Il tempo come progresso: tra παιδεία e moderno/2 La teoria storiografica

È nella civiltà greca che si crea la congerie di termini e di concetti che prepara alla critica storica, dal primo stabilirsi del problema della verità fino alla questione della tecnica affrontata da Heidegger. Un importante avvio al problema della verità fu dato proprio dall’opera di Heidegger Essere e tempo (1927), in cui il filosofo tedesco accoglieva l’interpretazione di Άλήθεια come non-occultezza, disvelatezza e vedendo in  Άλήθεια il fenomeno originario della verità.

Una corretta definizione strumentale della tecnica la identifica come un mezzo in vista di un fine, ma questa sua strumentalità non dice che cosa sia l’essenza della tecnica, poiché la constatazione non svela necessariamente ciò che le sta davanti nella sua essenza. Sennonché τέχνη non è solo il fare manuale ma si eleva soprattutto verso la produzione e la ποίησις, per cui la tecnica dispiega il suo essere nell’ambito nel quale accade  il disvelamento dell’ἀλήθεια. Ma appunto la tecnica moderna, faceva notare Heidegger, a differenza della τέχνη, è una provocazione e l’essenza della tecnica è impositiva e non è più sufficiente una definizione strumentale della τέχνη. La tecnica non è il pericolo ma il pericolo è nell’essenza della tecnica. L’influenza di Heidegger fu notevole e la sua proposta fu seguita quasi da tutti, ma Detienne si pone in polemica con questo filone della ricerca affrontando il trapasso dal μῦθος al λόγος.

Detienne utilizza fonti molto disparate creando la sua equazione tra memoria e verità. La verità non è divinizzata, ma è un oggetto che compare in forma aggettivale e dopo un verbum dicendiper asserire il vero. La memoria è strettamente connessa alla dimenticanza ma non è il suo opposto (ἀλήθεια/ἀ-λήθεια). La verità si contrappone all’inganno in una società e in una struttura di pensiero in cui ἀλήθεια e la parola di lode si allineano.

Il passaggio dal mito greco alla ragione fu sentito molto meno di quanto si dica. Anche in Platone la frattura tra μῦθος e λόγος non è così determinata. Collegando memoria e verità, il poeta, l’indovino e il re di giustizia sono accomunati da una medesima funzione sacrale. Ma qual era il valore della memoria nel mondo antico?

La prima associazione era la Musa e la memoria (le Muse sono figlie di Μνημοσύνη). Nel mondo moderno la memoria è legata al tempo, mentre nell’antichità essa non corrisponde a una sistemazione nel tempo ma se ne pone al di fuori. Μνημοσύνη continua ad avere la sua funzione attraverso la genealogia. Apollo presiede alla funzione del vate, l’aedo e l’indovino hanno in comune il dono della veggenza, che non significa vedere materialmente: Calcante ed Omero sono ciechi (Il., I, 70; Teogonia, 32-38). L’indovino privilegia la previsione verso il futuro, mentre il poeta vede il tempo passato. Omero vede il tempo antico fissando la genealogia dell’età eroica laddove in Esiodo esiste la ricerca delle origini, che conferisce al linguaggio il carattere della sacralità. In genere le invocazioni alle Muse precedono i nomi nei cataloghi, che sono l’archivio di una società senza scrittura (il catalogo rappresenta la possibilità di andare verso il passato). Da un punto di vista etimologico, Άλήθεια indica l’oggetto che si fa chiaro, che si impone a chi lo vede. È la non-occultezza, la non-dimenticanza. In Omero, il termine segnala la precisione, la chiarezza, l’esattezza (una cosa è vera se è chiara). Nel framm. 21 Solone accusa di menzogna i poeti, come faranno i presocratici: il discorso di Omero sugli dèi è turpe, ma non per colpa degli dèi, bensì dei poeti menzogneri.

Pindaro porrà una sua critica ad alcuni miti non in se stessi ma esclusivamente per come sono stati trattati da altri autori a lui precedenti. In Olimpica, X, 4-5, Άλήθεια è detta figlia di Zeus (il termine ἀλήθεια si trova anche in Parmenide):

«ὦ Мοῖσ᾿, ἀλλά σύ καί θυγᾴτηρ

Άλάθεια Διός, ὀρθᾷ χερί

ἐρύκετον ψευδέων

ἐνιπάν ἀλιπόξενον»

«tu, o Musa, e tu anche verità figlia di Zeus, sollevate la mano, arrestate l’onta d’inganni che frodano l’ospite».

Pindaro in Nemea, IV, 23 aveva infatti detto che l’abilità del poeta (σοφία, che non è la saggezza ma la poesia) inganna (κλέπτει) seducendo con racconti fantastici, e ricorda poi il regno della fantasia che sfugge alla prova del tempo a cui deve sottoporsi la verità dei fatti. Pindaro distingue la verità storica dalla pseudo-verità, e anche i presocratici fanno questa distinzione. Ma mentre Esiodo aveva semplicemente affermato la presenza della sua poesia senza condannare l’epica, Pindaro condanna queste bugie simili a verità e afferma che l’errore della menzogna è sempre riconosciuto nel tempo. Sembra che Pindaro si ponga con maggiore veemenza critica rispetto a Esiodo, ma la sua non è ancora una critica storica. Una tradizione è da lui rifiutata rispetto ad un’altra semplicemente perché non sono gli dèi a essere protagonisti.

La filosofia di Parmenide essendo la filosofia dell’essere in quanto è, ci orienta verso l’equazione del filosofo uguale al vate, al mago (lo sciamanesimo greco), nella fase orale della Grecia arcaica (è la tesi di Giorgio Colli). La preistoria dell’ἀλήθεια filosofica ci porta verso l’indovino, e la poesia ha lo stesso oggetto (riguardo alle cose che furono, che sono e che saranno). Si stabilisce così anche un’equazione col re di giustizia, ispirato dal potere divino. La poesia in quanto ispirata dagli dèi è vera.

Detienne in I maestri di verità nella Grecia arcaica (1977) ha presente lo strutturalismo nel collegamento tra memoria e verità, la lingua che noi parliamo è per lui strutturata sul concetto logico della contraddizione (bugia è il contrario di verità, amore è il contrario di odio, ecc.), di origine logico-formale aristotelica. Il mondo mitico è, viceversa, pre-logico, ambiguo (i contrari, l’amore e l’odio sono strettamente connessi).

La continuità e l’elaborazione culturale dell’asserto senofaneo è poi riscontrabile nella “Querelle des anciens et des modernes”, che interessò il V sec. a.C., quando si determinò una prima “querelle” simile alla famosa sviluppatasi nel XVII sec., nel quale per la prima volta venne precisata la categoria storiografica di progresso a opera di Fontenelle in Digressione sugli antichi e sui moderni(1688).

Quest’ultima non fu la prima nella storia, perché già gli antichi proclamarono una propria “modernità”, sia pure non nella direzione di un rigetto totale dell’“antichità.”

Essi “intesero solo dire (per usare le parole di Molière) che ‘gli antichi sono antichi, e gli uomini d’oggi siamo noi’.”[1]

Il contributo maggiore alla discriminazione fra antico e moderno, vecchio e nuovo non viene, in ogni modo, da parte presocratica né specificamente sofistica, ma dalla storiografia, nonostante le riserve di Vernant sopra riportata. Le riserve di Vernant ci servono, però, ancora una volta, per ridimensionare la portata trionfalistica dell’analisi di Edelstein. Vernant ci avverte che, insomma, il tempo degli storici non è il nostro tempo e il loro progresso non è il nostro visto che, per parlare di progresso in termini moderni, ci occorre l’ausilio della sociologia e delle scienze politiche. Resta che, in particolare, furono i sofisti gli annunciatori della stessa, parzialmente ma potenzialmente significativa, idea di progresso risalente a Senofane, e con fervore ben diverso da quello dello del filosofo di Colofone.

È considerevole il fatto che, anche se Senofane ne fu il precursore, nei limiti che abbiamo testé posto, la vera svolta decisiva per l’idea di progresso verso il futuro si deve, tuttavia, agli storici dell’età attica, in particolare a  Tucidide. La lezione ippocratica, e non solo quella, ovvia, di Erodoto, svolge in lui una funzione metodologica nello stesso modo in cui il sintomo patologico veniva assunto a oggetto di studio per la terapia. Sta di fatto che si fa un notevole passo avanti con Tucidide, che esclude scientificamente l’intervento divino nella storia, a differenza di Omero e dello stesso Erodoto, mentre il sintomo è analizzato nel campo politico per la storia e la teoria storiografica. Egli è in grado, nel suo bello stile attico (densus et brevis et semper instans sibiè il giudizio di Quintiliano su di lui) di confidare nell’accumulo di esperienza che viene dalla conoscenza storica, ritiene che le generazioni future, traendone ammaestramento, saranno libere dagli errori commessi, o quantomeno non li ripeteranno tutti allo stesso modo anche se incombe sulla natura umana e sulle azioni e previsioni dell’uomo la decisione imponderabile e fatalistica della τύχη.

Tucidide pone un parallelo fra lo sviluppo inventivo delle arti e il progresso politico. “Nelle arti e mestieri si era scoperto che il nuovo era superiore al vecchio”,[2] e siccome anche la politica era un’arte, dunque anche nella politica il nuovo sarebbe stato favorito da un adeguato sviluppo dell’arte politica. Da questa presa di coscienza si determina la continuità senofanea, dove in filosofia si era creata un’impasse, in  una problematica solo retrospettiva e non rivolta al futuro.

Per Anassagora e Protagora, infatti, lo sviluppo inventivo dell’uomo è dovuto al superamento da parte dell’uomo della primitiva condizione animale. Tale superamento ha reso attuabile il progresso dai primordi all’oggi, negando la prospettiva empedoclea dell’età dell’oro iniziale. Ma quello del progresso dopo l’oggi, in aspettativa del futuro, è perlopiù problema irrisolto dai presocratici.

Edelstein sintetizza i risultati di questa fase della storia del pensiero: “il pensiero presocratico fa quindi dipendere il possibile dal dato e considera quanto può succedere come determinato da ciò che è.”[3]

E, meglio: “si potrebbe quindi dire che sia i Presocratici, sia i Sofisti furono nello stesso tempo progressisti ed antiprogressisti.”[4]

Ne risulta che gli assertori dell’idea di progresso, nell’eredità senofanea, furono gli storici, per il loro impegno nei riguardi del nuovo e del futuro, realizzabili grazie alla τέχνη, al superamento del passato.


[1] L. Edelstein, L’idea di progresso nell’antichità classica, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 93.

[2] op. cit., p. 85.

[3] op. cit., p. 81.

[4] op. cit., p. 83.

Questo articolo è stato pubblicato in Antropologia/filosofia, Filosofia/politica, Letteratura/filosofia da Sandro De Fazi . Aggiungi il permalink ai segnalibri.

Informazioni su Sandro De Fazi

Sandrino De Fazi è nato a Civitavecchia (Roma) il 31 ottobre 1960. Vive tra Napoli e Caserta. Laureato in Filosofia con una tesi sui presocratici, è insegnante di Italiano e Latino nei licei. Ha iniziato la sua attività letteraria scrivendo versi che piacquero a Dario Bellezza, successivamente è passato alla narrativa. Ha esordito con il romanzo breve Più romano che greco, in Offside tre (Edizioni Libreria Croce, 2000). Ha pubblicato, di poesia, Vacuo cielo (Roma, 1986). Suoi versi sono su varie antologie. Ha scritto il saggio Il circolo vizioso, collabora a La Nuova Basilicata e altri quotidiani o riviste, cartacee e on-line. È uno dei poeti italiani presenti in Poeti e Poesia, rivista internazionale diretta da Elio Pecora. Nel 2009 è uscito il romanzo Ti scrivo brevemente per chiederti scusa dei miei silenzi (Edizioni Libreria Croce), presentato alla Biblioteca del Senato della Repubblica.

13 pensieri su “Il tempo come progresso: tra παιδεία e moderno/2 La teoria storiografica

  1. seconda parte di un articolo interessantissimo. Progresso come separazione dal mito (e caduta nella storia), o come adempimento del destino della tecnica. I cammini spesso s’incrociano e si amalgano, specie quando Prometeo si affranca da Zeus con la tecnica del fuoco… ha ragione Vernant secondo me nel rivendicare in questo dibattito maggior spazio ad antropologia e sociologia. Il potere non è mai stato neutro nel dare valore al tempo ed ha condizionato, come fa ora, ogni dibattito a riguardo (non so perchè, ora mi vengono in mente i giudizi di Leo Strauss e della sua scuola sulla categoria del moderno, ripresi dal nostro beneamato Marcello Pera e da Ratzinger). E noi, a differenza degli antichi, non siamo più ingenui (giudizio di valore) 🙂

  2. Heidegger e amici hanno sempre interpetato male la tecnica, così come la scuola di francoforte. Unendola all’idea illuministica di progresso, ne hanno fatto il nuovo nemico, quando può essere una preziosa alleata. Se presa a piccole dosi… comunque un ottimo articolo.

    • Non sarei d’accordo. Heidegger afferma chiaramente che di per se’ l’en-framing della tecnica, cioe’ a dire, l’imposizione di sovrastrutture tali che possano far entrare nell’essere cio’ che prima non era, non rappresenta una minaccia per l’uomo. Sostenere questa tesi sarebbe contraddittorio a dir poco e certo non un pensiero all’altezza di una mente come quella di Heidegger.Sarebbe infatti come dire che il coming-to-be insito nell’atto della poiesis e quindi nella tekne intesa nella maniera originaria greca sia in se stesso un fatto negativo. Ma allora dovremmo spiegare e spiegarci l’intero universo, il “creato”, come il risultato di una serie di congiunture nefaste e maligne? No, questa non e’ un’idea che Heidegger potrebbe considerare difendibile, dato che trasformerebbe il mondo in cui viviamo in un qualcosa di contro-intuitivo richiedendo, anzi esigendo, non solo una spiegazione ma una giustificazione che vada ben oltre quella razionale e che trasbordi in una dimensione esclusivamente etica. Ma noi non “pecchiamo” essendo, ne’ pecchiamo facendo altri o altro da noi essere. Ecco perche’ giustamente si ricorda nell’articolo qui riportato che la tecnica non e’ il pericolo ma il pericolo e’ insito nella tecnica. Che vuole dirci Heidegger con questo? Cio’ che queste parole sembrano suggerire e’ semplice: l’essenza della tecnica racchiude un pericolo ma lo racchiude solo se questo pericolo puo’ essere evitato. Non a caso Heidegger cita spesso le parole del suo poeta preferito, Holderlin: laddove si nasconde la minaccia, li’ anche cresce la salvezza. E’ solo quando l’uomo dimentica che nell’entrare nell’Essere si sceglie un “campo” ma se ne lasciano da parte infiniti altri che l’inquadramento ontologico insito nel passaggio dal non-essere all’essere diventa un pericolo perche’ finisce con il far credere che di infinite possibilita’ dell’Essere, una e una soltanto sia quella “giusta”, la “migliore”, la piu’ “opportuna”. Ma noi in questa era presumibilmente moderna non viviamo forse nel regno dell’Opportunismo piu’ bieco? Mai come ora, le parole di Heidegger sembrano un monito diretto ad una civilta’ che non solo ha dimenticato cosa significa Essere ma che ha persino dimenticato di aver dimenticato…

  3. Non è chiaro se il commento di The Obscure si riferisca a Pascal (inteso come autore del commento precedente) o alle mie parole. The Obscure torna poi alle mie affermazioni, vorrei chiarire che ho parlato di Heidegger soprattutto per il disvelamento della verità-ἀλήθεια. Vi ringrazio comunque per aver letto questo articolo.

  4. In realta’ mi riferivo unicamente al commento di Pascal che trovavo inesatto riguardo la posizione critica di Heidegger sulla tecnologia. La critica era piu’che altro rivolta a chi ne fruisce della tecnologia, non tanto all’essenza della tecnologia stessa. In merito all’articolo di Sandro De Fazi, non trovo nulla da eccepire nella prima parte ma vorrei rileggere con attenzione la seconda, in particolare dove si parla di un superamento del passato da parte dei storici….

  5. Ma come? Il tardo Heidegger non fa altro che tornare sulla questione della tecnologia nell’ultima parte della sua carriera e non a caso intitola proprio uno dei suoi saggi: “The Question of Technology”. Non solo ma anche quando non lo fa direttamente, molti dei temi dai lui affrontati dopo l’abbandono del progetto di Essere e Tempo sono sempre legati a dischiudere e disvelare la vera essenza della tecnologia, che e’ sciocco legare alla “tecnologia” come e’ di solito conosciuta. Heidegger tratta della tecnologia in quanto techne, cioe’ in quanto poiesis e pertanto come atto creativo del entrare nell’Essere. Per questo dice che l’essenza della tecnologia non e’ niente di tecnologico. Ma questo l’ho spiegato in quanto ho scritto prima e a meno che non abbia frainteso quello che tu scrivi mi pareva che fosse quello che – a mio avviso giustamente – intendevi dire sulla questione.Non ho ben chiaro invece cosa si intende per “contaminazione a posteriori” e per di piu’ una contaminazione “impropria”. Inoltre l’altra cosa che come dicevo prima mi lascia perplesso e’ la tua conclusione che mi sembra poco heideggeriana ( a meno che questa non fosse la tua intenzione, i.e. una critica di Heidegger). Il passato non si supera, ma ci rincorre e addirittura ci precede. Se mi chiedi da dove prendo queste affermazioni, tutto il primo Heidegger ne e’ pieno. Il passato non “fu” ma “e'” nella modalita’ di “essere-stato”. Il passato e’ una presenza-assenza.

  6. Mio caro The Obscure (nome piuttosto eracliteo – Eraclito l’Oscuro – per cui se tu fraintendi quello che scrivo come fraintendimento di ciò che tu commenti, non ne usciremo), The question of technology è la trad. inglese di Questione della tecnica; Heidegger se la cava meglio col tedesco, tutto sommato. Dopodiché, se sei d’accordo, giammai saremo in grado di scambiare quella tecnica con la tecnologia di cui oggi ci serviamo! Me, almeno, non trovi alleato su questa linea.

  7. scusami se insisto su questo punto ma davvero non capisco come tu possa scindere tecnica e technology che e’ semplicemente la traduzione inglese di quello che tu rendi come “tecnica”. E non capisco anche come tu non possa vedere che la rilevanza di una discussione filosofica sulla tecnica e’ dovuta alla ramificazione di quel concetto nella tecnologia di cui noi ci serviamo. Quale altro sarebbe il motivo che indurrebbe Heidegger a spendere cosi’tanto inchiostro sulla questione della tecnica se non perche’ abbia una ripercussione diretta nel modo in cui l’uomo fruisce della tecnologia? Il fatto contingente che tekne sia piu simile etimologicamente a tecnica non solo e’ un’osservazione piuttosto oziosa ma e’ fondata su un fraintendimento dell’intento di Heidegger. E a proposito di fraintendimento. Mi dici che ho frainteso il tuo pensiero perche’ vorrei scambiare la tecnica con la tecnologia di oggi.Ma io non ho detto questo. Io credo che tu abbia interpretato il mio commento come se tecnologia moderna e tecnica intesa alla maniera greca siano la stessa cosa. No! Sembra come se il fraintenditore(io) e’ frainteso da chi (tu) fraintende dicendo che non ci possa essere fraintendimento fra le due cose. Quello che dico io invece e’ che e’ proprio perche’ c’e’ fraintendimento nell’essenza della tecnica che la tecnologia viene considerata come una cosa a parte, un fenomeno avulso e totalmente moderno. Ed e’ qui che e’insita la minaccia dell’uomo che si serve di qualcosa che non conosce nella sua vera natura. Ma qual e’ questa vera natura? La tecnica o tekne…

  8. Chi sia The Obscure non è dato sapere, sta facendo un gran casino tra tecnologia tecnica tekhne Heidegger e quant’altro. Nulla sappiamo della sua attività, dei suoi studi, dei suoi interessi; potrebbe essere tanto uno studente liceale, quanto, che so?, uno studente universitario o un semplice lettore di Heidegger. Sarebbe, per discutere sul serio, come sembra desiderare The Obscure, invece importante saperne qualcosa di più, su di lui: cambierebbe il mio modo di relazionarmi laddove un botta e risposta, quando non c’è, è evidente, molto feeling, diventa arduo e alla fine quasi impossibile, in queste circostanze. In ogni caso, io mi firmo col mio nome e cognome e in questo senso sono disponibile a espormi, ma non è chiaro per niente su che cosa noi staremmo davvero “discutendo”. Che cosa vuole contestarmi The Obscure? Che Heidegger abbia parlato di una questione della tecnica è incontestabile. Non vedo neppure lontanamente l’eventualità che si possa affermare il contrario. Ora, se si tratta della traduzione inglese, non vedo la necessità neppure di citare, qui dove stiamo parlando in italiano (o ci proviamo), un titolo di H. in inglese, che risulta, come minimo, fuorviante anche per la sovrapposizione dei significati che fatalmente sono implicati a proposito di una “questione della tecnologia” o di un'”essenza della tecnologia”. Se, poi, vogliamo “ramificare”, come dici tu, questo concetto di tecnica alla tecnologia, se ne potrebbe anche parlare se non me ne fosse, e me ne dispiace, passata francamente la voglia (succede). Il mio articolo non è su Heidegger ma sul pensiero antico. Programmaticamente questo blog, che peraltro gentilmente ha ospitato alcuni miei articoli e recensioni, prevede e invita finanche al litigio se questo è portatore di vitalità e forza al dibattito. E fin qui benissimo. Ma sono dolente di non cogliere ora energia costruttiva né ho affatto intenzione di litigare. Va bene? Spero di essermi fatto capire. Saluti. S.

  9. Non ho altro da aggiungere a chi rifiuta sdegnosamente il confronto dialettico partendo, come per sua stessa ammissione, da una posizione di superiorita’. Colgo pero’ in questo atteggiamento anche una certa incapacita’ di difendere le proprie idee, quando le si ha, e di rispondere a delle domande ben precise. Sul fatto della mia identita’: non vedo cosa cambi dire il mio nome o non dirlo dato che non ho visto da nessuna parte nel blog il comando di firmarsi con il nome reale ne’ viene intimata questa possibilita’ al momento della registrazione, pertanto questa argomentazione non puo’ che essere respinta, tanto piu’ che lo stesso Suo nome, Sandro De Fazi, non rappresenta’ alcunche’ per me. Anche Lei per me potrebbe essere un filosofo, uno studente liceale, o un appassionato di filosofia da supermercato. A questo punto concordo con quanto Lei dice e non mi rimane che contraccambiare i saluti e chiudere la faccenda qui.

  10. P.S. Le assicuro che nemmeno io l’avevo avvicinata con l’intenzione di litigare in maniera pretestuosa. Spero che questo chiarifichi il mio intervento.

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