Tecno-scienza e filosofia ambientale. Oltre l’umanesimo. Un connubio possibile?

Questo, dunque, è quello di cui si occupano le arti,
questo è quello che si propongono, cioè restituire a noi
la somiglianza divina.
(Ugo di San Vittore)
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Le correnti ideologiche che si battono per il superamento delle dicotomie uomo/natura, natura/cultura e materiale/immateriale rappresentano un potenziale alleato delle ragioni ambientaliste in quanto intaccano, scardinandolo alla base, il paradigma umanista ed antropocentrico dell’uomo anomalia del cosmo, dell’uomo differente di natura, dell’uomo incompleto e inadatto che si redime tramite la cultura e la tecnica, destinato a dominare e sottomettere la natura per via di un destino, una origine, un telos superiori. A queste correnti alleate appartiene in maniera particolare quella che si potrebbe definire la galassia del postumano. I presupposti del superamento dell’umano, del farsi-uomo classicamente ed umanisticamente inteso si ritrovano compiutamente in Nietzsche, ma è solo nel Novecento che tale prospettiva trionfa nella sua peculiarità, grazie soprattutto allo sviluppo esponenziale delle tecnoscienze e alla teoria dell’evoluzione. Invece di avvertire la tecnoscienza come un pericolo, invece di creare un nuovo luddismo e così adeguarsi ad alcune correnti filosofiche del Novecento o all’ambientalismo classico, il postumano vede in essa un elemento chiave, atto al riposizionamento dell’uomo nel suo umile posto all’interno della natura e come parte integrante del tutto, un tutto che non è inteso misticamente ma in maniera, come si vedrà, del tutto laica ed oggettiva.

L’essere umano è fin dalle sue origini filogenetiche un ibrido, un camaleonte culturale ibridato con l’alterità tecnica, animale e vegetale (Marchesini 2002). La tecnica, per i postumanisti, si è già iscritta nel corpo ancor prima dell’epoca postmoderna: la forma delle mani si è evoluta in base alla manipolazione di oggetti e realtà esterne, così come le altre facoltà biologiche e culturali si sono sviluppate in base a fattori esterni selettivi di competizione e collaborazione intraspecifica e interspecifica, ma non solo, anche in base alla possibilità o meno di relazionarsi con la realtà inanimata con cui la specie umana ha sempre avuto relazione. Come le forma delle conifere, che, in una foresta, dipende dall’instaurarsi dell’ habitat, dell’alterità materiale e della partnership evolutiva (sia in concorrenza che in collaborazione) nel loro codice genetico, così la collaborazione con il mondo inanimato e con l’alterità animale e vegetale si è instaurata nel codice genetico della nostra specie, nella nostra carne (la tecnica come potenziamento, prolungamento di facoltà o di sensi) come nelle nostre produzioni culturali. L’essere umano è perciò uno dei più importanti progetti compartecipativi creati dalla natura, il che lo rende per definizione un organismo dipendente, correlato e ibridato con l’alterità naturale, abolendo qualsiasi pretesa di purezza, unicità, essenzialità platonica. La hybris e l’impurità, più che la purezza e il solipsismo ontologico sono i nuovi valori della specie umana, specie nomade come identità e impura quanto a definizione.

È il pensiero neodarwinista a “modificare completamente l’idea di mutazione e di ascendenza comune, non più vissute come degradazione e minaccia alla perfezione originaria, ma come fucina di vita e di variabilità adattiva” (Marchesini 2002, p. 134). Altri contributi alla rottura del paradigma antropocentrico di cui si fa portavoce il pensiero postumano vengono dalla biologia, dalla chimica, dalla fisica, dalla genetica, dalle nanotecnologie, dalla zooantropologia, dall’etologia, dalla sociologia, dall’informatica e dallo sviluppo generale della tecnosfera. L’uomo mutante e ibrido è infatti una realtà ancor più evidente negli ultimi anni, dove si può addirittura parlare non più dell’ipotesi Gaia, ma di Metaman (Stock 1993), ossia di un uomo diventato parte, seguendo e superando il paradigma postumano, tramite tecnologie pervasive e l’abolizione di spazi e tempi, di un superorganismo globale in cui non vi è distinzione, come ai primi livelli di struttura, fra biologico e non biologico, fra naturale e artificiale, di più, fra materiale ed immateriale. Ma il rischio, come si vedrà, nasce proprio di qui: Metaman è anche un oltre-uomo, un oltre-macchina quasi totalmente disinteressato delle trasformazioni che opera sull’ambiente in cui vive, in quanto è lui stesso un organismo mutante ed in perenne trasformazione, e spesso questa trasformazione nomade ha tutti i connotati di un potenziamento.

La scoperta da parte dell’ambientalismo dei contributi della scienza e della tecnica non è nuova nella storia delle idee; la netta dicotomia fra tecnofili e tecnofobi tende ad essere smussata e superata proprio negli ultimi anni del XXI secolo. L’ambientalismo, nato nella seconda metà degli anni sessanta, si appellava a concetti di purezza e di fissità più che alla compartecipazione darwiniana, e le proposte ambientaliste più note si limitavano, per esempio, all’argomento dell’allargamento dei diritti umani alle comunità animali, mostrando per il resto un antropocentrismo ed un umanesimo ancora radicato; in più, queste prime proposte avvertivano nella tecnoscienza uno dei principali mostri da abbattere per risolvere il problema ecologico. Ma lo stesso Naess scriveva, sulla fine degli anni Settanta, che la scienza non è solo dominio e controllo, come teorizzato, facendo qualche esempio, dalla scuola di Francoforte, da Heidegger, Jüngher, Arendt, Spengler, Jasper, Jonas, o da esponenti della controcultura novecentesca che, pur attaccando l’antropocentrismo, misconoscevano i possibili contributi della scienza per darsi in pasto a derive animiste e spiritualiste, istanze deboli e incapaci di fondare un paradigma ecologico:

Nei metodi ipotetico deduttivi e per gli altri metodi usati dalle scienze naturali, non esiste nessuna tendenza in essi inerente, ad usare la manipolazione ed il controllo. […] È una ironia della storia delle idee che i rappresentanti della controcultura abbiano adottato il punto di vista tecnocratico delle scienze naturali o quello dei manuali secondo cui “i fiori odiano la botanica”. Se le cose stanno così, perché i “figli dei fiori” non dovrebbero odiare la scienza? La premessa è falsa: la controcultura può apprendere molto dagli studiosi di scienze naturali (Naess 1977, 66).

In sostanza, Naess cerca un compromesso tra apocalittici ed integrati; critica un atteggiamento della cultura del Novecento che ha profonde origini nell’età moderna, e che può ritrovarsi originariamente nella distinzione neokantiana (e idealistica) fra il mondo umano e storico e le leggi rigide a cui si conformano i fenomeni studiati dalle tecnoscienze. Questa opposizione assume progressivamente, nel corso del secolo scorso, caratteristiche tali che la tecnica diventa e coincide con la modernità, per cui si può parlare, da parte della stragrande maggioranza degli intellettuali del Novecento, di una “ontologia della tecnica” (Nacci 2000), come se fosse possibile carpire una essenza unica e universalmente valida delle tecnoscienze. Questa si estrinsecherebbe nella sua freddezza, oggettività, nel suo metodo asettico e privo di valori, nella sua capacità di adattarsi matematicamente ad uno scopo, nel dominio, nello sfruttamento. Le tecnoscienze sarebbero diventate troppo potenti, sarebbero sfuggite al controllo dell’uomo, per cui la società è obbligata, pena la sua distruzione, a riportarle sotto il suo dominio. A proposito della novecentesca demonizzazione delle tecnoscienze, Michela Nacci afferma:

Che cosa dicono tutte queste diagnosi sulla tecnica, tutte queste ricerche di una sua essenza? Dicono una stessa cosa: che la tecnica è coeva al costituirsi del mondo o natura in oggetto e dell’uomo in soggetto, che la tecnica coincide con il dominio e con l’essenza del nichilismo. Ci dicono che l’essenza della tecnica è identica a quella della modernità […]. Non esiste affatto un soggetto che decide e sceglie per i suoi fini, piuttosto il soggetto è agito dalla tecnica nel momento in cui crede di agirla (Nacci 2000, 5).

D’altra parte, il Novecento ha altresì idealizzato le tecnoscienze, con tinte che le identificano come una panacea salvifica che inesorabilmente avrebbe trasportato l’umanità in un progresso illimitato e quasi automatico. Possono risolvere ogni problema umano, non conoscono ostacoli, il nuovo diventa un valore a prescindere; un ottimismo che coincide con i tamburi trionfanti di una modernità che ha la presunzione di essere un’epoca unica e irripetibile, posta al vertice di un evoluzione e di uno sviluppo inesorabile. Le tecnoscienze sarebbero anche indissolubilmente legate ad un processo politico di democratizzazione, per cui possederle, usufruirne e farne parte sarebbe l’indice di questa libertà così faticosamente raggiunta dopo secoli di arretratezza. La roccaforte degli aristocratici umanisti, così avversi, fin dall’antichità, alla tecnica, sarebbe in realtà un castello di posizioni antidemocratiche, ultimo privilegio di una classe che non vuole scomparire; ma questa fortezza oscurantista vivrebbe i suoi ultimi giorni, assediata dai cannoni della democrazia tecnoscientifica.

Nessuna di queste due tendenze antagoniste appena saminate è adatta a creare un possibile connubio fra ambientalismo e tecnica, perché la prima, in quanto demonizzazione della scienza, porta inesorabilmente a derive aprioristiche o idealistiche che non reggono il confronto con gli aspetti più immediati dell’inesorabile modernità, perdendo così un probabile (anche se alle volte scomodo) alleato; la seconda, in quanto idealizzazione delle tecnoscienze, idealizza anche l’uomo, creando un nuovo dominio antropocentrico ed iperumanistico. Eppure, un avvicendamento dell’ambientalismo alla scienza è già avvenuto, e certo non in maniera da affidarsi al riduzionismo scientifico, ma sfruttando il paradigma della complessità, e denunciando i possibili compromessi della scienza con le sue matrici ideologiche, industriali, capitaliste o socialiste. Tale apporto concettuale risale a studiosi come Bateson, Lovelock, Maturana e Varela, Irwin Thompson: un progetto certo vitale che ha aperto strade al ridimensionamento della scienza in quanto prodotto culturale di una società complessa, emendandola da ogni falsa pretesa di asetticità ed imparzialità. Grazie a questi studiosi, la scienza poteva diventare un alleato dell’ambiente, non idealizzata e finalmente posta su un piano di fallibilità, piuttosto che considerata un pericolo da combattere o un complesso al servizio esclusivo delle industrie, dello Stato o della ideologia dominante. Pur tenendo presente le sfide che le nuove tecnologie lanciano all’ecologia (o meglio, usando la celebre espressione di Guattari, alle tre ecologie), e lo stesso pericolo del sopraggiungere di una tecnocrazia autonoma, apolitica e del tutto indifferente al mondo, questa via dell’ecologismo sfrutta la scienza come un volano per un deciso e più fondato mutamento antropologico. Più recentemente, a proposito di questo – fino a poco tempo fa – inusitato connubio fra scienza ed ambientalismo, Alberto Giovanni Biuso teorizza un essere umano nuovo:

Un umano concepito e vissuto come qualcosa di non autosufficiente, ma come qualcosa di collaborativo con tutto il resto. In questo senso, fra l’altro, il post-umano è veramente una possibilità ecologica, tale proprio perché fa perno su un umano che sia in relazione, e dipendente, da un tutto che, perciò, non può né considerare indifferente né considerare del tutto a sua disposizione (Melandri 2008, 58).

Il dibattito contemporaneo su tecnoscienza e ambientalismo è più improntato sul concetto di responsabilità che su un luddismo a priori; sul fronte postumanista, si arriva a dire che “vedere nella scienza il nemico dell’ecosostenibilità e nella tecnica l’emissario della distruzione ambientalista è stato il peccato mortale del pensiero ecologista” (Marchesini 2002, p. 514) oppure che “sul fronte ecologico, si tenta banalmente di attribuire responsabilità della devastazione del pianeta, delle ingiustizie tra i popoli, dell’erosione della biodiversità a un non chiarito atteggiamento tecnocratico, trasformando la scienza da avventura conoscitiva a pulsione di dominio” (Marchesini 2002, ibidem).

Ma questa rivalutazione delle tecnoscienze non è un eccesso di ottimismo? L’essere umano è davvero in grado di orientare lo sviluppo tecnoscientifico in maniera sostenibile, o più semplicemente, è in grado di orientarlo dato il suo presunto procedere per logiche autonome da un qualsiasi controllo esterno? Quali pericoli cela il fondare l’ambientalismo sul paradigma compartecipativo e ibrido della natura umana? Le centrali atomiche vengono additate, da diversi tecnofili, come la panacea dei mali del pianeta. Le altre tecnologie, specie quelle della rete, nonostante i loro indubbi benefici, creano pericolosi gap e nuove classi sociali, ma non solo: creano dipendenze, alienazioni, spossessamento della propria biologicità, nuove forme di identità e di territorialità (pure emendando le comunità umane dalle altre). Nasce anche l’impossibilità di sottrarsi ad un controllo mediatico sempre più pervasivo, con rischi biopolitici spaventosi. Di più: si parla di una tecnica democratica, usufruibile da tutti e che accomuna le culture più diverse, quando in realtà la tendenza è alla creazione di una expertise di pochi eletti che non comunica (non può o non vuole) con i molti, proletari tecnologici cui si dovrebbe comporre un processo democratico. Ma nuove tecnologie significano anche Ogm, rischi sulla salute continui, invasività negli equilibri biologici e sociali e grossi rischi di mutamenti e catastrofi ambientali, oltre che sociali. Le nuove tecnologie creano inoltre problemi continui con le multinazionali che le detengono, le pubblicizzano, vendono e le propagano a prescindere dal loro impatto sul territorio, in un ottica di soli profitti.

Spesso la tecnica affiora, fra gli stessi postumanisti, come una panacea salvifica, come una manna messianica che risolve ogni problema a prescindere da un mutamento culturale e antropologico, come se la salvezza arrivasse dal cielo sotto forma di macchina, di un deus ex macchina ma senza deus, questa volta. È infatti opportuno qui distinguere il pensiero postumanista da uno transumanista, in cui si ravvisano maggiormente questi rischi di un messianismo tecnocratico e di un ritorno criptico dell’ umanesimo e di un antropocentrismo postmoderno. Lo stesso Marchesini, a riguardo dei transumanisti, denuncia il seguente quadro:

Vorrebbero far coincidere la piena accettazione dell’invasione tecnologica – anche quando questa penetra nei meandri più intimi dell’essere umano – con la pretesa di mantenere il pieno potere umano di indirizzare, orientare, controllare la propria esistenza. In altre parole, si parla di intrusione e di ibridazione con il partner tecnologico ma, allo stesso tempo, s’intende rimanere saldi – e con immutato profitto – nella cabina di pilotaggio della nave (Marchesini 2002, p. 512).

L’utopia tecnologica serve cioè a sostegno di un nuovo modello umano, che questa volta sfrutta il concetto di ibridazione per fomentare un nuovo dominio antropocentrico sul pianeta. La crisi dell’umanesimo conduce perciò a due filoni antitetici fra di loro: da una parte il postumanesimo, che assegna alle tecnoscienze un ruolo di emendazione dall’antropocentrismo, dall’altra il transumanesimo, che invece conferisce alla tecnoscienza un ruolo messianico e trasformativo della realtà secondo modelli autoreferenziali e svincolati da qualsiasi regola sostenibile. Le due principali organizzazioni transumaniste, la World Transhumanist Association e l’Extropy Istitute propagandano il concetto che il progresso tecnoscientifico porterà benessere e lenirà gli effetti devastanti sull’ambiente creati della tecnologia antiquata del XX secolo: i problemi ambientali sono descritti in quanto causati da una insufficienza di tecnologia anzichè da una sua abbondanza. Questo ottimismo si basa anche su una ardita considerazione della biologicità umana, che secondo queste ideologie è tutta da superare, nonché da un uso spregiudicato del paradigma trasformativo della realtà: per Gregory Stock, la biodiversità non è un valore, e il fatto che scompaia il 50 per cento delle specie viventi fa parte, secondo questo transumanista, del normale processo trasformativo della realtà. Anche Biuso distingue il postumesimo dall’iperumanesimo:

Il discorso sul post-umano in quanto uscita dalle concezioni tradizionali va certo ben distinto da fenomeni come l’Iperumanesimo, il tecno gnosticismo e così via. […] Sono teorizzazioni che nulla hanno a che fare con le possibilità di cui parlavamo prima, cioè di un umano concepito e vissuto come qualcosa di non autosufficiente, come qualcosa di collaborativo con tutto il resto (Melandri 2008, 58).

Estropiani e tecno gnostici, insieme alla costellazione dei gruppi transumanisti, con la loro mania di autoreferenzialità di specie e l’affidarsi all’onnipresente, onnipotente e onnisciente guru tecnoscientifico, esaltano le dicotomie classiche invece di abbatterle, separando l’uomo da tutto il resto. È innegabile, ad un occhio attento, che questa pulsione verso la tecnica propagandata dai transumanisti abbia chiare tinte religiose, quella evidente tendenza che David Noble ha denominato “religione della tecnologia” (Noble 2000). L’umanesimo è tramontato, le utopie dei classici sistemi religiosi sono improponibili: non rimane che la scienza a cui affisarsi. Essa, solo ufficialmente rivendica il ruolo di stabilire i fatti, ma i nuovi tecnognostici (e non solo) sperano che essa fornisca qualcosa di più profondo e importante, nuovi miti con cui dar forme e sostegno al mondo in un’epoca senza riferimenti ideologici e grandi narrazioni. Già Lyn White e Jonas identificarono le radici della crisi ecologica nell’ideologia ebraico-cristiana dell’uomo sulla natura. Le attuali correnti transumaniste mostrano in effetti un assoluto disprezzo per la condizione umana e, cercando di raggiungere il nuovo Graal, l’immortalità e la perfezione, tradiscono più di ogni altra cosa la dipendenza da istanze che hanno in comune con gli idealismi religiosi: la differenza sta nel fatto che la salvezza, per loro, proviene da un nuovo Messia, la tecnologia, e la loro ascesi dalla carnalità imperfetta, dalla limitata e limitante biologicità umana nonché dalla natura (divenuta solo un mezzo, gnosticamente estranea e diversa dall’uomo), avviene tramite le biotecnologie. Come afferma Noble, “la ricerca della tecnologia della salvezza è diventata una minaccia per la nostra sopravvivenza” (Noble 2000, 277). Considerando l’ideologia del perfezionismo delle attuali tendenze iperumaniste, Mary Midgley può dire: ”Dio è stato relegato sullo sfondo, ma gli schemi concettuali che un tempo Egli dominava sono rimasti inalterati e continuano a essere usati come se non avessero bisogno di modifiche significative” (Midgley 2000, I).

A riprova della commistione idealistica fra piano religioso e tecnoscientifico, in Italia, il miracolo laico di vivere centovent’anni lo stava ostinatamente preparando un prete, Don Luigi Maria Verzè, al San Raffaele di Milano, il quale dichiarava: “È come se fossimo la clonazione di Dio, noi siamo il percorso di un neurone di Dio” (Nicoletti 2009, 209). Affermazioni di questo tipo sono nient’altro che vulgate della biblica ideologia dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. Il fatto che anche un’istituzione religiosa come la Chiesa Cattolica stia perdendo il senso del “tragico”, della morte, per affidarsi agli inquietanti sviluppi biopolitici delle tecnoscienze (il caso Eluana Englaro lo ha ampiamente dimostrato, con l’ostinata idea teocon che prolungare la vita di un vegetale con delle apparecchiature tecniche sia doveroso) è la prova di quanto religione e una certa scienza, spesso sovrapponibili, abbiano una comune matrice ideologica iperumanista. Entrambe, da questo punto di vista, sono solo apparentemente in antitesi, ma vivono delle stesse istanze di immortalità, perfettibilità, purificazione e salvezza. La cupola del Dibit del San Raffaele, volutamente più larga di quella di San Pietro, è un po’ il simbolo, nella sua forma di basiliké ellenistica, della consacrazione alla religione iperumanista, la religione della scienza, l’edificazione di un Tempio di Salomone dedicato ad un nuovo modello di essere umano, un iperuomo divenuto pressoché identico, quanto a pretese, al Dio occidentale giudaico-cristiano.

Dunque, le domande ed i dubbi sul connubio ambiente e tecnologia si moltiplicano, proprio quando lo sposalizio sembrava essere prolifico. Se il problema chiave del Frankenstein di Mary Shelley, nuovo Prometeo moderno, era la nefasta hybris di un uomo che vuol porsi allo stesso livello della Natura (e cioè del Dio dei romantici) oggi la questione non può più porsi in questi termini idealistici ed Ulisse non potrà esimersi dal dovere di varcare le colonne d’Ercole. Allo stesso modo, il capitano Walton si spingerà fino allo sconosciuto polo Nord, anche a costo di mettere in pericolo la sua ciurma, così come Frankenstein continuerà a lavorare nel suo laboratorio per combattere la morte e le frontiere della natura. La hybris è dunque il traguardo, non il limite, se questa è finalizzata alla creazione di un monstrum e non di una nuova razza pura. La questione postmoderna è piuttosto quella di creare una nuova etica, un’etica ambientale, capace di far sì che questo riposizionamento antropologico dell’uomo in seno alla natura (e non su o contro di essa) effettuato anche in base alle tecnoscienze non si trasformi in un ennesimo e nuovo potenziamento, in un nuovo umanesimo. Se una hybris c’è, se un nuovo inviolabile e sacro Nord emerge, questo deve essere rintracciato nella Cura e nella Responsabilità di un essere naturale che vive e partecipa di un mondo che non può più permettersi di avere al suo interno un organismo che, stranamente, si si illude di non farne parte. L’unico organismo vivente che si autoinganna. Partire da questa definizione di essere umano (definizione che oggi può benissimo diventare un assunto scientifico) è già il primo passo per indebolire il concetto di uomo e non di potenziarlo, per poter così creare una più proficua e non distruttiva collaborazione con le tecnoscienze.

Alessandro Stella

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Bibliografia

Marchesini R. (2002), Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri.
Melandri P. (2008), Umano, troppo umano, postumano. Intervista ad Alberto Giovanni Biuso, “Libertaria”, n. 3-4, pp. 53-63.
Midgley M. (2000), Scienza come salvezza. Un mito moderno e il suo significato, trad. di E. Siccardi e C. Ghibellini, Genova, Ecig.
Nacci M. (2000), Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Roma-Bari, Laterza.
Naess A. (1997), La polemica contro la scienza, in E. Riverso (a cura di), La scienza tra cultura e controcultura, Roma, Controcampo.
Nicoletti G. (2009), La fine della morte, “Wired”, n. 1, pp. 206-212.
Noble D. F. (2000), La religione della tecnologia. Divinità dell’uomo e spirito d’invenzione, trad. di S. Volterrani, Torino, Edizioni di Comunità.
Stock G. (1993), Metaman. The Merging of Humans and Machines into a Global Superorganism, New York, Simon & Schuster.

L’articolo è apparso in “Governare l’ambiente. La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti“, Mimesis 2010, a cura di Ottavio Marzocca. Alessandro Stella è dottore di ricerca in Filosofia e Storia della Filosofia

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