Melancholia, di Lars von Trier. Una recensione

La famosa "Ofelia" di Millais

Nelle depressioni l’annientamento presenta una tonalità diversa da quella della fine nelle schizofrenie. Non si tratta di angoscia per quanto sopravviene, di esperire una catastrofe  cosmica che si sta producendo; si tratta piuttosto del raccapriccio davanti a ciò che già è, il terrore davanti al vuoto, alla consumazione, all’annientamento. Un caratteristico senso di isolamento, che incontriamo come carattere della fine del mondo schizofrenica, lo ritroviamo talora anche presso tali depressi“. (de Martino, La fine del mondo, p.34)

La pura depressione è caratterizzata da un profondo immotivato cordoglio, da un impedimento di ogni divenire psichico, sentito soggettivamente come doloroso e tenuto al tempo stesso per obiettivo. Tutti gli stimoli cadono, il malato non prende piacere di nulla, la mobilità e attività diminuite si trasformano in assoluta mmobilità. Nessuna decisione può esser presa, nessuna attività esser presa in considerazione. Le associazioni non sono più disponibili. I malati si lamentano del loro vuoto, della loro insufficienza, della loro mancanza di affetti, della loro incapacità, della loro memoria confusa. Il mondo appare grigio, indifferente. Il passato è pieno di colpa, il presente miserabile, il futuro non ha orizzonte. Nella sindrome melancolica la depressione si sviluppa in senso delirante: i malati sono responsabili della infelicità di tutto il mondo” (Jasper).  Proprio per questa onnipresente colpevolezza sottolineata da Jasper nelle sindromi depressive, il mondo “merita la distruzione” e un depresso cronico, come sottolineava Freud, diviene facilmente irritabile. La causa del suo malessere (e l’allucinatoria soluzione del malessere) può divenire spesso quel mondo stesso, che merita una condanna. Il quadro si ritrova nelle parole di Justine, una delle due protaginiste del film: “l’umanità non merita di sopravvivere”.

Malanchonia è il film di Lars von Trier più psicanalitico, e per questo, anche più autobiografico. Le due protagoniste del film, le sorelle Justine e Claire, per Lars  sono speculari. L’ansia e la maliconia che le dominano sono due facce della stessa medaglia; questi due vissuti  trovano compimento finale nella dissoluzione apocalittica di tutto, che non è più una minaccia (come nell’ansia) né una “giusta” punizione per se stessa o per l’umanità (come nella depressione), ma un destino inevitabile che si concretizza visivamente. Il regista si permette, in un’atmosfera sempre più irreale e onirica (quasi come fossimo in un progressivo decadimento della realtà, tipico delle psicosi) il lusso anche di “raccontare” i genitori delle due ragazze,  mostrando l’eziologia dei vissuti delle due sorelle (e probabilmente dei suoi): un padre assente e irresponsabile che illude continuamente le richieste di amore delle figlie, una madre cinica, disillusa, rancorosa e rabbiosa verso il mondo e le figlie, isolata in un narcisismo che la rende altrettanto assente. Figure archetipe, naturalmente, rigorosamente divorziate e borghesi. Quanto queste “maschere” siano autobiografiche basta vederlo leggendo una qualsiasi biografia del regista. Chiamare “atipiche” le figure parentali di Lars è poco. Come altri film del regista (pensare a Dogville, per esempio), non vi è redenzione né speranza per l’umanità, ma sembra quasi che Lars cerchi l’origine del suo pessimismo in una autoanalisi psicologica e di forte impatto lirico. Il regista non è esente da stati malinconici e fobie, al contrario. Secondo la sua voce di wikipedia:

Non viaggia in aereo, e questo gli preclude spostamenti troppo lontani: durante alcune scene di Le onde del destino che si svolgono su una chiatta sull’oceano, il regista ha seguito le riprese a distanza, sulla terra ferma. Inoltre non fa un segreto della propria ipocondria; è sempre convinto di avere qualche tipo di cancro o tumore, e se ne lamenta spesso: “Io [di fobie] ne ho da vendere.” Von Trier ha sofferto anche di lunghi periodi di depressione“.

Il film funziona: la colonna sonora di Wagner (Tristano e Isotta) anticipa il finale, come un depresso o un ansioso anticipano e vivono la propria fine. L’ansia, poi, è esattamente quella che il regista fa vivere nella seconda parte del film (un film lento e mai noioso), dove la minaccia “insensata” (nonostante la scienza, ruolo negativo-maschile, e superfluo, incarnato dal marito di Claire, negasse continuamente la possibilità della catastrofe) di un pianeta che può collidere con la terra, viene resa splendidamente. Ci si ritrorva nella definizione di ansia come di una “paura senza oggetto”. Il film creando queste atmosfere ha ricreato nello spettatore perfettamente quello che raccontava. Le due donne rendono pienamente quello che incarnano, e lo trasmettono splendidamente ad un pubblico ricettivo e senza paraocchi ideologici: “è l’espressione di una incapacità interna di felicità e di un bisogno interno di sventura. Rovina e negazione, persecuzione e disonore, scoraggiamento e certezza della  catastrofe inevitabile, la rassegnazione,  la fatalità, l’espiazione impossibile e necessaria come vissuti della coscienza malinconica” (Weiterecht, Schneider, citati in de Martino, La fine del mondo, p.125). Ofelia-Justine, col suo sguardo sempre altrove (anche durante il suo disastroso matrimonio, che sarebbe dovuto essere il giorno più felice della sua vita), sempre in una meta o in uno stato “che non sia questo”, sempre in viaggio verso l’altrove,  apre ad altre tematiche legate alla malinconia, ma che non sono necessarie per capire questo film e ci allontanano dalle intenzioni del regista, l’unico vero dio e protagonista della pellicola.

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