Alexis de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione. Una recensione di Francesca Borsari

Vecchie e nuove rappresentazioni "pop" sui privilegi di classe

Il libro che oggi pubblico non è una storia della Rivoluzione, storia già stata fatta con troppo splendore perché io pensi di rifarla; ma uno studio su questa rivoluzione. (p. 27). 

Per chi ama le letture storiche originali, ma al contempo organiche e fedeli ai documenti non può farsi sfuggire questo classico sulla Rivoluzione. Sebbene di origini aristocratiche, Tocqueville offre un’analisi disincantata sul mondo che ha preceduto l’evento che ha accelerato il passo della storia, così come sul mondo che ne seguirà. Occorre ricordare anche che l’autore scrive a ridosso di un’altra rivoluzione importante, quella del 1848, che in Francia aveva sconvolto non poco l’assetto politico e sociale. A maggior ragione la lucidità dell’autore del già celebre “La democrazia in America” (1835 e 1840), va ammirata e va presa come esempio per la delineazione di scenari futuri del contemporaneo. Inoltre è innovativo il metodo usato, cioè lo studio delle classi sociali. Non è ancora un’analisi economica delle classi alla vigilia della Rivoluzione, come ad esempio ci ha abituati Hobsbawm, ma un’analisi politica e dell’egemonia culturale di queste classi.

Il testo di Tocqueville del 1856 rappresentò una svolta storiografica negli studi sulla Rivoluzione Francese. Le altre opere coeve pur differenziandosi nella diversa impostazione politica, liberale o socialista, avevano in comune la considerazione della Rivoluzione come di un movimento di rottura, essenzialmente innovatore. Gli storici della seconda metà del XIX secolo, a differenza di quelli della Restaurazione come Burke o De Maistre, non avevano più un atteggiamento di “reazione” contro la Rivoluzione, ma di accoglienza dei cambiamenti che portava con sé, specialmente in senso borghese: tutti loro evidenziavano una svolta. Tocqueville invece affermò il contrario, ovvero che vi fosse una sostanziale continuità tra il vecchio regime, la Rivoluzione e la situazione che si produsse in seguito a questa. L’evento rivoluzionario aveva semplicemente accelerato quel processo di accentramento amministrativo cominciato nell’Ancien Règime: attraverso un processo rapido e violento, si passò dallo stato politico allo stato sociale. Se la Rivoluzione fu l’esito improvviso di un processo in qualche misura già scritto, diventava allora fondamentale comprendere perché la Rivoluzione scoppiò proprio in Francia e per quale motivo. Secondo Tocqueville la ragione risiedeva nella particolare condizione dello stato francese, che vedeva da un lato la prosperità economica e sociale del periodo di Luigi XVI, dall’altro la forte contraddizione tra stato sociale ed ordinamento giuridico.

    Esaminiamo il secondo punto, cioè questa contraddizione tra diritti e privilegi. Secondo Tocqueville le condizioni di uguaglianza giuridica erano maggiori in Francia che in qualunque altro stato europeo. Il contadino non era più un servo della gleba ed era di frequente proprietario fondiario, i suoi diritti erano sempre più simili a quelli del borghese e dell’aristocratico. La persona realmente responsabile delle questioni amministrative era l’intendente, un funzionario regio scelto non più scelto in base alla censo. Il contadino era dunque responsabile di fronte allo stato, tuttavia doveva pagare le tasse ancora al nobile, il quale non viveva più nemmeno in quelle terre, provocando una condizione di isolamento più totale nei riguardi della classe contadina. La borghesia, soprattutto l’alta borghesia, fu la protagonista di questi cambiamenti: nasceva una nuova nobiltà finanziaria. Il bisogno costante di finanze faceva sì che il sovrano mettesse in vendita cariche una volta considerate appannaggio dei nobili, sottraendo a se stesso anche il privilegio di conferirle e toglierle a proprio arbitrio. Afflusso di denaro, capacità tecniche, allontanamento della minaccia nobiliare sono le necessità stringenti di un sovrano che deve essere sempre più assoluto, progetto che ricordiamo già nelle menti di Luigi XIV e del cardinal Richelieu.

La nobiltà infine conservava ancora i fasti del passato, ma in maniera sempre più nominale. Essa non aveva ormai più nessun potere effettivo, né in campo amministrativo né in quello militare. Era il modello a cui aspirava la nuova aristocrazia borghese ed il bersaglio del terzo stato che vedeva in essa il regno dei privilegi. La diseguaglianza delle imposte fu alla base della Rivoluzione, laddove il contentino riservato ai nobili dal re, faceva pesare un carico insopportabile di tasse sui contadini. Il punto fondamentale qui non fu tanto il privilegio in sé, quanto il fatto che a questo privilegio non fosse connesso alcun potere. La grande massima che Tocqueville ci regala è che un carico ci risulta insopportabile quando ne percepiamo tutta la sua inutilità, e l’aristocrazia stava diventando una classe inutile. E questo certamente per Tocqueville segna il destino di questa classe:

…Tutti gli uomini dei nostri tempi sono trascinati da una forza sconosciuta che si può sperare di regolare o di rallentare, ma non di vincere, e che a volte li spinge dolcemente, a volte li precipita, verso la distruzione dell’aristocrazia. (p. 33)

 Lo stesso discorso verrà ripreso da Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, quando il discorso sull’aristocrazia fa da metafora a quello sul sorgere dell’antisemitismo in relazione alla percezione dell’ebreo come classe non più “speciale” in virtù del ruolo che svolgeva, e quindi più intollerabile. Per concludere, alla vigilia della Rivoluzione, le classi si assomigliavano sempre più nei diritti a dispetto delle condizioni. Tutto questo avveniva a fronte di un miglioramento generale dell’economia, che a sua volta rendeva più intollerabili le contingenti situazioni di miseria o carestia. Secondo Tocqueville un nuovo spirito si era diffuso nell’uomo, quello tendente verso l’individualismo e la ricerca costante del profitto.

    Dopo aver chiarito perché la Rivoluzione scoppi, occorreva capire secondo Tocqueville le peculiarità dell’Antico Regime in Francia. Se nel Medioevo alle invasioni barbariche sopravviveva l’uniformità della legge del Diritto Romano che si estendeva all’Europa intera e che determinava il cosiddetto sistema feudale, nella Francia del ‘700 questa costituzione era quasi completamente distrutta. L’aristocrazia era già debole, mentre la regalità aveva altre prerogative da quelle tradizionali: essa cioè si avocò due nuovi poteri, quello dell’amministrazione statale che si allargava ovunque, ed una gerarchia di funzionari che sostituì il governo dei nobili. Il potere centrale dunque si impossessava gradualmente dell’amministrazione locale, attraverso l’introduzione di un funzionario, responsabile per ogni provincia. Al di sopra dei funzionari vi era un controllore generale, nominato dal re e con ampi poteri decisionali. Al vertice assoluto un Consiglio del Re, nel quale erano riuniti tutti i poteri, nel quale era il re a decidere e la cui composizione consisteva prettamente di persone di ceto medio. Inoltre le libertà municipali erano state eliminate dal 1692, al loro posto il re vendeva ad alcuni abitanti il diritto di governare, tuttavia gli affari veri e propri venivano controllati in misura crescente dal Consiglio.

    Se inoltre la legge era sempre più uguale per tutti, così non fu per l’amministrazione, che godeva dell’introduzione di tribunali speciali per le questioni che coinvolgevano questa e i cittadini, facendo pendere naturalmente l’ago della bilancia a favore della prima. Parigi poi era preponderante rispetto all’Impero, tutte le decisioni venivano prese in quella che era la prima capitale intesa in senso moderno; conseguentemente si verificò un “non voluto” inurbamento della città. Urbanizzazione, assieme all’alto livello burocratico e al sorgere della statistica per rendere sempre più prevedibili e controllati i fenomeni sociali, sono tra le maggiori caratteristiche del periodo. Posto che questi elementi si ritrovano accentuati dopo la Rivoluzione, il valore di questo evento è stato quello di una rivolgimento sociale e politico mascherato da rivoluzione religiosa. Con essa si passò ad un ordine sociale e politico più uniforme basato sull’uguaglianza delle condizioni. Fu una rivoluzione anarchica solo in un primo momento, nel quale si dovettero attaccare contemporaneamente tutti i poter costituiti e cancellare la tradizione per sostituirvi un potere nuovo, dice Tocqueville.

    La maschera di “rivoluzione religiosa” era dovuta principalmente a quei fattori che hanno reso universale una religione come il cristianesimo. La non territorialità della Rivoluzione, cioè il fatto di appellarsi ad ogni uomo e donna di Francia e poi d’Europa, agì secondo lo stesso principio che aveva seguito il cristianesimo in contrapposizione alle religioni antiche, che secondo Tocqueville erano profondamente legate al loro territorio. Allo stesso modo fu importante la predicazione e la propaganda, come un vero e proprio proselitismo religioso; infine il carattere astratto e generale. Se Tocqueville studia da una parte il carattere religioso della rivoluzione, dall’altra studia coerentemente l’aspetto della irreligione tipico di quegli anni. La Chiesa era vista essenzialmente come una classe privilegiata, così come lo era la nobiltà, tuttavia era la nobiltà stessa ad avversare i principi religiosi giudicandoli come ottusamente tradizionali.

    Verrebbe da dire che la nobiltà non si rendesse conto di appartenere lei stessa a quel mondo di privilegi sul punto di essere superati. Il carattere anti-religioso non era intrinseco, simboleggiava semplicemente e vistosamente l’attacco ad una istituzione privilegiata. La prova di questo fu fornita dal fatto che i primi a convertirsi furono i nobili, seguiti a ruota dai borghesi nel momento in cui, ottenute le garanzie volute, ritennero naturale e saggio un ritorno alla confessione religiosa. Altrettanto lucidamente Tocqueville vede come un errore l’attacco congiunto verso la Chiesa, in quanto era proprio l’istituzione in grado di garantire la stabilità. L’attacco alla tradizione venne perpetuata in primis dai filosofi, ceto al quale l’autore presta un’attenzione particolare.  Questa classe, per contrapporsi agli usi complicati e tradizionali del loro tempo, formulò regole basate sulla legge naturale e sulla ragione, che risultarono secondo Tocqueville in principi piuttosto astratti.

Il problema nasceva nel momento in cui la classe dei filosofi era anche paradossalmente la classe politica della Francia del XVIII secolo. Quella Francia che vedeva accresciuto l’apparato amministrativo ai livelli parossistici a cui siamo noi oggi abituati, che vedeva la classe aristocratica tradizionalmente impegnata in politica, allontanarsene come risultato di un compromesso, quella Francia che aveva addirittura perso le libertà municipali, era un paese complessivamente meglio funzionante ma meno libero. Diventa allora più comprensibile il perché i filosofi fossero anche i politici, in una tradizione molto diversa da quella parlamentare inglese. I filosofi elaborarono posizioni anche piuttosto progressiste, ma totalmente avulse dalla pratica, tanto che vennero in una certa misura favorite dai nobili e dal sovrano.

    Tenendo presente che la Rivoluzione venne scatenata secondo Tocqueville da due principi, quell’uguaglianza e quello della libertà, occorre dire che la tendenza verso il primo era anche quella perseguita dal governo regio, che vedeva nell’uguaglianza anche una tecnica per un maggiore accentramento. Pertanto si può dedurre che non vi fosse un sostanziale scontro, se non quando l’insistenza sull’uguaglianza mostra al terzo stato le contraddizioni sociali esistenti. L’altro perno sui cui si fondò la rivoluzione, la libertà, fu secondo Tocqueville l’ultima caratteristica a presentarsi, e benché fondamentale, fu anche la prima a scomparire. Nell’ultimo trentennio del XVIII secolo le province cominciarono a manifestare i desiderio di amministrarsi, così come fu una reazione di indignazione quella che seguì all’abolizione dei Parlamenti nel 1771.

    Sebbene questo passaggio risulti forse non chiarissimo, è evidente dove vuole condurci l’esercizio retorico dell’autore: la libertà accende la Rivoluzione, ma è nel momento in cui questa si spegne e comincia il Terrore, poi l’Impero, che giunge a compimento il grande processo di accentramento iniziato nell’Antico Regime e la vera rivoluzione dell’89:

Vedo bene che i popoli, quando sono mal guidati, concepiscono volentieri il desiderio di governarsi da sé, ma quest’amore dell’indipendenza nato da certi mali particolari e passeggeri portati dal dispotismo, non dura mai; passa con l’incidente con cui è nato, si credeva di amare la libertà, e si comprende che si odiava soltanto un padrone. I popoli fatti per essere liberi odiano il male stesso della servitù. (p.215)

 L’uguaglianza, proclamata solennemente nella Costituzione del ’91, verrà infatti conservata a spese della libertà, compito che l’autore sembra destinare alla borghesia. L’opera di Tocqueville si colloca infatti in quelle di ispirazione democratico-liberale, soprattutto nella visione del Cesarismo come di una forma provvisoria, superata da una necessaria rinascita della libertà.

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