Cos’è la Laicità? Il concetto di un Dio non più necessario

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(Nel disegno, l’interferometro del celebre esperimento di Michelson-Morley)

Il 20 settembre 2010 ricorrrevano i 140 anni dalla breccia di Porta Pia, e qui a Roma si è festeggiata la capitale d’Italia. Una ghiotta occasione per parlare di laicità e religione. Ma cosa centra l’interferometro di Michelson con Dio? Niente di esoterico, niente a che fare con la spazzatura stile Dan Brown o Giacobbo!

Per secoli si era creduto che la luce, per propagarsi, avesse bisogno di un substrato, l’etere appunto. L’esperimento di Michelson-Morley dimostrò che questo ente postulato, l’etere, non esistesse, o che, più diabolicamente, quando anche ammettendo la sua possibile esistenza, esso non avesse nessuna influenza sulla luce e sulla sua propagazione.

Con l’ente Dio, a livello di storia delle idee, accade la stessa cosa. Il mondo, la scienza, e le istituzioni laiche si sono sviluppate partendo dalla convinzione che non sia più un tassello indispensabile. In questo, più recentemente,  ha avuto un ruolo fondamentale Darwin; per primo ha parlato di vita ed evoluzione, con un sistema suffragato dai fatti, senza  la necessità di alcun intervento provvidenziale o divino. E’una idea troppo “blanda”, questa, di laicità? Libri come quello di Monod, Caso e necessità, teorizzano invece non certo una “prudente” inutilità di Dio, ma di più, un Suo ostacolo sia Etico, sia Logico che Epistemologico allo sviluppo di una mentalità laica.

Il cammino della modernità non è altro che una ridefinizione epistemologica continua delle varie discipline, che progressivamente si affrancano dalla pervasività del Sapere teologico, un Sapere che, come tutti gli altri, pur essendo storico e frutto di elaborazioni contestualizzuabili socio-politicamente, ha la pretesa di autodefinirsi “metastorico”, frutto di una Rivelazione, o frutto di una Verità assoluta depositata nella natura. Verità che, secondo la Teologia naturale, andrebbe solamente ascoltata. La Filosofia, un po’ come nel dibattito di una società civile, prevede una continua ridefinizione delle concezioni  su cui si basa qualsiasi pretesa di Verità, da quella scientifica a quella etica, a quella politica. Da questo punto di vista, ci risulta ostico ogni tentativo di assolutizzazione dei saperi, errore in cui è caduta anche la stessa Scienza.

Ciò non toglie che si può parlare di scienza, di politica e di etica nel senso moderno dei loro rispettivi termini solo da quando, come si è precedentemente accennato, si è definita, spesso grazie a sacrifici ed a prezzi alti in vite umane, una loro autonomia dalla speculazione teologica.

L’Etica moderna nasce dal presupposto che parlare di bene e male senza un Dio che funga da regolatore di questi principi è possibile; allo stesso modo, la scienza moderna ed il naturalismo  nascono dal presupposto che ogni evento naturale abbia una spiegazione non al di fuori dell’ambito fisico, ma al di dentro, secondo precise leggi che escludono o comunque rendono non più necessario l’intervento sovrannaturale. La stessa Politica moderna non è esente da tale processo di “autonomizzazione” dal sapere aprioristico teologico: già nel medioevo si discuteva delle due competenze e delle due sfere di influenza fra potere temporale e spirituale. Le definizioni moderne di Politica, così come di Stato, includono espressioni tipo “patto sociale” e “scontro egemonico”, concetti volontaristici che nulla hanno a che fare (di più, le escludono a priori) con dottrine quali investiture divine o legittimazioni teologiche di potere. E mentre si discute così ideologicamente sulle radici dell’Europa, è importante sottolineare che la moderna concezione di Europa come “comunità di Stati” nasce dalla disgregazione della Christianitas, e cioè dall’autonomia dello Stato dalle idee universali quali la Chiesa.

Ai fini del nostro discorso, è però opportuno sottolineare che la Filosofia, nella sua metodica e fondamentale ricerca di autonomia da qualsiasi sapere anapodittico (come la Teologia o un certo tipo di Scienza) è arricchita continuamente da elementi esterni ad essa, quali le religioni. Ma è necessario ribadire che questo apporto, che spesso è reciproco, mai deve intaccare, come sta cercando di fare l’attuale deriva Teocon, i postulati del metodo filosofico.

Ultimo punto. Quali sono le implicazioni teologiche di un tale discorso? La teologia riesce a cogliere le sfide da parte del mondo laico, l’incredibile provocazione di una “blasfema” autonomia, o continuerà per sempre a tapparsi le orecchie?  Sicuramente, affermare che un Dio non è più necessario significa farlo diventare, cristianamente, un Dio della fede, e non più un Dio “tappabuchi” per spiegare la sofferenza, i misteri non svelati,  la natura, l’etica, o qualsivolgia altro problema. Significa liberarlo dalle catene della ragionevolezza, far diventare cioè non più un “difetto” di ragione il non credere in Lui, bensì di “volontà” (della serie: non sei stupido, ma sei svogliato…).  Significa certamente avvicinarsi a quella che forse è l’unica teologia cristiana (assieme alla teologia della liberazione) che, in qulche modo, possa dialogare e provocare il mondo laico, e cioè quella che si rifà a Dietrich Bonhoeffer (per chi scrive, forse la voce teologica più autorevole del Novecento), e non certo alle sintesi forti di fede e ragione proposte da tomismo e neotomismo, nonchè dall’attuale pontificato di Ratzinger.

Ecco alcuni estratti dalle ultime lettere di Bonhoeffer dal carcere, poco prima dell’esecuzione da parte dei nazisti:

[…] Spesso mi chiedo come mai un “istinto cristiano” mi spinga frequentemente verso le persone non religiose piuttosto che verso quelle religiose, e ciò assolutamente non con l’intenzione di fare proselitismo, ma vorrei quasi dire “fraternamente”. Mentre davanti alle persone religiose spesso mi vergogno di nominare il nome di Dio – perchè in codesta situazione mi pare che esso suoni in qualche modo falso, e io stesso mi sento un po’ insincero (particolarmente spiacevole è la situazione quando gli altri cominciano a parlare in termini religiosi; allora ammutolisco quasi del tutto, e la faccenda diventa per me in certo modo soffocante e sgradevole) – davanti alle persone non religiose in certe occasioni posso nominare Dio in piena tranquillità e come se fosse cosa ovvia.Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana (qualche volta semplicemente per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in campo è sempre il “deus ex macchina”, come soluzione a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani; questo inevitabilmente riesce sempre e soltanto finchè gli uomini con le loro proprie forze non spingono i limiti un po’ più avanti, e il Dio inteso come “deus ex macchina” non diventa superfluo – per me il discorso sui limiti umani è diventato assolutamente problematico (sono oggi ancora autentici limiti la morte, che gli uomini non temono più, e il peccato, che gli uomini quasi non comprendono?); mi sembra sempre come se volessimo soltanto pavidamente salvare così un po’ di spazio per Dio; – io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Giunti ai limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile. La fede nella risurrezione non è la “soluzione” del problema della morte. L’aldilà di Dio non è l’aldilà delle nostre capacità di conoscenza! La trascendenza gnoseologica non ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio. E’ al centro della nostra vita che Dio è l’aldilà. La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio. Così stanno le cose secondo l’ Antico Testamento, e da questo punto di vista noi leggiamo il NT ancora troppo poco a partire dall’AT. Attualmente sto riflettendo molto su quale aspetto abbia questo cristianesimo non religioso, e quale forma esso assuma; presto te ne scriverò più a lungo. […]

[…] Che significa a questo punto “interpetare religiosamente”? Significa, secondo me, da una parte parlare in modo metafisico, e dall’altra in modo individualistico. Entrambi, questi modi non colgono né il messaggio biblico né l’uomo d’oggi. Non è forse scomparso quasi completamente per tutti noi il problema individualistico della salveza personale dell’anima? Non ci troviamo effettivamente sotto l’impressione che ci sono cose più importanti di questo problema (forse non più importanti di questa cosa, ma di questo problema!?)? So che suona qualsi mostruoso dire una cosa simile. Ma in fondo non è addirittura biblico? Si trova mai nellAntico Testamento la questione della salvezza personale dell’anima? Il centro di tutto non è forse la giustizia e il Regno di Dio sulla terra? […] Nell’evangelo ciò che è oltre questo mondo intende esserci per questo mondo; penso questo non nel senso antropocentrico della teologia liberale, mistica, pietistica, etica, ma nel senso biblico della creazione e della resurrezione di Gesù Cristo. Barth è stato il primo teologo – e questo resta il suo  grandissimo merito – a iniziare la critica della religione, ma poi ha collocato al suo posto una dottrina positivistica della rivelazione, dove vale la massima: “O mangi questa finestra o salti dalla finestra”; si tratti della nascita verginale, della Trinità o di che altro, ogni cosa rappresenta un elemento egualmente importante e necessario del tutto, che appunto come un tutto dev’essere ingoiato o rifiutato. Ma questo non è bilbico. […] Al momento sto riflettendo su come si debbano reinterpetare “mondanamente” i concetti di penitenza, fede, giustificazione, rinascita, santificazione, nel senso dell’Antico Yestamento e di Gv 1,14. Te ne scriverò prossimamente!

[…] Ancora qualche parola a proposito delle nostre idee sull’ AT. A differenza di tutte le altre religioni orientali, la fede dell AT non è una religione della redenzione. Ora però il cristianesimo viene comunque sempre designato come religione della redenzione. Non è qiesto un errore decisivo, col quale Cristo viene separato dall’AT e viene interpretato a partire dai miti della redenzione? All’obiezione che la redenzione (dall’Egitto e poi da Babilonia, cfr il Deuteroisaia) avrebbe un significato decisivo anche nell’AT, si deve replicare che qui si tratta di redenzione STORICA, cioè al di qua del limite della morte. Israele viene redento dall’Egitto perchè possa vivere davanti a Dio, sulla terra, come popolo di Dio. I miti della redenzione cercano astoricamente un’eternità posteriore alla morte.  Lo sheol, l’Ade, non sono prodotti di una qualche metafisica, ma le immagini attraverso le quali ciò che è stato sulla terra viene raffigurato sì come esistente, ma tuttavia capace di entrare nella realtà del presente solo come ombra.

A questo punto si dice che decisivo nel cristianesimo sarebbe il fatto che è stata annunicata la speranza della risurrezione, e che dunque così sarebbe nata una autentica religione della redenzione. Il baricentro si sposta allora sull’aldilà rispetto al limite della morte. E proprio qui io vedo l’errore ed il pericolo. Redenzione significa allora redenzione dalle preoccupazioni, dalle pene, dalle paure e dalle nostalgie, dal peccato e dalla morte, in un aldilà migliore. MA sarebbe questo il punto essenziale dell’annuncio di Cristo contenuto nei vangeli e in Paolo? Lo nego. La speranza cristiana della risurrezione si distingue da quelle mitologiche per il fatto che essa rinvia gli uomini alla loro vita sulla terra in modo del tutto nuovo e anora più radicale che nell’ AT. […]
I miti della redenzione nascono dalle esperienze limite degli esseri umani. Cristo invece afferra l’uomo al centro della sua vita. Come vedi, mi girano per la testa sempre gli stessi pensieri. Ora li devo documentare dettagliatamente dal punto di vista neotestamentario. Questo avverrà un po’ più avanti. Per oggi basta così. Stammi bene, Eberhard: Dio ti protegga ogni giorno. Con un fedele ricordo e con riconoscenza, sempre.
Tuo Dietrich
PS  Leggo sul giornale che in Italia c’è un caldo tropicale. Povero te! Mi ritorna in mente l’agosto 1936. Sal 121,6

2 pensieri su “Cos’è la Laicità? Il concetto di un Dio non più necessario

  1. “Il cammino della modernità non è altro che una ridefinizione epistemologica continua delle varie discipline, che progressivamente si affrancano dalla pervasività del Sapere teologico”.

    Sono profondamente d’accordo con quest’affermazione che, molto più banalmente, si potrebbe chiamare “secolarizzazione”.
    Certo non è stato un cammino semplice, pacifico. Il Conflitto culturale tra il Cielo e la Terra ha prodotto molte lacerazioni: la Rivoluzione francese, la Restaurazione, il legittimismo e nuovamente le Rivoluzioni borghesi e liberali della seconda metà dell’800. E, forse, solo la II Guerra mondiale, con la Catastrofe dell’Olocausto, ha “rinchiuso” Dio nelle Chiese nazionali e locali. Dico questo perchè a me sembra un Conflitto ancora aperto. Da parte Politica e, per certi versi, anche scientifica non è più un problema di primaria importanza. Sacche di questo Conflitto culturale, però, si rendono quotidianamente evidenti sul terreno dell’Etica, ad esempio. Ed anche in questo caso dipende dai rapporti di forza, dagli strati di Storia che si sono prodotti e riprodotti. In Italia penso al Concordato. L’Unità, il Risorgimento, non avrebbero mai potuto darsi senza la “pacificazione” con la Chiesa. E la Chiesa, per questa ragione, in Italia riesce a mantenere un sistema complesso e radicato che le permette di fare Cultura (quindi Etica).
    Per queste ragioni, a mio umile avviso, il problema della laicità sembrerebbe essere un “falso” problema, una scure utilizzata da chi vorrebbe che la Chiesa smettesse la sua aspirazione principale: la Missione. La Missione della Chiesa è quella di creare consenso, di penetrare ogni zona d’ombra illuminandola con la sua Cultura, con la sua Etica. Semplicemente si dovrebbe prendere atto di questo scontro, come di uno scontro tra chi ha Idee differenti, e praticarlo. Forse la Laicità è proprio questo: accettare la sfida.

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