“Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano. Una recensione per una filosofia a venire

(nella foto, HIATUS, di Dino Valls)

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di Alessandro Stella

L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant”. L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Se Pascal voleva dire che siamo precari, deboli, “sapienti sul mondo” ma così tremendamente ignoranti su noi stessi, ignari delle radici del nostro stesso pensare e vivere, dei poteri e legami che ci torturano e deformano, allora aveva ragione. Siamo degli illusi nella nostra volontà di controllo, nel nostro autoinganno quotidiano biopolitico (i “poteri” sfruttano la nostra illusione di libertà). Ma è un autoinganno anche psicologico (con l’illusione del controllo ci difendiamo dall’angoscia e dal dolore), l’illusione di possedere una libertà e assieme ad essa una mente-ragione separata dal resto, che così può ordinare noi stessi, il mondo, e cambiarlo, scovare i problemi e illuminarlo. Ma Pascal, il “misantropo sublime” (così lo chiamava l’illuminista Voltaire) si sbaglia sul “pensiero”. L’uomo non è un pensiero. E’ un corpo, un corpo che comunica in tante maniere, qualche volta anche col pensiero che, a stento e con dolore, diventa parola (o succede viceversa?). Pascal, che combatteva il pensiero di Cartesio, ne era anch’esso vittima, vittima del suo stesso dualismo, vittima dell’odioso dualismo “mente-corpo”. Lo stesso dualismo che ammorba il pensiero occidentale e la filosofia. Lo stesso dualismo di quando i media dicono che Michela Marzano sia un “cervello in fuga”, lei che è diventata un docente ordinario in Francia. Nel suo libro, giustamente si arrabbia per questo cliché giornalistico, e rivendica il suo corpo, lei che per tanto tempo l’ha bistrattato. “Volevo essere una farfalla”, non è un libro sull’anoressia. E’ un libro che solo in piccola parte parla del sintomo, l’anoressia, della “sua” anoressia, perché Michela lo sa benissimo, ogni anoressia è diversa ma è uguale, poiché, “non esistono anoressiche e bulimiche, esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa”. Questo toccante diario, questo flusso di coscienza di una vita intera, parla del malessere che ne è alla base, malessere a cui ognuno di noi risponde come può, alcuni (spesso donne, e sempre più uomini) con i “disturbi alimentari”. Ed è un libro che parla di filosofia, ma di una filosofia che viene (o che, finalmente, ritorna). Una filosofia che si occupa della vita e affronta il dolore, senza finalmente rimuoverlo.

Etica del riconoscimento, sadici e masochisti

Questo toccante saggio scritto come un flusso di coscienza psicoanalitico mi è apparso subito sincero, e sofferto. Premessa: era diverso tempo che non leggevo il lavoro di un “filosofo di professione” che mi toccasse l’emotività, quella da cui parte tutto, anche il “pensiero” (ben sapendo che entrambe sono astrazioni inseparabili). In alcuni punti, il libro mi ha commosso. Le pagine trasudavano umanità e rabbia, tanto amore ma anche tanta raggiunta autoconsapevolezza. Con questo libro, Michela Marzano si è sottoposta al giudizio, allo sguardo, alle critiche di un pubblico indeterminato. E su argomenti che la filosofia, specie quella accademica, snobba. Perché, direbbero tanti accademici, la letteratura è letteratura, la psicanalisi è psicanalisi, la filosofia è filosofia, ha le sue regole! Michela si è esposta su argomenti del tutto personali (ma che occupano paradossalmente il 99% della nostra vita), su figure autobiografiche che le sono care. Col pericolo di offrirsi (e offrirli) ancora ad un giudizio, ad un riconoscimento, ad un misconoscimento, questa volta del pubblico, dei suoi studenti, colleghi, del proprio compagno ecc. Proprio lei che ha riconosciuto nello sguardo del padre il suo problema. Proprio lei che ha lottato tutta la sua vita per non dipendere dallo sguardo paterno, dai suoi giudizi, dalle sue aspettative, dal suo amore sbagliato. Un’ulteriore sfida, forse proprio per confermare a se stessa di essere “guarita”. Proprio alla fine del libro, lancia una “sfida” al suo pubblico, ai suoi lettori: “Allora venite pure avanti, voi che sputate sentenze. E affondate pure i vostri coltelli. A me, di voi, importa ben poco… L’unica cosa che conta veramente per me è che oggi il cibo è cibo, e basta”. Una sfida che traduco così: non dipendo dai vostri sguardi, dai vostri giudizi. Sono autonoma (più autonoma di prima). L’occhio paterno non è più dio (Freud), non è società (Durkheim), non è più nulla per me.

Michela sa benissimo che ogni persona vive di “riconoscimento”, specie di quel primissimo riconoscimento sviscerato fino all’inverosimile dalla psicanalisi: il riconoscimento da parte delle figure genitoriali. Michela ha scoperto, grazie alla psicanalisi, la sua dipendenza dal padre. Il padre che le intimava di essere autonoma, di “volere” sempre, e a qualsiasi costo. Di combattere i propri desideri in nome del dovere assoluto, quotidiano. In nome dell’autocontrollo. Come il mito di Atlante, che sorregge il mondo, ma che se solo lo lasciasse un attimo per riposarsi o per tornare in se stesso, il mondo continuerebbe a girare ed a reggersi anche senza di lui. Come il mito di Sisifo, sempre pronti a ricominciare a salire quel monte con quel pesante macigno, in eterno. Sisifo: i Greci, come Camus, ben lo sapevano. E’ il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra. L’uomo moderno ha sostituito le passioni con il dovere e con la realizzazione neoliberale perenne (ma agli occhi di chi? Esiste un luogo separato dalla società chiamato famiglia?). Si vivono vite che non sono le proprie, si desiderano cose che non si desiderano veramente. Il desiderio è triangolare, il desiderio è mimetico (René Girard, quando non fa il teologo, serve a qualcosa). Michela descrive come una rivelazione religiosa il fatto che un giorno si è resa conto che l’origine dei suoi problemi fosse suo padre. O meglio, il cercare il riconoscimento di suo padre. Henry Murray è uno studioso che ha elencato la necessità di “evitare il biasimo” come uno dei bisogni umani universali. Ne parla abbondantemente Adriano Prosperi in “Tribunali della Coscienza”, un’opera storica dedicata alle forme di biopotere ecclesiastiche del passato. Michela ha per buona parte della sua vita atrofizzato se stessa, “in nome del padre”, in nome di “evitare il biasimo”. Con quel famoso double-bind che gli psicologi conoscono bene e che così lei descrive:

Per anni sono stata prigioniera di quello che gli esperti chiamano un double bind, un doppio legame. Dovevo essere come mio padre voleva che io fossi. Al tempo stesso, però, dovevo essere indipendente. Per mio padre, le due cose andavano di pari passo. Perché l’indipendenza non poteva non passare per la conformità alle sue attese. Era come se ogni giorno mi ripetesse due cose del tutto inconciliabili: «Ascolta tuo padre» e «Diventa autonoma». Con tutti i sottintesi inevitabili… ossimori e paradossi insormontabili. Se non ascolti tuo padre, sbagli, perché solo lui ti vuole veramente bene. Solo una donna autonoma riesce nella vita. Per lui non c’era nessuna contraddizione. Era evidente.”

Michela, col suo flusso di coscienza, decostruisce così un mito dell’età neoliberale, l’autonomia. Di fronte ad un “amore” paterno così invasivo, ci sono due strade: ribellarsi e scappare, o assoggettarsi e rinnegare se stessi. Michela non ebbe la forza di ribellarsi, di tagliare il cordone ombelicale paterno. Ha cominciato a respirare ed a guarire solo quando è scappata in Francia, anzi, quando è stata “trasportata” in Francia. Il problema è proprio questo: la progressiva guarigione dal sintomo dell’anoressia non è solo un “discorso”, una consapevolezza. La consapevolezza diventa corpo, sana e cura, solo quando diventa una pratica. Michela si è sottratta dal padre, ha cercato di ricostruirsi una vita altrove, è guarita.

Sembra che nel mondo ci siano solo personalità sadiche e masochiste, un concetto-limite che, fra gli altri, il regista nipponico Koji Wakamatsu spiega nel crudo “Yuke Yuke Nidome No Shojo”. La violenza (in tutte le sue forme, anche quella dell’amore esigente e possessivo) crea malessere, e al malessere che ti divora si risponde con la personalità “sadica” o, all’opposto, “masochista”(uno schema, fra gli altri, di Erich Fromm). Senza generalizzare e senza estremizzare, ma prendendo questo discorso con la più assoluta licenza di sbagliare, Michela un brutto giorno seppe rispondere al suo malessere solo imparando a subire, interiorizzando l’occhio paterno. A guardarsi come lui la guarderebbe. Proprio lo “sguardo” interiorizzato non è una scoperta recente qui in Occidente. Oltre alla psicanalisi ed alla sociologia, l’ “etica del riconoscimento” che va da Adam Smith a Axel Honnet ha affrontato continuamente la presenza di un “terzo uomo”, all’approvazione del quale sottoporremmo qualsiasi nostro atto, anche qualsiasi nostro recondito desiderio. Tutto per l’istinto di essere apprezzati, preferiti, di ottenere un posto nello sguardo altrui:

Perché è vero che le anoressiche vogliono essere guardate. Per attirare l’attenzione. Per avere l’illusione di esistere anche solo qualche istante nello sguardo della gente. Ma quel corpo che cerca attenzione è solo un sintomo. «Io sono qui, voi dove siete?» È il sintomo di una parola che non riesce a esprimersi altrimenti. È il sintomo di un desiderio perso nel tentativo disperato di adattarsi alle aspettative degli altri.”

Michela diventa anoressica, cosa che spiega in molte maniere, con i tipici sentieri spezzati di un flusso di coscienza certo rielaborato: “Al di là del corpo, quello che si cerca di controllare e cancellare sono la fame e le emozioni, i bisogni, tutto quello che sfugge al famoso autocontrollo e che, proprio perché sfugge, fa paura”. Michela diventa smaniosa di riconoscimento, di sentirsi presente a qualcuno. Smaniosa di riempire con dei surrogati idealizzati, con degli “sguardi” qualsiasi quel vuoto di riconoscimento a cui l’aveva abituata suo padre. Meglio, quell’assurdo e dannoso riconoscimento che otteneva solo tramite la negazione di se stessa. Nel suo libro, legge i suoi amori, i suoi disturbi alimentari e la sua vita accademica proprio in quest’ottica. Più s’immergeva nel “fare”, nell’attivismo educativo, competitivo e neoliberale, più rimuoveva il suo malessere, relegandolo nelle tenebre dell’inconsapevolezza. Ma il dolore riaffiorava in continuazione, portandola più volte vicina alla morte ed al suicidio. Negando quella consapevolezza somatizzata che raggiungerà solo dopo un lungo cammino: “per vivere veramente si deve poter trovare il coraggio di attraversare i propri desideri”. Michela, fra le altre cose, combatteva contro un’ossessione competitiva, un’ossessione calvinista-neoliberale che si faceva corpo, anzi, non-corpo, emaciando il corpo fino a dissolverlo. Che ci sia un legame fra ideologia neoliberale e schiavitù del corpo? La domanda è ironica, come Pasolini ben sapeva. L’amore stesso di oggi è un amore sempre più spesso ridotto a cliché, per buona pace di Khalil Gibran, Erich Fromm e tanti altri che attingendo ad una saggezza antica (e fra i filosofi, purtroppo démodé) parlavano dell’amore (piuttosto che del filosofico “riconoscimento”) in questi termini:

“Amatevi vicendevolmente, ma il vostro amore non sia una prigione; Lasciate piuttosto un mare ondoso tra le due sponde delle vostre anime. Riempitevi la coppa uno con l’altro, ma non bevete da una sola coppa. Scambiatevi a vicenda il vostro pane, ma non mangiate dallo stesso pane. Cantate insieme e danzate e siate allegri, ma che ciascuno sia solo. Come le corde di un liuto, che sono sole, anche se vibrano per la stessa musica. Datevi il vostro cuore, ma non lo date in custodia uno dell’altro. Perché solo la mano della Vita può contenere i vostri cuori. E state insieme ma non troppo vicini: Poiché le colonne del tempio sono istanziate. E la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro”. (Il profeta)

La filosofia che viene

L’uomo è tutto un desiderio, e quale è il suo desiderio, tale è la sua decisione; quale è la sua decisione, tale la sua azione; quale la sua azione, tale è la sua sorte” (Brhadaranyaka Upanishad, citato in “Oltre la filosofia”, di Giangiorgio Pasqualotto). Michela è una filosofa. Ma che dà spazio a tutte quelle cose piccole che fanno la mente-corpo di un essere umano, quelle cose spesso definite “piccole”, ma così infinitamente importanti, oscure, che conosciamo tutti, di cui non parla mai nessun filosofo. “Volevo essere una farfalla” è anche un diario di conversione alla vita, da una filosofia astratta ad una “filosofia che viene”, quella del corpo. Usando i paroloni degli accademici, è un’ “ermeneutica del soggetto”. Che Michela abbia mortificato il “corpo”, in passato, appare già chiaro dai suoi studi e dai suoi interessi. La nostra vita è una passione, alcune volte, un desiderio inespresso e occulto. Questo, prima della psicanalisi, lo diceva la filosofia antica e lo ripete incessantemente l’Oriente. Per ricostruire il nostro pensiero (e le nostre conclusioni) è necessario perciò ricostruire le nostre passioni, e spesso, le nostre ossessioni. Alla Normale di Pisa, l’accademia dei superman (chissà quanti di loro, purtroppo, hanno disturbi alimentari, o altri malesseri evidenti) Michela dedica alcuni passaggi:

Arrivata in Normale, è stato il trionfo del dovere. Mi ricordo che nei corridoi si raccontava che il «più bravo» avesse fatto sei esami il primo anno. Io, allora, ne ho fatti nove. E in due anni li ho finiti tutti . E mi sono laureata in «tre anni e una sessione». Con una tesi in due volumi sul rapporto tra «essere» e «dover essere» . Quei problemi logici sull’impossibilità o meno di derivare le proposizioni normative da quelle descrittive mi divertivano. La logica mi rassicurava. Tutto era chiaro. Limpido. Cristallino . E poi era bello vedere che tra l’essere e il dover essere non c’era alcun rapporto. Che potevo anche non «essere» la persona giusta e perfetta che papà avrebbe voluto che fossi. Ma che potevo diventarlo. Perché il «dovere» implica il «potere», come mostrava Kant. Quindi bastava «dovere». Come volevasi dimostrare . È buffo come l’inconscio sia talvolta a fior di pelle… e si insinui nei meandri più reconditi della mente senza che nessuno se ne accorga… meno che mai i diretti interessati.”

Michela si laurea e si addottora studiando la famosa legge di Hume e la filosofia analitica. L’impossibilità logica di derivare il “dover essere” – tipico dell’etica – dall’ “essere”. Studia la logica, e cioè il software binario di un programma pc. Un software che si crede separato dal suo hardware, come direbbe il nostro Roberto Marchesini in “Post Human”. Anche Wittgenstein ci era passato, a scapito della sua precaria salute, prima di approdare ai “giochi linguistici”. Un’altra ossessione. Catalogare, pesare, dicotomizzare, liberarsi dai condizionamenti. La logica pura. L’assoluto puro. L’idea pura, e astratta. La purezza. L’incondizionato. Nuove forme laiche di religione. In parole povere, la metafisica ellenistico-paolina dell’io separato dal suo corpo, dal suo contesto, verso la più illusoria delle libertà, quella che crede di fare a meno del “corpo”. Nel ricordare il concorso del dottorato, scrive: “Tutto mi è tornato in mente. Kant, Hegel, Moore… Perché il valore intrinseco dipende dalle proprietà naturali delle cose. Anche se la relazione resta asimmetrica. Non si può derivare il «dover essere» dall’«essere»: è la legge di Hume. Il bene è indefinibile. Altrimenti si commette la naturalistic fallacy…”.

Ogni fallacia è un ostacolo alla purezza del ragionamento, è un ostacolo alla purezza comunicativa. Alla purezza. Michela, ora, finalmente è più sporca, meno pura, mangia senza sensi di colpa (e senza vomitare), e ama senza troppo idealizzare, senza pretendere che la sua relazione di coppia riempia il suo malessere; alla sua guarigione dal “sintomo” (ma quando ci si può definire definitivamente guariti?) corrisponde anche un suo interesse filosofico radicalmente mutato rispetto a prima. Ora, l’etica e il corpo sono la sua passione e l’oggetto del suo insegnamento a Parigi. Quotidianamente, cerca di spiegare ai suoi studenti “la differenza che esiste tra una concezione teorica e ideale dell’essere umano e la realtà dell’esistenza quotidiana, l’astrattezza delle teorie contemporanee della giustizia e la vulnerabilità di ogni persona dell’etica della cura”. Scrive che “l’ontologia si eleva al di sopra del mondo, per poterlo pensare. Si siede in cattedra. Concettualizza l’essere. Non può lasciarsi andare. E cancella sempre la fragilità della condizione umana”. A me ricorda tantissimo Nietzsche quando scrive:

Chi ha veramente compreso la preposizione “sopra”, ha anche compreso tutta l’estensione dell’orgoglio e della miseria dell’uomo. Chi è sopra le cose, non è nelle cose – dunque non è nemmeno “in sé”(Frammenti postumi).

Sembra perciò che Michela sia finalmente tornata “in sé”, non rimuovendo con la logica analitica o con l’etica del dovere il suo malessere, ma affrontandolo, dopo averlo riconosciuto. Scegliendo quella che per lei, ora, è una rivoluzione copernicana: passare dal dover essere all’essere. Ma il riconoscimento del malessere non passa solo da quel luogo astratto che chiamiamo mente: se non diventa corpo, non serve. E’ un processo lungo, pieno di ricadute. Ma prima o poi gli stati emotivi e le idee che ne dipendono si somatizzano, tanto che Michela scrive: “La filosofia non serve più a nulla quando la si riduce a un insieme di «tesi», «antitesi» e «sintesi» oppure quando la si banalizza facendone un insieme di povere ricette per essere felici. […] Tutto comincia e finisce sempre lì, nell’angoscia di un Søren Kierkegaard che non può smettere di parlarne dopo averla incrociata da bambino, di fronte al padre che maledice il Signore… nella banalità del male che Hannah Arendt ha vissuto prima ancora di farne un concetto… nella stanza tutta per sé di Virginia Woolf [anoressica, NdA] che forse lei stessa, però, non ha mai veramente trovato… perché ci vuole un coraggio immenso per smetterla di soffrire”. Michela passa dall’illuminista Kant alla filosofia post-kantiana, dove il corpo non è più un oggetto, e paradossalmente torna a Hume; ma ad Hume che sfrutta la sua “legge” per parlare della non scindibilità fra passione e ragione, fra sense e sensibility; il centro dell’attuale riflessione filosofica della Marzano mi pare sia espresso a pieno da queste sue parole:

Perché le parole e gli affetti si incrociano costantemente: parole che dicono gli affetti; affetti che fanno le parole. Come diceva già Nietzsche, che queste cose le capiva, certamente meglio di un Cartesio o di un Kant che si illudevano che l’anima avesse la forza e la capacità di vincere le emozioni e di sottomettere il corpo . Perché «dietro ogni pensiero si nasconde un affetto». E i nostri pensieri sono sempre i segni di un gioco più grande di noi. Come il nostro essere. E le mutevoli tonalità affettive del nostro inconscio. Il cui significato profondo continua a sfuggirci. Sempre e comunque. Anche se ce la mettiamo tutta per cercare di interpretarle . È per questo che lo stato di servitù nel quale ci ritroviamo tante volte nel corso della vita non è mai del tutto legato alla dipendenza emotiva. Al contrario. La servitù è il prezzo che si paga quando ci si illude di poter controllare i nostri sentimenti. Quando si pensa che la ragione possa essere sovrana. Quando si cerca la saggezza estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto

Non si può andare contro ciò che l’anima ha scelto” scriveva Jeromski. E per Nietzsche, “tutta la vita è una disputa su gusto e sapore” (Così parlò Zarathustra). Una conclusione a cui giunge anche il sociologo francese Pierre Bourdieu (chissà grazie a quali altri vissuti?). Se sento e credo che il mondo sia viola, cercherò di giustificare questo mio sentire razionalmente, col discorso, più o meno articolato, più o meno complesso, a seconda del mio capitale educativo. Capitalizzerò il mio bagaglio educativo su tale credenza, tale sentire, inesorabilmente. Ma vi è prima il sentire, il corpo, l’esperienza, poi la costruzione “razionale”, meglio, “ragionevole” (i Greci furbescamente distinguevano tra sophia e phronesis). Questo vale a maggior ragione se pensiamo non solo ai condizionamenti corporali, emotivi, educativi, sentimentali, formativi. O ai traumi e alle dipendenze nascoste (insomma, l’ambito psicologico). Ma vale anche se pensiamo ai condizionamenti economici e sociopolitici, quelli magari che affrontavano, in maniera diversa, Foucault (la Microfisica del potere) e la scuola di Francoforte. Il “discorso”, direbbe Lacan, “le parole”, vengono sempre dopo. La stessa cosa scrive Michela in merito al padre (il padre che, come abbiamo visto, identifica come “il” problema):

Papà ci ha imposto le sue parole. Senza rendersi conto di quello che le sue parole ci facevano. Falsificavano. Distruggevano. Papà non ha capito che le parole vengono sempre «dopo». Per cercare di spiegare ciò che non si può mai del tutto spiegare. Per dare un senso a quello che dà solo le vertigini…”

Cos’è dunque, questa “filosofia che viene”, o che torna? E’ affrontare i problemi della vita con la filosofia, ma partendo da questa nuova quanto antica consapevolezza di “dipendenza”. Far diventare la filosofia uno stile di vita, calarla nella volontà, farla diventare corpo. Osservando e accorgendosi dei “legami”, senza rimuoverli freudianamente. La filosofia antica e quella orientale parlano all’uomo proprio perché sono pratiche totali, coinvolgono la volontà e le passioni, le riconoscono come primarie nella formazione del proprio pensiero. Bisogna rinunciare perciò al definitivo bias logico, quello di pensiero chiaro e distinto, e dare spazio ad una filosofia della vita, delle emozioni e delle passioni. Una filosofia che per parlare all’uomo, deve parlare al suo corpo, come spiega lungimirante Hadot nei suoi “esercizi spirituali”. Ben vengano i nuovi esercizi spirituali della filosofia. Spero che Michela Marzano ci lavori a lungo, in Francia come in Italia, e come lei, tanti altri. Ripartendo dal corpo, da quella fragile e umanissima canna, quel povero corpo martoriato. Rinunciando, ad esempio, a quella divisione fra sense e sensibility a cui nessuno, dentro di sé, crede, ma che tutti professiamo. Una filosofia che illumini quasi religiosamente l’oscurità che è in noi, per poi illuminare quella fuori di noi. Ma oltre a illuminare, sappia parlare al corpo, sappia usare il giusto percorso per fargli mutare la sua strada compulsiva: il corpo è normalmente riottoso ai cambiamenti. Il corpo è abitudinario, schiavo di tutto. Ed il pensiero con cui si mostra, con cui si comunica, è straordinariamente debole, fragile, vissuto, delicato: questa è la fondamentale testimonianza di Michela Marzano. Il pensiero “dipende”. Una lezione che ci viene anche da questo “povero vecchio pazzo” qui sotto, un monito a chiunque s’illuda altrimenti. Gli ultimi istanti di vita di Nietzsche, uno dei corpi più complessi e affascinanti del diciannovesimo secolo

15 pensieri su ““Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano. Una recensione per una filosofia a venire

  1. condivido tutto quello che è scritto, e ne sono entusiasta. Peccato solo la mancanza di qualche pensiero e riferimento femminile. Leggerò al più presto il libro

  2. questo è un blog collettivo, ho citato quel che conosco e assimilato. Se avete contributi e approfondimenti anche col pensiero “femminile” (ma le “verità” sono alcune volte al di là dell’identità di genere di chi scrive) sono i benvenuti 🙂

    ‎”Non possiamo cambiare neppure una virgola del nostro passato, né cancellare i danni che ci furono inflitti nell’infanzia. Possiamo però cambiare noi stessi,”riparare i guasti”, riacquisire la nostra integrità perduta. Possiamo far questo nel momento in cui decidiamo di osservare più da vicino le conoscenze che riguardano gli eventi passati e che sono memorizzate nel nostro corpo, per accostarle alla nostra coscienza. Si tratta indubbiamente di una strada impervia, ma è l’unica che ci dia la possi bilità di abbandonare infine la prigione invisibile – e tuttavia così crudele – dell’infanzia e di trasformarci, da vittime inconsapevoli del passato, in individui responsabili che conoscono la propria storia e hanno imparato a convivere con essa.” Alice Miller

  3. Bello e interessante come la lotta incessante che la mente ingaggia con il corpo. Ma la filosofia antica (penso a Socrate fino agli Stoici) non è il tentativo di far prevalere la ragione sulle emozioni, l’animo sul corpo; di far emergere il “divino” che è in noi? Gli esercizi spirituali di cui parla Hadot non sono questo in fondo?
    Un filosofo che meritava di essere citato è Montaigne, tra i primi forse a cogliere con stupenda ironia come sia impossibile controllare del tutto il corpo attraverso la mente.
    Ma allora, come vivere? In equilibrio precario. E forse è qui la bellezza del vivere.

  4. Interessanti i tuoi interventi su Epitteto. Il discorso di Hadot è principalemente dello scollamento fra filosofia e relativa pratica, che erano un tutt’uno almeno prima di Plotino. Non insegnavano teoreie etiche, ma le aplicavano quotidianamente all’interno e fuori delle varie scuole. L’interpetazione Socratica che mi proproni è quella di Nietzsche, ma lui usava il martello e le cose sono un po’ più complesse. C’era una profonda consapevolezza che l’oggetto primario dell’analisi dovesse essere il sé; le dicotomie, seppur c’erano, erano funzionali all’intervento sulla vita. Lo stoicismo ci ha lasciato la più vasta analisi sulle passioni che l’occidente premoderno ricordi: le riconosceva “fondanti” senza rimuoverle, e questo basta. Quindi alla tua domanda: sì, il discorso era sostanzialmente quello che dici, ma col merito di tenere le passioni continuamente presenti nel discorso filosofico e nella pratica; ma più che una ragione che domina le passioni, con una ragione che le riconosce e le controlla, in un equilibrio, come dici tu, precario. Concordo in parte su Montaigne, ma anche su Nietzsche e Schopenhauer: sembrano riappropiarsi della “saggezza” antica, ma purtroppo nella direzione di un genere letterario nuovo (nel caso di Montaigne, gli Essais) e filosofico che rimane nell’ambito di un pensiero. I tempi erano cambiati radicalmente.

  5. Devoti delle parole, scriviamo sulle metamorfosi della sabbia. Qualcosa resterà, qualche grano del rosario delle nostre filastrocche. Le parole sono materia, lampo di sinapsi, inchiostro acrobatico, eco della glottide, dono di farfalla o escrezione di mosca incoronata di lauro e, in fila, di tutti gli altri vermi e insetti.

    Dare parola all’anima. Dare la parola bella all’anima bella. Moltissimi credono di avere un’anima non sospettando di essere un corpo. Pensano di avere un’anima e vogliono darle parola: illusione di chi non ha arte e non ha scienza. Dare parola all’anima: il lavoro di nani che tentano di ripetere il dio assente al quale pretendono di somigliare: in questo Occidente di mitologia più robusta del tronco di lava.

    Dare parola al concetto. Alcuni sanno sfogliare i concetti; altri li intuiscono; altri, pochissimi, li stanano e li schiacciano con gli scarponi chiodati, poi li rialzano e li curano per costruire ragnatele di pettegolezzo metafisico; altri, moltissimi, incontrano i concetti e cambiano strada: li aspetta il mondo della mielata favola poetica, della melassa del sentimento, spremuta delicata di muscolo cardiaco, nauseabonda poltiglia di lacrime, di buone intenzioni, di amplessi sublimati, di emozioni di Biancaneve risvegliata da un principe azzurro eunuco, di poeti/poetesse dal ventre intonso, di etere dal pube baroccato, di efebi dal flauto di zucchero filato.

    Dare parola al dolore? Il dolore la possiede già e, da sempre, stride, geme, urla, tace più forte del silenzio. La parola che consola! È vero. L’amicizia lo dimostra, ma quando la falce, prima di sradicarti, ti tormenta scrivendo geroglifici di sangue sui tuoi occhi, ma quando i tuoi occhi fuggono per chiudere la porta all’infinito catalogo dello strazio, cosa resta? il bacio di Aliosa a Ivan: parole e l’intimità fragile della saliva. Se proprio si vuole si dia parola all’arte, soprattutto alla pietà empia della fotografia.

    Dare parola al sesso? Strana pretesa: vendere vocabolari nel regno del gemito, della carne che si tende, delle caverne che accolgono torce di buio…buio nel buio, il sudato grugnito della specie. O, anche, la parola al petalo delicato, al gelsomino notturno, alla boccuccia di rosa, allo scrigno del futuro. Non denigrate la pratica, la ginnastica, se volete, la danza coordinata; lasciate le parole fuori e sbarrate la porta della stanza dove i corpi sognano regalandosi l’attrito.

    Le parole siano tuttavia ladre, esperte in furto maldestro. Siano graffio di unghia sulla gota del mondo. Siano apprendiste dattilografe subacquee nel fango di stella della semantica. Siano seme di gramigna salvata da un filo di grano. Siano anche, per chi non può altro, inutile salmodia ad maiorem gloriam Absentis Dei. Soprattutto: siano fiore di ginestra, siano urna di memoria, siano sempre in fuga dal silenzio e pronte sempre ad arrendersi.

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  7. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un giocattolo della tua grande ragione. ‘Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non vuoi credere, – il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’. […] Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo.

    Friedrich Nietzsche, Dei dispregiatori del corpo, in Così parlò Zarathustra

  8. “Una mattina ci sveglieremo cambiati, come se nella notte qualcosa fosse
    improvvisamente accaduto dentro di noi. In quel momento sapremo che la massa,
    macerata e compressa, dei nostri ricordi avrà generato un simbolo, da portare con
    noi per tutta la vita.”

  9. “Abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino ad oggi principalmente soltanto una spiegazione del corpo e un fraintendimento del corpo […] in ogni filosofia non si è trattato per nulla, fino ad oggi, di verità, ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita” (La Gaia scienza, prefazione alla sec. ed.)

  10. “Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è in certo modo un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza”. (Giacomo Leopardi)

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