elementi leggeri presenti in tali masse immani. Similmente, benché il darwinismo spieghi senza dubbio molti caratteri universali della morfologia e del comportamento dell’uomo, non possiamo vedere nella selezione naturale una causa in grado di controllare i nostri mutamenti culturali dall’origine dell’agricoltura in poi, se non altro perché un tempo limitato di soli diecimila anni circa fornisce una prospettiva troppo angusta per un’evoluzione biologica generale. Inoltre, ed è la cosa più importante, il mutamento culturale umano opera in un modo che impedisce alla selezione naturale di esercitare un ruolo di controllo. Per menzionare le due differenze più chiare: innanzitutto, l’evoluzione biologica procede per continua divisione di specie in linee genealogiche indipendenti che sono destinate a rimanere separate per sempre sull’albero ramificato della vita. Il mutamento culturale opera per mezzo del processo opposto di prendere a prestito e amalgamare. Uno sguardo attento alla ruota o all’alfabeto di un’altra cultura può modificare per sempre il corso di una civiltà. Se vogliamo identificare un analogo biologico del cambiamento culturale, sospetto che un’epidemia funzioni molto meglio dell’evoluzione.

In secondo luogo, il mutamento culturale umano procede per mezzo del potente meccanismo dell’eredità lamarckiana dei caratteri acquisiti. Tutto ciò che di utile (o, purtroppo, di distruttivo) inventa la nostra generazione può essere trasmesso direttamente ai nostri figli attraverso l’educazione. Il cambiamento realizzato in questo modo lamarckiano supera di gran lunga per rapidità il processo molto più lento della selezione naturale darwiniana, la quale richiede una forma mendeliana di eredità fondata su una variazione a piccola scala e priva di una direzione preordinata, che possa poi essere vagliata e selezionata attraverso una lotta per l’esistenza. La variazione genetica è mendeliana, cosicché l’evoluzione biologica è governata dal darwinismo, ma la variazione culturale è in gran parte lamarckiana, e la selezione naturale non può determinare la storia moderna delle nostre società tecnologiche.

Il primo accesso di grande entusiasmo vittoriano per il darwinismo ispirò tuttavia una raffica di tentativi di applicazione ad altri campi, almeno per analogia. Alcuni sforzi si rivelarono fruttuosi; fra questi ci fu la decisione di James Murray, direttore dell’Oxford English Dictionary (il cui primo volume fu pubblicato nel 1884, dopo essere stato in preparazione per una ventina di anni) di operare rigorosamente sulla base di princìpi storici e di trattare i cambiamenti di definizione delle parole non sulla base delle preferenze attuali nell’uso (come in un dizionario veramente normativo), bensì sulla base della cronologia e dell’evoluzione genealogica dei significati registrati (facendo del testo più un’enciclopedia sulla storia delle parole che un vero dizionario).

Altre estensioni si rivelarono però non valide in teoria, e anche dannose (o così giudicherebbe la maggior parte di noi sulla base della nostra sensibilità morale), se non tragiche, nella loro applicazione. Come principale reo in questa categoria dobbiamo citare una teoria molto influente che acquistò il nome non appropriato di «darwinismo sociale». (Come hanno notato molti storici, essa dovrebbe essere chiamata piuttosto «spencerismo sociale», poiché fu Herbert Spencer, il grande erudito vittoriano in quasi tutto lo scibile, a formularne i postulati fondamentali nella Social Statics del 1850, quasi un decennio prima che Darwin pubblicasse L’origine delle specie. Il darwinismo aggiunse come versione più dura della lotta per l’esistenza, che era già stata riconosciuta da tempo da Spencer, il meccanismo della selezione naturale. Lo stesso Darwin mantenne inoltre una relazione molto ambivalente verso questo movimento che prese il suo nome. Egli provava l’orgoglio di qualsiasi creatore al cospetto di estensioni utili della sua teoria, e sperava in una spiegazione evoluzionistica dell’origine dell’uomo e dei fenomeni storici. Capiva però anche fin troppo bene che il meccanismo della selezione naturale mal si applicava alle cause del mutamento sociale negli esseri umani.)

Il darwinismo sociale viene spesso usato come un termine generale per indicare qualsiasi asserzione genetica o biologica sull’inevitabilità (o almeno la «naturalità») delle disuguaglianze sociali fra le classi o fra i sessi, o delle vittorie militari di un gruppo su un altro. Una definizione così ampia, però, distorce la storia di questa importante teoria, anche se sono stati da molto tempo proposti con grande impegno e rilievo argomenti pseudodarwiniani per coprire tutti questi peccati. Il darwinismo sociale classico operò come una teoria più specifica sulla natura e l’origine delle classi sociali nel moderno mondo industriale. L’Encyclopaedia britannica, nel suo articolo sull’argomento, sottolinea correttamente questa limitazione, prima citando l’ambito massimo del significato potenziale, e poi restringendo opportunamente il campo dell’uso reale: «Darwinisrno sociale: la teoria secondo la quale persone, gruppi e razze sarebbero soggetti alle stesse leggi della selezione naturale che Charles Darwin ha percepito all’opera in natura nelle piante e negli animali. […] La teoria fu usata a sostegno del capitalismo del laissez-faire e del conservatorismo politico. La stratificazione delle classi era giustificata sulla base delle disuguaglianze «naturali» fra individui; si diceva infatti che il controllo della proprietà era un correlato di attributi morali superiori e intrinseci come l’industriosità, la temperanza e la frugalità. I tentativi di riformare una società attraverso l’intervento dello Stato o altri mezzi avrebbero perciò interferito con processi naturali; una libera competizione e una difesa con tutti i mezzi dello status quo erano in accordo con la selezione biologica. I poveri erano gli “inadatti” e non dovevano essere aiutati; nella lotta per l’esistenza, la ricchezza era un segno di successo». Secondo Spencer dovremmo permettere e accogliere di buon grado una tale durezza, per lasciare libero sfogo a quello sviluppo progressivo che tutti i sistemi «evolutivi» subiscono quando possono seguire senza impedimenti il loro corso naturale. Come principio centrale del suo sistema, Spencer credeva che il progresso – da lui definito come un movimento da un’omogeneità semplice non differenziata, come in un batterio o in una società umana «primitiva» senza classi sociali, a un’eterogeneità complessa e strutturata, come in organismi «avanzati» o in società industriali – non avesse origine come una proprietà inevitabile della materia in moto, ma solo attraverso un’interazione fra i sistemi in evoluzione e i loro ambienti. Queste interazioni, perciò, non dovevano essere ostacolate.

Il rapporto fra la visione generale di Spencer e la teoria particolare di Darwin è stato spesso frainteso o esagerato. Come abbiamo visto sopra, Spencer aveva pubblicato le grandi linee (e la maggior parte dei dettagli) del suo sistema quasi dieci anni prima che Darwin presentasse la sua teoria dell’evoluzione. Senza dubbio il filosofo accolse poi con entusiasmo il principio della selezione naturale come un meccanismo ancora più spietato ed efficiente per spingere avanti l’evoluzione. (Per una curiosa ironia, la parola evoluzione, come descrizione della storia genealogica della vita, fu introdotta da Spencer, e non direttamente da Darwin. Spencer apprezzava tale termine per il suo significato di «progresso», già presente nel senso originale latino di evolutio come «sviluppo». Dapprima Darwin resistette all’uso della parola evoluzione – in origine chiamò il suo processo «discendenza con modificazione» – poiché la sua teoria non comprendeva alcun meccanismo o giustificazione per un progresso generale nella storia della vita. Spencer però prevalse, anche perché nessuna società è mai stata impegnata nell’obiettivo del progresso come nozione o obiettivo centrale più della Gran Bretagna vittoriana al culmine della sua espansione coloniale e industriale.) Spencer usò certamente il meccanismo darwiniano della selezione naturale per sostenere il suo sistema. Poche persone riconoscono la seguente ironia storica: fu Spencer, non Darwin, a coniare l’espressione «sopravvivenza del più adatto», che è oggi il nostro slogan convenzionale per designare il meccanismo darwiniano. Lo stesso Darwin lo riconobbe, in un’affermazione aggiunta in edizioni posteriori dell’Origine delle specie: «Questo principio per il quale ogni lieve variazione, se utile, si mantiene, è stato da me denominato “selezione naturale”. […] Ma l’espressione “sopravvivenza del più adatto”, spesso usata da Herbert Spencer, è più esatta, e talvolta ugualmente conveniente» (4).

Come meccanismo per mantenere in moto la sua «evoluzione» universale (delle stelle, delle specie, delle lingue, delle economie, delle tecnologie e di quasi qualsiasi altra cosa) verso il progresso, Spencer preferiva il diretto e meccanicistico «grufola, divora o muori» della selezione naturale (come compendiò il processo William Graham Sumner, il più importante darwinista sociale americano) all’impulso più vago, e in gran parte lamarckiano, verso il miglioramento organico di se stessi che aveva inizialmente adottato come causa primaria. (Nella colorita immagine citata sopra, Sumner usa una metafora essenzialmente americana per l’autosufficienza che il mio vocabolario degli slogan fa risalire a un discorso del 1834 di Davy Crockett.) In un’edizione postdarwiniana della Social Statics, Spencer scrisse: «Nel terzo di secolo trascorso dopo la pubblicazione di questi passi, non è emersa alcuna ragione per indurmi a recedere dalla posizione che avevo assunto in essi. Al contrario, si sono aggiunte molte prove a conferma. I risultati benefici della sopravvivenza dei più adatti risultano essere molto maggiori [di quanto avevo riconosciuto in precedenza]. Il processo della “selezione naturale”, come l’ha chiamato il signor Darwin […] si è rivelato una delle cause principali […] di quell’evoluzione attraverso la quale tutti gli esseri viventi, a cominciare dai più bassi e divergenti (e ridivergenti nel corso della loro evoluzione), hanno raggiunto i loro attuali livelli di organizzazione e di adattamento al loro modo di vita». Ma mettendo da parte la questione della particolare influenza di Darwin, rimane fermo il più importante punto sottostante: la teoria del darwinismo sociale (o spencerismo sociale) poggia su una serie di analogie fra le cause di cambiamento e di stabilità nei sistemi biologici e sociali, e sulla presunta applicabilità diretta di questi princìpi biologici all’ambito sociale. Nel suo documento di fondazione, la Social Statics del 1850, Spencer fonda la sua argomentazione su due complesse analogie con i sistemi biologici.

1) La lotta per l’esistenza come mezzo di purificazione in biologia e in società. Darwin riconobbe nell’espressione «lotta per l’esistenza» un’abbreviazione metaforica per qualsiasi strategia che promuovesse un maggiore successo riproduttivo, fosse esso attraverso la lotta aperta, la cooperazione o una semplice bravura nel copulare, secondo il vecchio principio «presto e spesso». Molti contemporanei, compreso Spencer, intendevano invece la «sopravvivenza dei più adatti» come una lotta aperta all’ultimo sangue – quella che T.H. Huxley rifiutò in seguito come la scuola «gladiatoria», o l’incarnazione del bellum omnium contra omnes, la «guerra di tutti contro tutti», di Hobbes. Spencer presentò questa visione fosca e angusta della natura in Social Statics: «Noi vediamo all’opera in tutta la Natura una dura disciplina che è un po’ crudele ma che può assolvere un compito assai utile. Quello stato di belligeranza universale mantenuto in tutta la creazione inferiore, con grande perplessità di molte degne persone, è in fondo la misura più misericordiosa possibile nelle circostanze di fatto. […] Si noti che i nemici carnivori non solo eliminano dalle mandrie di erbivori gli individui che hanno ormai superato la maturità, ma anche i malati, gli individui malformati e quelli meno agili o meno forti. Con l’aiuto di questo processo di purificazione […] si impedisce la degenerazione della razza attraverso la riproduzione dei suoi esemplari inferiori; e si assicura il mantenimento di una costituzione completamente adattata alle condizioni circostanti, e perciò meglio capace di produrre la felicità».

Spencer aggravò poi questo errore applicando lo stesso ragionamento alla storia sociale umana, senza mai neppure mettere in discussione la validità di un tale trasferimento analogico. Scagliandosi contro tutti i programmi governativi per il miglioramento sociale – Spencer si opponeva a qualsiasi intervento dello Stato nell’istruzione, nei servizi postali, nell’emanazione di qualsiasi normativa sulle condizioni delle case e persino alla creazione di servizi sanitari pubblici – condannò tali sforzi come nati da buone intenzioni ma condannati a produrre conseguenze tremende, migliorando la sopravvivenza di reietti sociali che si dovevano lasciar morire per il bene di tutti. (Spencer insistette, però, che non si opponeva alla beneficenza privata, specialmente per l’effetto salutare che essa poteva avere sullo sviluppo morale dei donatori. Questo discorso vi ricorda forse argomenti avanzati oggi come riformisti e nuovi di zecca dei nostri ultraconservatori moderni? Non dobbiamo cercare di trarre profitto dal famoso detto di Santayana che chi ignora la storia è condannato a ripeterla?) Nel capitolo della Social Statics concernente le leggi sui poveri (alle quali, ovviamente, si opponeva), Spencer scrisse: «Dobbiamo censurare quei falsi filantropi che, per prevenire la presente infelicità, preparerebbero un’infelicità ancora maggiore alle generazioni future. Quella rigorosa necessità che, quando le si permette di operare, diventa uno sprone così pungente per il pigro e una briglia così forte per l’apatico, questi amici dei poveri la abolirebbero a causa dei pianti che produce qua e là. Questi uomini irriflessivi, anche se benpensanti, ciechi dinanzi al fatto che, nello stato naturale delle cose, la società espelle costantemente i suoi membri malati, deboli di mente, lenti, vacillanti, sleali, si fanno fautori di un’interferenza che non solo arresterebbe il processo di purificazione ma accrescerebbe addirittura i guasti, incoraggiando assolutamente la moltiplicazione degli sconsiderati e degli- incompetenti, attraverso l’offerta di mezzi di sussistenza sicuri. […] Così, nel desiderio di prevenire le salutari sofferenze che ci circondano, queste persone sensibili ai sospiri e ai lamenti trasmettono ai posteri una maledizione sempre crescente».

2) Stabilità del corpo e della società. Nell’«evoluzione» universale e progressiva di tutti i sistemi, l’organizzazione diventa sempre più complessa in conseguenza della divisione del lavoro fra il numero crescente delle parti che si differenziano. Ogni parte deve «conoscere il suo posto» e svolgere il ruolo che le compete, pena il crollo dell’intero sistema. Un organismo primitivo come l’idra, composto da semplici moduli buoni a tutti gli usi, può rigenerare ogni parte perduta, ma la natura dà all’uomo solo una testa, e una sola possibilità. Spencer riconobbe l’incoerenza di base consistente nello spiegare la stabilità sociale per analogia con i bisogni integrati di un singolo corpo organico; egli riconobbe infatti le logiche contrarie dei due sistemi: le parti di un corpo organico sono infatti al servizio della totalità, mentre la totalità sociale dovrebbe esistere solo al servizio delle parti (i singoli individui). Spencer non si lasciava però mai spaventare da difficoltà logiche o empiriche quando perseguiva una delle sue amate generalità. (Huxley si riferiva all’inclinazione di Spencer a costruire grandiosi sistemi quando fece la sua famosa osservazione su «una bella teoria, uccisa da uno sgradevole, brutto, piccolo fatto») (5). Si mosse perciò, per quanto goffamente, attraverso le numerose assurdità di tale confronto, sostenendo addirittura di avere trovato una virtù nelle differenze. Nel famoso articolo del 1860 The Social Organism, Spencer descrisse il confronto fra un corpo umano e una società umana: «Sono dunque questi i punti di analogia e i punti di differenza. Non possiamo dire che i punti di differenza servono solo a portare in più chiara luce i punti di analogia?»

L’articolo di Spencer elenca poi i presunti punti validi di confronto, fra cui analogie così stiracchiate come l’origine storica della classe borghese con lo sviluppo, negli animali complessi, del mesoderma, il terzo foglietto embrionale, compreso fra il foglietto embrionale esterno, l’endoderma, e quello interno, l’endoderma; la comparazione del sangue col denaro; i corsi paralleli di nervi e vasi sanguigni negli animali superiori con la costruzione affiancata di ferrovie e linee telegrafiche; e infine, in un confronto che lo stesso Spencer considerò forzato, l’assimilazione di una primitiva monarchia onnipotente con un cervello semplice, e di un sistema parlamentare avanzato con un cervello complesso formato da vari lobi. Spencer scrisse: «Per quanto quest’asserzione possa apparire strana, le nostre Camere del parlamento scaricano nell’economia sociale funzioni che sono paragonabili sotto vari aspetti a quelle scaricate dalle masse cerebrali in un vertebrato».

Spencer forza sicuramente le sue analogie, ma il suo intento sociale non sarebbe potuto essere più chiaro: una società stabile richiede che tutti i ruoli siano coperti e ben svolti, e il governo non deve interferire con un processo naturale di selezione e di assegnazione di remunerazioni appropriate. Un umile lavoratore deve faticare, e può rimanere indigente per sempre, ma i poveri industriosi, come organo del corpo sociale, devono esistere sempre: «Se si mettono gli operai delle fabbriche a orario ridotto, subito i mercati dei prodotti coloniali di Londra e Liverpool sono depressi. I negozianti sono attivi o no a secondo dell’entità del raccolto di frumento. E la malattia delle patate può rovinare i commercianti. […] Questa unione di molti uomini in una comunità; questa crescente mutua dipendenza di unità che in origine erano indipendenti; questa graduale segregazione di cittadini in corpi separati con funzioni reciprocamente dipendenti; questa formazione di un tutto formato da parti diverse; questa crescita di un organismo di cui non si può ferire una parte senza che il resto lo senta; tutto questo può essere generalizzato sotto la legge dell’individuazione».

Il darwinismo sociale divenne un movimento importante, con sostenitori in politica, nel mondo accademico e nel giornalismo per una grande varietà di cause particolari. Ma come affermò lo storico Richard Hofstadter nel libro più famoso che sia mai stato scritto su questo argomento – Social Darwinism in American Thought, pubblicato per la prima volta nel 1944, sempre ristampato da allora, e ancora penetrante nonostante qualche inevitabile arcaismo – l’impatto primario di questa dottrina risiedette nel suo appoggio a filosofie politiche conservatrici, in particolare attraverso l’argomento centrale (e molto efficace) contro il sostegno dello Stato ai servizi sociali e alla regolamentazione governativa dei settori dell’industria e delle abitazioni: «Si poteva adottare, come William Graham Sumner, una visione pessimistica sull’importanza del darwinismo, e concludere che esso potrebbe servire solo a preparare gli uomini ad affrontare la durezza intrinseca della battaglia della vita; o si poteva assicurare, come Herbert Spencer, che – quali che possano essere le avversità immediate per gran parte dell’umanità – evoluzione significa progresso, cosa che garantiva che l’intero processo della vita tendesse verso un qualche coronamento remoto ma glorioso. In un caso come nell’altro, però, le conclusioni a cui fu dapprima condotto il darwinismo furono puramente conservatrici. Esse suggerivano che tutti i tentativi di riformare il processo sociale erano sforzi per rimediare all’irrimediabile, che interferivano con la saggezza della natura, e che potevano condurre solo alla degenerazione».

I magnati industriali dell’età dell’oro americana (i robber barons, «baroni ladroni», in una terminologia condivisa da molte persone) apprezzarono molto e sostennero questo argomento contro la regolamentazione, evidentemente per ragioni di tornaconto personale, e per quanto spesso mescolassero le loro tesi sulla crudele inevitabilità della natura con la pietà cristiana convenzionale. John D. Rockefeller disse in un discorso tenuto a una scuola domenicale di catechismo: «La crescita di una grande azienda è semplicemente un fatto di sopravvivenza dei più adatti. […] La rosa American Beauty può essere prodotta con tutto il suo splendore e la sua fragranza, che suscitano un grande apprezzamento in chi la guarda, solo sacrificando i primi boccioli che crescono intorno ad essa. Questa non è una tendenza cattiva nel mondo economico. È semplicemente l’applicazione di una legge della natura e di una legge di Dio».

E Andrew Carnegie, che era stato molto amareggiato dal chiaro fallimento dei valori cristiani, trovò la sua soluzione negli scritti di Spencer, ed entrò poi in contatto col filosofo inglese per coltivarne l’amicizia e per uno scambio di importanti favori. Carnegie scrisse sulla sua scoperta dell’opera di Spencer: «Ricordo che la luce venne come in una sorta di inondazione e che tutto mi si chiarì. Non solo mi ero liberato della teologia e del soprannaturale, ma avevo trovato la verità dell’evoluzione. “Tutto è bene poiché le cose vanno sempre meglio” divenne il mio motto e una vera fonte di conforto». La filantropia di Carnegie, primariamente sotto forma di donazioni a biblioteche e università, è considerata fra le grandi opere di beneficenza della storia americana, ma non dovremmo dimenticare la sua durezza e resistenza alle riforme a favore dei suoi operai mentre costruiva il suo impero dell’acciaio (in particolare il modo violento in cui soffocò lo sciopero di Homestead del 1892): una durezza che egli giustificò con la consueta linea spenceriana che una qualsiasi regolamentazione statale avrebbe sviato un inesorabile progresso naturale destinato a condurre naturalmente al progresso per tutti. Nel suo articolo più famoso (intitolato «Wealth», ricchezza, e pubblicato nella North American Review nel 1889), Carnegie scrisse: «Benché la legge possa essere a volte dura per l’individuo, è ottima per la razza, assicurando la sopravvivenza del più adatto in ogni campo. Noi accettiamo quindi di buon grado, come condizioni a cui dobbiamo adattarci, una grande disuguaglianza ambientale, la concentrazione della ricchezza, delle attività industriali e commerciali, nelle mani di pochi, e la legge della competizione fra questi, come cose non solo benefiche; ma essenziali per il futuro progresso della razza».

Non voglio sostenere una visione di una folle grandiosità sull’influenza sociale e politica delle argomentazioni accademiche, così come vorrei evitare l’errore comune di inferire una connessione causale da una semplice correlazione. Ovviamente non credo che le tesi del darwinismo sociale abbiano causato direttamente i mali di un capitalismo industriale senza freni e la soppressione dei diritti dei lavoratori. So che la maggior parte di queste linee spenceriane funzionarono come una mera operazione di facciata per camuffare l’azione di forze sociali saldamente insediate, che difficilmente una qualsiasi argomentazione accademica avrebbe potuto mettere in discussione. D’altra parte le argomentazioni accademiche non dovrebbero neppure essere considerate del tutto impotenti; per quale altro motivo, infatti, le persone al potere invocherebbero con tanta forza tali tesi? La spinta generale del cambiamento sociale si svolse nel suo modo complesso senza un grande impatto da parte di giustificazioni puramente razionali, ma molti problemi particolari – specialmente il ritmo del cambiamento e gli stili dei cambiamenti che sarebbero occorsi in ogni caso – potrebbero risentire in modo sostanziale del discorso accademico. Milioni di persone soffrirono quando una data riforma subì anni di ritardo legislativo, e poi fu alterata attraverso battaglie legali e compromessi. L’argomento del darwinismo sociale dei super-ricchi e dei conservatori arginò, indebolì e rallentò le maree del miglioramento, specialmente di quello a vantaggio dei diritti dei lavoratori.

La maggior parte degli storici concorderebbe sulla tesi che la singola dottrina più efficace del darwinismo sociale consisteva in quello che lo stesso Spencer considerò l’elemento centrale del suo sistema: l’argomento contro le regolamentazioni imposte dallo stato per l’industria, l’istruzione, la medicina, le abitazioni, l’igiene pubblica e va dicendo. Pochi americani, anche fra i baroni ladroni, si spinsero così lontano, ma il dogma di Spencer inferse un duro colpo alla regolamentazione dell’industria per assicurare migliori condizioni di lavoro agli operai. Su questo punto particolare – che fu la raccomandazione centrale del sistema di Spencer fin dall’inizio – possiamo discutere se la letteratura accademica abbia o no avuto un effetto sostanziale sul reale percorso della storia.

Armati di questo nuovo punto di vista, possiamo tornare all’incendio della Triangle Shirtwaist, alla morte delle 146 giovani lavoratrici e alla tangibile influenza di una dottrina che ha applicato troppa parte della versione sbagliata del darwinismo alla storia umana. La battaglia per una maggiore sicurezza sui posti di lavoro e per ambienti più sani per i lavoratori era stata combattuta intensamente per vari decenni. Il movimento sindacale aveva assegnato una forte priorità a questi problemi, e gli imprenditori avevano spesso reagito con intransigenza, o addirittura con violenza, adducendo le loro giustificazioni spenceriane per la perpetuazione di quell’evidente crudeltà. La regolamentazione governativa dell’industria era diventata uno dei punti caldi delle lotte politiche americane, e la causa della benevola sorveglianza dello stato aveva fatto passi avanti dallo Sherman Antitrust Act del 1890 alle numerose e battagliere riforme della presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909). Quando scoppiò l’incendio della Triangle, nel 1911, i regolamenti a protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori erano così deboli, e così inapplicabili da parte di un personale esiguo e mal pagato, che i dirigenti delle aziende – cinicamente e tecnicamente «conformi alle leggi» in quell’edificio che sarebbe diventato una vera e propria trappola in caso di incendio – avrebbero potuto imporre praticamente qualsiasi cosa, senza che il debole e nascente movimento sindacale potesse opporsi.

Se la leggenda convenzionale fosse vera, se le operaie della Triangle fossero morte perché tutte le porte erano state chiuse dai crudeli datori di lavoro, questa storia straziante non potrebbe trasmettere alcuna morale al di là della colpa personale dei dirigenti. Ma la perdita delle 146 vite umane si verificò per ragioni molto più complesse, tutte collegate alla patetica debolezza delle disposizioni di legge per la salute e la sicurezza dei lavoratori. E non dubito che la spinta centrale del darwinismo sociale – l’argomento che le regolamentazioni governative possono soltanto ritardare un processo necessario e naturale – abbia esercitato un impatto importante nel rallentare l’approvazione di leggi che oggi quasi tutti, persino i nostri arciconservatori, considerano benefiche e umane. Io accetto la tesi che le idee di Spencer non impedirono alla lunga l’approvazione di tali regolamentazioni, ma la vita o la morte per le lavoratrici della Triangle Shirtwaist dipese dal «dettaglio» che le forze del puro laissez-faire, sostenute dall’elemento centrale della teoria di Spencer, riuscirono a ritardarne l’applicazione fino agli anni Venti del Novecento, impedendo di accettare subito nel 1910 le giuste richieste dei sindacati e dei riformatori sociali.

Quel giorno fatale una delle due scale della Triangle era stata quasi sicuramente chiusa, anche se gli avvocati della società riuscirono a fare assolvere i loro clienti, usando in gran parte gherminelle legali per confondere, intimidire e far cadere in contraddizione giovani testimoni con una scarsa conoscenza dell’inglese. Due anni prima alla Triangle era cominciato uno sciopero importante, che si era poi diffuso alle manifatture di bluse in tutta la città. I sindacati si imposero nella maggior parte delle fabbriche, ma, curiosamente, non alla Triangle, dove la direzione resistette e costrinse le operaie a tornare al lavoro senza avere ottenuto niente. Alla Triangle le tensioni rimasero alte anche nel 1911, e la direzione era diventata particolarmente sospettosa, e addirittura paranoide, sulla possibilità di furti. Perciò, all’ora dell’uscita dal lavoro (quando scoppiò l’incendio, e contro le leggi, imposte con scarsa efficacia, per assicurare che fossero sempre attive varie uscite), i dirigenti avevano fatto chiudere una delle porte, per costringere tutte le donne a uscire per la scala che dava in Greene Street, dove un sorvegliante poteva ispezionare tutte le borse per scongiurare il furto di bluse.

Ma se, in questo caso, i dirigenti violarono una legge debole e male imposta, in tutti gli altri casi di morte sul lavoro non possono essere accusati di mancato rispetto di norme esistenti; la responsabilità va invece attribuita all’assurda inadeguatezza di norme mantenute in gran parte così deboli e inefficaci dalla resistenza politica alla regolamentazione legale sui posti di lavoro, sostenuta dagli argomenti del darwinismo sociale. I tubi flessibili non potevano pompare acqua oltre il sesto piano, ma nessuna legge impediva di ammassare le maestranze in affollati piani superiori. Nessuno statuto imponeva esercitazioni antincendio o altre forme di addestramento per aumentare la sicurezza. In altri casi, regolamenti deboli erano risibilmente inadeguati, facili da violare, e in ogni caso fondamentalmente inapplicati. Per esempio, ogni operaia aveva diritto per legge a 7 metri cubi di spazio d’aria: una buona regola per prevenire l’affollamento (6). Le società erano però riuscite ad aggirare l’intento della legge e a mantenere la loro tradizionale (e pericolosa) densità di lavoratori, trasferendosi in edifici dai soffitti molto alti e con quantità molto grandi di spazio non utilizzabile che poteva essere incluso nel calcolo del minimo dei 7 metri cubi.

Quando l’Asch Building entrò in uso nel Novecento, un ispettore del Buildings Department, dipartimento per l’edilizia, informò l’architetto che si doveva fornire una terza scala. L’architetto riuscì però a imporre una variazione, sostenendo che la singola uscita antincendio poteva esse re considerata la scala mancante richiesta per legge per strutture con più di 930 metri quadrati per piano. Inoltre la singola scala antincendio – che durante la fuga dall’edificio si deformò e cadde in conseguenza della cattiva manutenzione e del peso eccessivo del numero di operaie che la usarono contemporaneamente – conduceva solo a un lucernario di vetro in un cortile chiuso. L’ispettore del dipartimento per l’edilizia aveva anche criticato questa soluzione, e l’architetto aveva promesso di apportare le modifiche necessarie, ma non si era fatto nulla, e la scala antincendio era caduta proprio attraverso il lucernario, accrescendo di molto il numero delle vittime.

Due ultime citazioni confermano che una causa primaria dell’esorbitante tributo di vittime nell’incendio della Triangle Shirtwaist fu proprio l’inadeguatezza della protezione legale (ho usato come mia fonte principale su questo evento l’eccellente libro di Leon Stein, The Triangle Fire, J.B. Lippincott Company, 1962). Rose Safran, una superstite dell’incendio e sostenitrice dello sciopero del 1909, disse: «Se il sindacato avesse vinto, noi saremmo state salve. Due delle nostre richieste riguardavano vie di fuga adeguate nel caso di incendi e porte aperte dalle fabbriche alla strada. Ma ebbero la meglio i capi e noi non ottenemmo le porte aperte o migliori uscite antincendio. Così le nostre amiche sono morte». Un ispettore del dipartimento per l’edilizia che aveva scritto alla direzione della Triangle solo qualche mese prima, chiedendo un appuntamento per discutere l’inizio delle esercitazioni antincendio, commentò dopo il tragico evento: «Ci sono solo due o tre manifatture in città in cui si fanno esercitazioni antincendio. In alcune di esse in cui ho predisposto il sistema io stesso, i proprietari hanno poi interrotto le esercitazioni. La negligenza dei proprietari delle manifatture in materia di sicurezza dei propri dipendenti è assolutamente criminale. Un uomo a cui consigliai di istituire esercitazioni antincendio mi rispose: «Lasciamole bruciare. Dopo tutto sono solo delle bestie».

L’incendio della Triangle diede una scossa senza precedenti al movimento di riforma dei lavoratori. Una forza, divenuta ora irresistibile, di organizzatori dei lavoratori, di riformatori sociali e di legislatori liberali esercitò forti pressioni a favore di una regolamentazione più forte, all’insegna del «non deve succedere mai più». Come conseguenza diretta di questa tardiva agitazione furono approvate centinaia di leggi, ma nulla poté lavare il sangue di 146 operaie dai marciapiedi di New York. Questa storia di due luoghi di lavoro – di una scrivania situata nella sala in cui Huxley dibatté con Wilberforce nel 1860 a Oxford, e di un ufficio costruito a un piano del vecchio Asch Building che fu preda delle fiamme durante l’incendio della Triangle Shirtwaist nel 1911 a New York – non ha una fine, poiché illustra un tema della vita intellettuale umana che non dobbiamo mai dimenticare, anche se ha poi trovato una soluzione ovvia e non controversa. Gli estremi devono essere considerati di solito posizioni insostenibili, e addirittura pericolose, su continui complessi e sottili. Per l’applicazione della teoria di Darwin alla storia dell’uomo, il «nessuno» di Wilberforce configura un errore di uguale grandezza del «tutti» di un darwinismo sociale estremo. In un senso più ampio, l’evoluzione di una specie come l’Homo sapiens dovrebbe colmarci di nozioni di gloria per la nostra singolare unicità mentale, e di profonda umiltà per il nostro status di ramoscello piccolo e accidentale su un grosso e lussureggiante albero della vita. Gloria e umiltà! Non potendo abbandonare nessuno di questi due sentimenti per una posizione unitaria in centro, faremmo meglio ad accertarci che i due atteggiamenti siano sempre compresenti, e fortificarci con la saggezza della promessa di Ruth a Naomi: «Dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò» (7).

NOTE:

(1)    Trad. it. di L. Sosio. Il libro, che è la seconda parte della traduzione italiana di Bully for Brontosaurus, fu pubblicato da Feltrinelli nel 1994. La prima parte, Bravo brontosauro, trad. it. di L. Sosio, era stata pubblicata dallo stesso editore nel 1992. (N.d.T.)

(2)    Quartiere di Manhattan; l’espressione è un acronimo di South of Houston Street. (N.d.T.)

(3)    La prima citazione è da C. Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale, trad. it. di C. Balducci, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 1973, p. 427; la seconda da C. Darwin, L’origine delle specie, trad. it. di L. Fratini (dalla 6ª ed., 1872), Boringhieri, Torino 1967, p. 552. Il testo di Darwin dice, nella prima edizione: «tight will be thrown on the origin of man and his history»; nelle edizioni successive si aggiunge semplicemente un much davanti a tight: «Much tight will be thrown…». (N.d.T.)

(4)    C. Darwin, L’origine delle specie, trad. it. di L. Fratini, cit., p. 131. (N.d.T.)

(5)    Il testo autentico, contenuto in T.H. Huxley, Biogenesis and Abiogenesis [1870], in Collected Essays, vol. 8, D. Appleton & Co., New York 1894, è: «The tragedy of science: the slaving of a beautiful hypothesis by an ugly fact» (La tragedia della scienza: l’uccisione di una bella ipotesi da parte di un brutto fatto). (N.d.T.)

(6)    Val comunque la pena di notare che i poco più di 7 metri cubi (2.50 piedi cubi) a disposizione di ogni operaia erano uno spazio veramente esiguo: poco più di un cubo di due metri di lato, che si riducevano a un’area di mq 2,33 nel caso di un’altezza di 3 metri, o di 1,75 nel caso di un soffitto a quattro metri da terra (N.d.T.).

(7)    Ruth, 1:16. (N.d.T.)

 

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