“La scimmia pensante” di R. Dunbar. Una recensione sulla storia evolutiva umana

(Nella foto al lato, un particolare delle Grotte di Lascaux, dette anche “la Cappella Sistina della preistoria”)

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«Le urgenze e i clamori del nostro tempo si placano quando ci ricordiamo della stranezza del tempo in cui viviamo: il periodo che, a partire dalla scomparsa di Neanderthal, 28.000 anni fa, giunge sino a oggi è l’unico, nei cinque milioni di anni di storia della famiglia degli umani, in cui ci sia stata una, e una sola, specie vivente di ominidi. Finora non c’è probabilmente mai stato un periodo di tempo che non abbia visto almeno due (e qualche volta si arriva fino a cinque) specie diverse di ominidi percorrere contemporaneamente le grandi vie di raccordo del mondo – incontrandosi all’improvviso e studiandosi con cautela, di tanto in tanto. […] L’eccezionalità della storia recente dell’umanità ha portato a rafforzare in noi l’impressione di essere assolutamente unici; forse è anche responsabile dell’eccessiva importanza che attribuiamo a noi stessi.» (da “La scimmia pensante“)

Questo libro divulgativo si rivolge ad un pubblico anche non specialista: è la storia molto semplificata di cosa siamo, e dei nostri pregiudizi. Ciò diventa evidente fin dall’inizio, quando, dopo un breve schizzo impressionistico delle origini umane a partire degli australopitechi, Robin Dunbar (professore di Psicologia evolutiva all’Università di Liverpool) respinge in modo inequivocabile quello strano sentimento, bizzarro, dell’unicità umana. O quell’ interpretazione che vede l’uomo di Neanderthal come una specie primitiva e così separata dalla nostra. In realtà è quasi certo che umani moderni abbiano convissuto con i Neanderthal e con i Cro-Magnon per diverse migliaia di anni. Un periodo in cui avremmo incontrato sulla terra strani esseri simili a noi, con lo stesso nostro sguardo, bipedi e produttori, come noi, di raffinate tecniche, arti e arnesi. Forse, anche con una religione. E se i Neanderthal non si fossero estinti, oggi forse saremmo in guerra contro di loro e contro i loro dèi. O forse avremmo cercato di convivere, inventandoci un dio che è loro ma anche nostro. La storia raccontata da Dunbar è a volte un po’ troppo sbrigativa (come si usa spesso nel mondo anglosassone, priva di quello spessore filosofico a cui siamo abituati in Europa continentale) ma è comunque una storia avvincente, che vale la pena di percorrere brevemente, anche perché il suo interesse principale è capire le origini della moderna coscienza umana.

Al centro del suo approccio è il concetto di “intenzionalità”, che si riferisce a stati mentali come il “credere”, lo “sperare”, “comprendere” e così via. Ci possono essere diversi ordini di intenzionalità. Il solo capire che gli altri individui che ci circondano hanno pensieri, significa passare al secondo ordine intenzionalità. Ma le cose possono diventare maledettamente più complicate. Per utilizzare l’esempio shakespeariano di Dunbar, Iago capì [1 steap] che Otello avrebbe creduto [2 steap ] che Desdemona volesse [3 steap] amare un altro. Una trama che presuppone tre ordini di intenzionalità. Inoltre, noi, il pubblico, abbiamo bisogno di un quarto ordine intenzionalità per capire il gioco, e a Shakespeare è necessario un quinto ordine intenzionalità per essere in grado di scrivere il gioco in modo da produrre la risposta appropriata in noi. Una vera partita a scacchi della mente.

Gli esseri umani moderni sono in grado di raggiungere il quinto grado e talvolta il sesto. Gli scimpanzé e altri primati antropoidi apparentemente possono gestire solo l’intenzionalità di secondo ordine (nella migliore delle ipotesi), e l’autore sostiene che sia proprio questo il motivo principale per il quale le scimmie non abbiano acquisito il linguaggio. Il fattore evolutivo cruciale per Dumbar è la dimensione del gruppo tipico in cui le diverse specie vivono. Gruppi di dimensione maggiore nelle prime società umane hanno promosso la crescita di grandi cervelli, con la capacità di ordine superiore d’intenzionalità e, infine, lo sviluppo del linguaggio.

Dunbar conduce anche una interessante discussione sulle origini del linguaggio umano. Da quanto tempo esiste, e i nostri vecchi amici, i Neanderthal, sapevano parlare? Siamo in grado di ottenere alcuni indizi dalla anatomia comparata. Il nervo motore della lingua emerge attraverso un canale alla base del cranio, quindi è possibile valutare la sua dimensione in teschi fossili. Sia l’uomo di Neanderthal sia il Cro-Magnon avevano grandi canali, mentre i teschi degli australopitechi il cui canale può essere misurato hanno dimostrano dimensioni uguali ai canali delle scimmie contemporanee. Ma ci sono troppo pochi fossili adatti per permetterci di avere la certezza di quando la variazione è avvenuta. Un altro indizio anatomico proviene dalle stime del diametro del canale spinale nella vertebre toracica superiore. Un allargamento in questo luogo può essere correlato al controllo preciso del respiro necessario per la voce; si trova in entrambi gli esseri umani moderni e nell’uomo di Neanderthal. Prendendo queste due misure insieme, Dunbar suggerisce che l’ultima data possibile per lo sviluppo di almeno una qualche forma di parola deve essere circa mezzo milione di anni fa.

Dunbar guarda anche allo sviluppo del linguaggio da un’altra direzione, certo meno convenzionale. Considera il linguaggio umano come qualcosa sorto per governare su altri primati, e pensa che nella sua prima forma potrebbe essere stato costituito dal canto e dal riso piuttosto che dalla comunicazione di informazioni più strettamente simbolica, che è venuta dopo. Con il linguaggio complesso, le forme più elaborate di cultura divennero possibili. Gli scimpanzé attuali sembrano avere tratti culturali umani, ma Dunbar pensa che la loro incapacità di raggiungere livelli più alti di intenzionalità spieghi anche il perché non possano mai acquistare culture più complesse. Nessuno scimpanzé potrebbe seguire la trama di Otello. Ed è questa capacità umana di possedere un alto livello d’intenzionalità che lo ha portato all’invenzione della religione in ogni società umana che conosciamo.

Dunbar dubita che ci sia una evidenza scientifica della presenza della religione o delle credenze in una vita dopo la morte tra gli uomini di Neanderthal. Questo è piuttosto sorprendente, dato che la loro dimensione media del cervello era addirittura superiore al nostro. Se davvero mancavano forme religiose, questo può dipendere dal fatto che i loro lobi frontali (necessari per il pensiero astratto) siano stati relativamente poco sviluppati, pur avendo grandi lobi occipitali. Questo può indicare che avessero un ordine inferiore di intenzionalità, e perciò un linguaggio meno complesso rispetto ai Cro-Magnon. E, infine, se non avevano la religione, la loro società può essere stata meno coesa di quella dei Cro-Magnon e questo può spiegare, in ultima analisi, la loro incapacità di sopravvivere. Perciò la loro estinzione.

Dunbar considera la religione in maniera simile a David Lewis-Williams in “La mente nella caverna”, che egli cita. Tuttavia, sembrano esserci qui un gran numero di ipotesi poco verificabili nella catena discorsiva dell’autore. Ci troviamo di fronte, oggi, come osserva Dunbar, ad una sorta di paradosso. Il nostro successo evolutivo sembra essere stato legato allo sviluppo della religione come elemento di coesione sociale, e ci sarebbero un bel po’ di prove per dimostrare che le società che sono fermamente basate sulla religione sono più stabili e hanno una migliore salute psicologica che società meno tradizionali. Dunbar certamente non si pone il problema delle forme cripto-religiose nelle società laiche o apparentemente tali, altrimenti il libro sarebbe esploso. E neppure dei fondamentalismi. Ma certamente riporta alla memoria le parole di Thomas Stearns Eliot (lui stesso cristiano), quasi a dargli ragione, ma in un modo un po’ diverso dalle reali intenzioni del poeta, quando scrisse: “Il genere umano non può sopportare / troppa realtà

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