Paradigma gerarchico – prima parte

Introduzione

Oggi l’idea stessa che il riflettere e il pensare in filosofia possano dare origine a un sistema di pensiero appare quasi anacronistica. Eppure un testo filosofico è comunque l’esito di un percorso di esperienze e riflessioni dove, pur provvisoriamente, vengono organizzati e esposti gli esiti a cui quelle riflessioni sono approdate. Questo testo si occupa di paradigmi. Cosa sono i Paradigmi? Schemi? Strutture a priori? Aperture? Orizzonti? Forse il termine migliore per caratterizzarli è “organizzazione”, anche se l’ambito semantico di questo termine è troppo ampio e impreciso. Del resto, se si dovesse caratterizzare la differenza tra corpo e pensiero, tra spirito e materia, il discorso più appropriato sarebbe proprio centrato su quella vasta area semantica coperta dal termine “organizzazione”. Insensato sarebbe ora cercare una maggior precisione e forse altrettanto insensato sperare di pervenire ad una definizione esplicita.Ogni trattato, ogni teoria ha una visione parziale dell’oggetto teorizzato; Teorizzando si conquista e si perde. Questa conquista e questa perdita assumono un significato profondamente diverso all’interno delle varie concettualità che organizzano i vari paradigmi. All’interno di quel paradigma “vincente”, qui battezzato “gerarchico”, è l’uomo a costruire le teorie e, con esse, la conquista e la perdita, mentre questa semantica risulta del tutto inesprimibile all’interno di un altro paradigma “quello destinale” dove l’attore dell’agire teorico è l’Essere, un termine molto usato da Heidegger e dai filosofi che in qualche modo si richiamano al suo pensiero, che ha però in questo scritto senso molto differente. Del resto l’argomento scelto come strumento e filo conduttore sono le teorie in generale e quelle scientifiche in particolare. Proprio quel tipo di sapere a cui Heidegger non attribuiva neppure lo statuto di aperture di verità. Il nostro vivere e interpretare il mondo, non avviene secondo un unico paradigma ma è indubbio che uno di questi si è costituito come paradigma egemone nell’addivenire della storia biologica e culturale dell’uomo, prefigurando per noi un destino di vissuti dalle teorie. La prima parte si occupa appunto di questo paradigma egemone che, per motivi inerenti al suo funzionamento è stato denominato “paradigma verticale”.

Vengono analizzate successivamente tre forme paradigmatiche: quella gerarchica dell’agire-patire, del soggetto-oggetto, (paradigma vincente), quella circolare e quella destinale. All’interno di ognuna assumono forma, connessioni e significati diversi, concetti quali verità, architettura, complesso, ecc. Nessuno di questi paradigmi è presentato come superiore agli altri: è però evidente la loro diversa efficacia e la diversa maniera di mappare il nostro aggirarci nel mondo, come è altrettanto evidente che, i gli altri paradigmi, agevolando un suo parziale superamento, consentono una diversa apertura verso il mondo. Il nostro accesso al mondo avviene secondo coacervi personalizzati di paradigmi, ma in ogni caso nuove aperture non rinnegano necessariamente le precedenti neppure quando le correggono o le negano.

Il discorso sulle teorie è più ampio rispetto alle normali indagini epistemologiche. Purtroppo si è sempre guardato alle teorie con un atteggiamento asettico e aristocratico. Si è sempre pensato ad esse come a organizzazioni di pensiero spirituali e passive che venivano scoperte o inventate, illustrate o imparate, approvate o smentite ma sempre secondo processi più o meno tranquilli più o meno e incruenti. Il pensiero sulle teorie è sempre stato troppo schizzinoso ignorando proprio la dimensione delle teorie come “soggetti” attivi.
In un certo senso si è pensato alle teorie conformemente a moduli Lamarckiani, secondo i quali le teorie vengono apprese, elaborate, collaudate, trasmesse e non secondo moduli Darwiniani dove le teorie vengono selezionate e ci selezionano. Ma se questo atteggiamento è apparentemente sensato in relazione alle teorie ‘nobili’ nate in un ambiente culturalmente sviluppato, non lo è per nulla in relazione a comportamenti e abitudini di vita sopravvenute nel nostro passato, in forme che solo in tempi successivi e ‘più nobili’, sono state lette e riconosciute come teorie.
Questo atteggiamento, se da una parte ha allontanato le teorie stesse dalla carnalità dell’uomo, dall’altra ha contribuito a vedere l’uomo teorizzante un uomo disincarnato, spirituale, intellettuale.

Ma è chiaro che le teorie non sono solo quelle nobili e istituzionalizzate come la fisica ed è pure chiaro che, se si vuole comprendere l’agire teorico, si debba riflettere anche su quei comportamenti, quelle abitudini, quelle organizzazioni, con cui i nostri progenitori si orizzontavano nel mondo che emersero e si svilupparono molto prima che esistesse la parola “teoria”.  Con questo allargamento si risale ben oltre la cosiddetta “storia” di cui sono sopravvissute testimonianze o manufatti culturali, che ha imposto un confine, indefinito, ma concettualmente significativo, fra storia dell’uomo storico e storia dell’uomo biologico.  Così intese le teorie perdono quell’alone intellettuale di spiritualità che le ha sempre accompagnate e si presentano come quei soggetti che nel lontano passato sono emersi come soggetti agenti e sopravviventi sul dolore e sulla morte dei singoli individui, prefigurando per l’uomo un destino schizofrenico di conquista e di perdita.  Nel saggio si adotta spesso il termine “preteoria”, volendo significare con esso teorie con pochi vincoli ed ampi gradi di libertà. Preteoria ad esempio, è la concezione di un mondo formato da oggetti e fatti, preteoria è l’istintiva fiducia condizionata nei sensi, preteorie sono i linguaggi.

L’esistenza di queste preteorie mette in luce l’esistenza di configurazioni generali di comportamento con ampi gradi di libertà che, presenti ed attive nel nostro modo di vivere come organizzazioni del nostro agire, vengono a costituire un più o meno amalgamato coacervo di linee d’interpretazione che costituiscono l’organizzazione del nostro interagire. Entro le configurazioni di questi paradigmi preteorici si esprimono le teorie, così come entro i sistemi operativi degli elaboratori si esprimono i programmi. Questa similitudine che ha poco dell’analogia e molto della metafora riesce comunque a dare almeno una vaga idea dei rapporti fra teorie e preteorie.  Molte filosofie interpretano il nostro rapporto col mondo come una rappresentazione. Una rappresentazione sensibile o intellettuale, fedele o deformata, ma comunque pur sempre come una rappresentazione, in cui noi, abitando nel mondo, lo guardiamo asetticamente e senza reciproche contaminazioni. In sostanza si è spesso voluto isolare ciò che è il nostro vivere nel mondo carnalmente, un vivere in cui noi respiriamo, lavoriamo, ci nutriamo ecc. da ciò che è il nostro rappresentare il mondo. Ma anche volendo isolare artificialmente questo fantomatico momento di rappresentazione e questa altrettanto fantomatica facoltà rappresentativa, stranamente la si è sempre interpretata e descritta come se il mondo fosse lì di fronte a noi e i nostri sensi in qualche modo lo rispecchiassero e non con un processo dal tutto simile a quello della nutrizione e digestione.  Di fatto noi agiamo nel mondo orientandoci ed agendo su esso, non come osservatori ma come assimilatori che rendono simile il dissimile, ed espellono ciò che non può essere assimilato. L’atto di percepire il mondo è già una colonizzazione del mondo stesso in cui convergono il mondo, gli oggetti, i fatti, i termini, le proposizioni, il pensiero e il linguaggio. Questo è un processo vincente e consolidato, una preteoria stabile e strutturalmente costitutiva del nostro essere: per noi è quasi un binario su cui scorre il treno del nostro guardare/ vivere/ esperire. Un binario di cui abbiamo dimenticato l’esistenza proprio perché è entrato a far parte del nostro mondo colonizzato.

Dopo queste brevi, parzialmente isolate considerazioni è possibile indicare il percorso del saggio che inizia con l’esame dei rapporti fra mondo, teorie e verità e individuando alcune caratteri problematici.  Successivamente vengono analizzati le teorie come modelli, l’opposizione analogico/digitale, gli enunciati intesi come modelli. Parallelamente si parla di costruzione, d’esistenza e di senso degli oggetti. Tale analisi e’ di tipo intellettuale e lo è volutamente perché sono “intellettuali” gli oggetti esaminati ed è“intellettuale” l’uso. Il termine non deve, però, trarre in inganno. E’ proprio l’analisi intellettuale di un oggetto intellettuale a favorire, successivamente, un rinvio di senso verso la loro genesi biologica. La prima parte termina con il riconoscimento delle teorie e preteorie come soggetti che ci vivono prefigurando per noi un destino di perdita e di tirannia e con la constatazione dell’impossibilità di dare un senso a quel viverci e a quel destino.  Nella seconda parte oggetto dell’indagine è l’organizzazione. L’analisi verte più che altro sui linguaggi, non perché nel linguaggio si manifesta l’essere ma semplicemente perché la riflessione sul linguaggio, preteoria aperta a pluralità concettuali, può costituire un percorso privilegiato.
Nella terza parte (paradigma destinale) le domande di Aristotele e di Kant sul senso della domanda fisica e metafisica innescano domande sul senso stesso dell’operare informatico mediante teorie, o meglio, sul destino dell’operatore umano che si pone incessantemente domande e ricerca per quelle domande risposte adeguate.  Se il paradigma gerarchico si organizza metaforicamente sulla disgiunzione agire-patire, quello circolare si organizza sul concetto di retroazione e quello destinale è sull’accadere.

Forme di Teorie

Teorie, verità e mondi – Proliferazione delle teorie

Un’asserzione molto debole sulle teorie riguarda il nostro muoversi nel mondo. Comunque sia il nostro pensiero in proposito non possiamo non constatare che ci muoviamo giudicando, cercando di dare un senso, aspettandoci eventi e conseguenze. Le teorie servono anche per fare previsioni come presupposto necessario per quell’agire ‘sensato’ per cui si realizza un qualche accordo fra teoria e intenzioni di azione. Forse è proprio questo accordo a essere sentito come ‘descrizione vera’ del mondo, e a consentirci di definire minimalmente le teorie come sistemi d’orientamento nel mondo.
In effetti, però, si tende a leggere le teorie, almeno quelle che funzionano, come ‘verità’ o come modelli di un mondo, che hanno con il mondo stesso, un rapporto d’avvicinamento alla ‘verità’. D’altro canto la molteplicità delle teorie che riguardano il mondo ci mette a disagio poiché mentre le teorie sono molte, il mondo che presuppongono è uno solo.
Se le teorie sono molte e il mondo, con cui esse intrattengono un rapporto di verità, è uno solo, non possiamo parlare di una verità ma 1) di molte verità e un unico mondo oppure 2) di molte verità e molti mondi. In effetti, si parla di ‘mondo fisico’, di ‘mondo chimico’, di ‘mondo di oggetti’, di ‘mondo di sensazioni’ e, contemporaneamente o in alternativa, di ‘verità’ fisiche, di verità biologiche ecc., ma tutto ciò urta contro quei concetti intuitivi di mondo e di verità in cui noi crediamo e secondo i quali non possono esistere né ‘tipi’ di verità né ‘tipi’ di mondi, ma un solo mondo e una sola verità.
Tutto ciò è disorientante e pare convalidare un’ipotesi sgradita di ‘debolezza’. Una teoria, in definitiva, sarebbe una favola, un romanzo in cui i protagonisti sono oggetti, idee, numeri e uomini ecc., e dove questi numeri, questi oggetti, questi uomini non sono i ‘veri’ numeri, i ‘veri’ oggetti, i ‘veri’ uomini, con cui abbiamo a che fare tutti i giorni, ma dei loro simulacri, un po’ veri e un po’ fantastici. L’uomo fatto di atomi della fisica atomica non è il vero uomo, come non lo è l’uomo chimico o l’uomo storico delle teorie hegeliane. In sostanza non sembra di essere nel nostro mondo, ma piuttosto in un mondo di fantascienza, dove oggetti e abitanti hanno, sicuramente, una parentela con oggetti e abitanti del nostro, ma si presentano con l’inconsistenza dei simulacri o dei manichini.
Di fatto il fisico o il chimico non pretendono di raggiungere gli oggetti stessi. Nessun chimico pensa che le leggi della sua disciplina descrivano l’uomo; una descrizione dell’uomo non si esaurisce dando leggi su molecole e composti.
Per tener conto di questo fatto si usa parlare di ‘verità parziali’ o di verità ‘sotto un certo punto di vista’, ma questo artificio più che dare risposte ai problemi sembra apporre delle etichette; si dice che il mondo viene solo in parte raggiunto, non si dice che cosa si raggiunge né cosa si perde.
La varietà e molteplicità delle teorie ‘sotto i vari punti di vista’ costituisce la proliferazione orizzontale delle teorie e delle verità, ma, fermo restando il mondo, alla proliferazione orizzontale si aggiunge un ulteriore e perfido meccanismo che complica all’infinito il problema.
Il meccanismo è questo: si costruisce una teoria sul mondo e ci si chiede se è vera; per rispondere a questa domanda bisogna, però, sapere cosa si intende per “verità” e quindi avere una teoria a questo riguardo. In tal modo avremo non più una sola teoria, ma due ed entrambe dovranno, essere giustificate da altre teorie e queste, a loro volta da altre. In fondo la teoria di Tarski produce questo meccanismo; costruisce una semantica per il concetto di “verità” e ottiene come risultato una gerarchia ascendente senza fine di linguaggi, ciascuno con il suo concetto di verità. Ognuna di questa verità verrà definita, sempre, nel linguaggio di ordine superiore rispetto al linguaggio cui si riferisce. Il risultato sarà, non una definizione, ma un sistema di definizioni che, in definitiva, non definisce.
Il paradigma generatore di questa proliferazione orizzontale e verticale di teorie che indicheremo come paradigma gerarchico presuppone che: 1) esista un mondo e 2) esista una serie teorie sul mondo espresse in linguaggi, 3) esista un rapporto di rappresentazione fedele (Verità) fra il mondo e le teorie, con la mediazione di uno o più linguaggi.

Teorie e raffigurazione

Wittgenstein detestava questo modo di procedere. Aveva imparato a detestarlo valutando la “bestiale” teoria dei tipi elaborata da Russell e da lui considerata un’inutile produzione di “chiacchiera” insensata proprio a causa della sua illimitata proliferazione di tipi, di ordini, di numeri e entità. La sua teoria raffigurativa del linguaggio, esposta nel Tractatus, si proponeva proprio di evitare esiti di questo tipo.
Purtroppo il rimedio si rivelò fin troppo efficace. Il Tractatus sviluppando coerentemente una teoria di ripartizione di senso fra ciò che si può “dire” e ciò che non si può “dire”, ma solo “mostrare”, perviene all’eliminazione dell’odiata chiacchiera, ma anche alla dissoluzione di se stessa. E’ lo stesso Wittgenstein, a dichiarare, nelle ultime proposizioni del Tractatus, che chi ha ben compreso il senso le teorie esposte deve riconoscerle insensate.
Che tali dichiarazioni siano una capitolazione non è però affatto scontato, come non è scontato che, l’eventuale fallimento sia da addebitare alla concezione raffigurativa. Il Tractatus condanna non il carattere raffigurativo del linguaggio, ma la teoria costruita per esporre questa raffiguratività. E’ come se Wittgenstein ci indicasse un paesaggio e, una volta ottenuta la nostra attenzione, ritirasse il braccio dicendo che il braccio non fa parte del paesaggio.

Le teorie raffigurative, almeno in prima approssimazione, hanno come presupposto l’eliminazione di ogni sorta d’intermediario tra il mondo e la sua rappresentazione. Eliminare ogni sorta d’intermediario è, anche, una maniera per dichiarare l’inutilità delle teorie attraverso la loro dissoluzione. All’interno di una trattazione come questa, che ha per argomento le teorie in generale, l’esame di una teoria che, nel suo dispiegarsi, si nega come teoria, costituisce certamente una priorità.
La teoria di Wittgenstein individua nella raffiguratività la natura descrittiva, costitutiva e comunicativa del linguaggio. La comunicazione avverrebbe quindi analogicamente, un’analogia non specificata che accentua la sua parentela con il simboleggiare di tipo metaforico. Il carattere metaforico della teoria del Tractatus è accentuato dal rifiuto di Wittgenstein di pronunciarsi, anche solo per via suppositiva o disgiuntiva, sulla forma delle proposizioni elementari. La forma delle proposizioni elementari è un mistero, ma, nello stesso tempo, è in base a quella forma, di cui noi sappiamo solo che il suo rapporto col rappresentato è di natura analogica, che noi ci comprendiamo. Il linguaggio, come ce lo presenta il Tractatus, ha qualcosa di derridiano, una parentela con quel secondo termine di una metafora di cui s’è perso il primo termine.
Nel Tractatus la raffigurazione, nella sua funzione rappresentativa, non tocca né manipola il mondo: non ci sono residui linguistici nella rappresentazione. Una simile teoria è quindi “contemplativa” e passiva in netta antitesi con quelle concezioni che giudicano il linguaggio come condizionante i processi di conoscenza.

Teorie e Modelli

Lo scopo di quanto segue è di approfondire la molteplicità orizzontale delle teorie. Termini non equivalenti quali ‘modello’ e ‘teoria’, vengono qua usati quasi come sinonimi per agevolare l’esposizione, senza per questo pregiudicare l’indagine.
Sono modelli di un edificio sia 1) un plastico in scala, che 2) una serie di equazioni strutturali che ne descrivono le condizioni di equilibrio statico.
Accettata la pluralità dei modelli si pone il problema del tipo di relazioni esistenti fra i vari modelli, e l’oggetto cui si riferiscono. Se usiamo come modello per un edificio un plastico tridimensionale che riproduce in scala la geometria dell’oggetto, da esso possiamo risalire alle misure dell’oggetto, possiamo farci un’idea di come appare alla vista, dare giudizi estetici e così via. Insomma, al modello, seguendo procedure codificate, possiamo porre certe domande e ottenere risposte;
Se ci chiediamo se un solaio dell’edificio sia in grado di sorreggere un certo peso, non interrogheremo il modello plastico, ma quello strutturale. Questo, se adeguato, disporrà di procedure e calcoli che ci permettono di ottenere una risposta.
Anche il modello strutturale non è però un modello totale (informazione completa) perché non potrà informarci, ad esempio, né sul colore delle pareti né sul numero delle finestre. Ogni modello è un’organizzazione di alcuni tipi d’informazione, ma non di tutti; teorie e modelli, sono, dunque, sistemi organizzati d’informazioni progettati in funzione dei tipi d’informazioni che da essi si desidera ottenere. Il complesso dei fini e delle disponibilità conoscitive ne determinano la struttura.
Questo è fondamentale: un modello non può contenere tutte le informazioni dell’oggetto di cui è modello. Il modello totale di un sistema è solo il sistema stesso: l’unico modello totale di un edificio non può essere che l’edificio stesso.
I modelli, differenziandosi per il tipo e la quantità d’informazioni, intrattengono con i loro oggetti relazioni differenti. Non si può risalire da un modello a un sistema nello stesso senso in cui non si può risalire da un plastico all’edificio originale. Modellizzare, teorizzare è, in certo senso, perdere e la perdita di informazioni è connaturata con la procedura per formarle. Il modello totale dell’oggetto, del sistema, del mondo non può essere che l’oggetto, il sistema, il mondo, ma in questi particolari modelli totali l’informazione è scomparsa. Ogni modello, ogni teoria rivelano in quanto danno accesso a informazioni e perdono in quanto, la stessa costruzione dell’accesso, comporta la perdita di altre informazioni. L’acquisizione di informazioni esige un prezzo in perdita d’informazioni: proprio quel prezzo che ci impedisce di risalire da un modello dell’oggetto all’oggetto stesso. Questa caratteristica delle teorie e dei modelli è universale.

Informazione e Verità

Molti equivoci, molte conclusioni apocalittiche e totalizzanti svaniscono se si accetta l’ipotesi che le teorie, anche quelle “nobili” come la fisica, sono modelli di mondo, ci danno un modello fisico o chimico del mondo, consentono un uso del mondo, ma non descrivono il mondo.
Non si può chiedere a questi modelli ciò che strutturalmente non possono dare. Assolvono il loro compito non fornendo “verità”, o tutte le “verità”, ma mettendoci in grado di ottenere quelle informazioni per cui sono stati costruiti. Non ha senso affermare che un modello plastico è “falso” perché non da informazioni strutturali. Eppure, se in riferimento al piccolo “quotidiano” questa considerazione appare ovvia, non altrettanto ovvia appare nei riguardi delle scienze in generale.
Il travisamento della natura informativa delle teorie porta, da una parte, a supporre che esse descrivano il mondo in maniera tale che, una volta pervenute alla loro completezza e riunificazione, possano costituire un suo specchio completo e, dall’altra, spingono a identificare l’impossibilità dei modelli di essere modelli totali, con il ‘falso’. Le grandi illusioni e le grandi delusioni sono legate alle “capacità’” delle teorie. Di fatto è la loro natura funzionale e informativa a vietarci anche solo di pensare che una qualche riunificazione delle varie teorie in un’unica teoria o che, peggio ancora, la congiunzione di tutte le teorie possa approdare al modello totale; le teorie sul mondo, comunque formate, saranno sempre modelli di mondo e non saranno mai né il mondo né il suo modello totale, né la sua raffigurazione.
Questa realtà non viene spesso accettata. Di fronte alle teorie, l’atteggiamento filosofico è sempre stato condizionato dalle aspettative in essi riposte. La constatazione dell’esistenza di un qualche rapporto fra modello e modello e fra modello e realtà può spingere verso due diversi tipi di credenze circa la capacità di rappresentazione della realtà.

1) la capacità del modello di rispondere a certe domande può indurre a credere che sia in grado di rispondere a tutte le domande. Questo è il tipo d’illusione che porta ad identificare modello e realtà;

2) la perdita collegata all’attività teorizzante, l’impossibilità, per ogni singolo modello, di fornire ogni informazione può indurre a concludere che esso, intrinsecamente inattendibile, costituisca una rappresentazione falsa della realtà.

Da questo secondo atteggiamento nascono i miti delle scienze precategoriali e dei linguaggi precategoriali visti come paradisi perduti, come mitici Eden dove ritrovare, quella comunione con il mondo che con il linguaggio “teorico” è andato perso. Non esistono né un linguaggio precategoriale né tantomeno una scienza precategoriale, anzi è nella natura informativa del linguaggio l’essere categoriale, il dare certe informazioni e il perderne altre. Teorie e modelli intervengono sull’oggetto con procedure di acquisizione che contengono i presupposti di una modificazione ( di per sé sempre violenta) dell’oggetto. Queste procedure paiono irrevocabilmente legate alla natura stessa dell’informazione, divenendone condizioni di formazione e di accessibilità, in contrapposizione alla natura passiva della raffigurazione.
Tutti questi errori nascono da una confusione fra il concetto di VERITÀ e quello d’INFORMAZIONE, fra il concetto di REALTÀ e quello di TOTALITA’ DELLE INFORMAZIONI e alla base di questi equivoci sta quell’ingombrante concetto di “verità” a cui si vuol sempre far approdare ogni pensiero.
Riemerge, dunque, il problema, appena accennato, dell’opposizione fra raffigurazione e informazione; un problema da cui ripartire per riprendere l’indagine.

INFORMAZIONI

Introduzione

Si discute, ora, brevemente di informazione e di raffigurazione, per individuarne l’opposizione. Si passa poi ad analizzare l’opposizione analogico-digitale per meglio comprendere le caratteristiche dell’informazione, il suo carattere violento e la generazione degli oggetti.
Ogni informazione registra una differenza discreta. Se non ci fossero differenze discrete di colore non esisterebbero parole come “ ROSSO”, “VERDE o “GIALLO “ e neppure esisterebbe la parola “ COLORE”, rispetto alla quale quei termini sono sub-ordinati; in un ipotetico mondo tutto rosso la parola “ROSSO” non avrebbe senso come non ne avrebbe la proposizione “QUESTO È ROSSO” Che informazione potrebbe dare, in un mondo tutto di colore rosso, una proposizione che ci dice che una di quelle cose è rossa? Come già detto nel linguaggio degli abitanti di quel mondo non avrebbero ragione d’esistere né la parola “ROSSO” né la parola” COLORE”.
In generale si può quindi accettare che parole, proposizioni, informazioni esistono solo se: 1) esistono differenze discrete e 2) esistono classificazioni che codificano queste differenze. L’esistenza della parola “rosso” ci dice che esistono altri colori differenti dal rosso e che questi colori sono inseriti in una classificazione anche minima quale quella espressa dalla alternativa “rosso o non rosso”.
Alla base dell’informatività di un enunciato sta, dunque, l’esistenza di un sistema di differenze organizzate in una qualche maniera ( ad esempio in una classificazione). Ma questo non è sufficiente; quando si afferma, ad esempio, “QUESTO È ROSSO”, si presuppone non solo di essere compresi e di trasmettere un’informazione, ma anche che questa affermazione sia vera o falsa. In altre parole noi comprendiamo quell’informazione se sappiamo, non solo che una cosa può avere questo o quel colore, ma che uno di questi deve averlo. L’affermazione “PIOVE “ è sensata e ci dà un’informazione solo perché è una parte della tautologia “ PIOVE O NON PIOVE”; analogamente la proposizione “A è ROSSO “ ci dà informazione solo perché è parte di una tautologia che comprende una pur minima classificazione dei colori quale “ROSSO O NON ROSSO”.

Se immaginiamo di operare in un mondo finito in cui non esistano asserzioni di generalità, possiamo affermare che in quel mondo i concetti di differenza, d’informazione, di classificazione e di tautologia, si presuppongono l’uno con l’altro e che non può esistere enunciato informativo senza che sia parte di una tautologia. Da tutto ciò non è, però, lecito pensare che, dato un enunciato, sia univocamente determinata la tautologia che ne sostiene la decidibilità. Non è necessario per la comprensione che parlante e ricevente presuppongano la stessa tautologia. L’affermazione “QUESTO È ROSSO” viene compresa, anche se presuppone nel parlante una tautologia basata su una classificazione di sei colori e nell’ascoltatore solo il concetto che una cosa o è rossa o non è rossa, anche se in un simile contesto il senso e l’informazione non saranno gli stessi. In ogni caso almeno una tautologia deve supportare un enunciato come presupposto della sua informatività, del suo senso e della sua decidibilità. Il fatto che siano possibili diverse tautologie a supporto di un enunciato, influisce non sul suo essere o non essere informativo, ma sulla sua quantità d’informazione.

Si tratta ora di mostrare la struttura attiva e violenta del generarsi dell’informazione e la natura informativa del linguaggio in contrapposizione alla tesi che considera il linguaggio come raffigurazione, passiva e incontaminata del mondo. Una tesi di attività e di violenza in contrapposizione ad una di passività e di contemplazione.
Come esempio paradigmatico di tesi raffigurativa considereremo quella esposta nel Tractatus. Non è l’unica, ma può funzionare da esemplare per tutte le concezioni raffigurative, se s’intende che queste siano caratterizzate dall’eliminazione di ogni sorta d’intermediario tra il mondo e la sua rappresentazione. Eliminare ogni sorta d’intermediario teorico è, anche, una maniera per dichiarare l’inutilità delle teorie attraverso la loro dissoluzione; la raffigurazione, infatti, nella sua funzione rappresentativa si pone separatamente dal mondo e nel rappresentarlo non lo tocca e non lo manipola. In altre parole il linguaggio non deforma, e non “contribuisce” con qualcosa di suo a descrivere il mondo né interviene a condizionare i processi di conoscenza.
Il mondo del Tractatus è un mondo minimo in cui non esiste la generalità illimitata. Le sue tesi sono note: “Il mondo è la totalità dei fatti non delle cose” e “il fatto è un nesso di oggetti”. Queste affermazioni ci dicono già molto: ci dicono che esiste un mondo, e che questo mondo è composto di “fatti”: fatti reali, esistenti e oggettivi indipendentemente dal nostro agire nel mondo, dal nostro osservarlo, dal nostro parlarne. Di questi fatti, secondo il Tractatus, noi ci facciamo immagini e queste immagini sono fatti che raffigurano fatti.
L’immagine logica dei fatti è il pensiero che si esteriorizza in proposizioni. Le proposizioni sono esse stesse fatti che, articolandosi come i fatti rappresentati, li raffigurano. Un fatto raffigura un altro fatto quando i due fatti condividono la stessa forma logica; questa condivisione è la condizione affinché l’uno possa essere utilizzato come simbolo dell’altro.
La forma logica è l’organizzazione, la connessione degli oggetti nel fatto; per condividere la forma logica di un fatto, un fatto-proposizione deve avere tanti nomi quanti sono gli oggetti del fatto, riferirsi a essi e presentarli fra loro interconnessi come lo stato di cose in cui intervengono.
Queste tesi paiono ben analizzare le proposizioni relazionali. Il fatto che il vaso stia sul tavolo e la proposizione:

IL VASO STA SUL TAVOLO

mostrano una corrispondenza biunivoca dei segni “tavolo” e “vaso” con i rispettivi oggetti denotati, mentre, non il segno “sopra “, ma la forma relazionale “(…) =>sopra =>(…)” ci mostra la connessione effettiva degli oggetti nominati nella proposizione.
Potremmo anche tentare di immaginare una procedura di costruzione. Consideriamo l’enunciato IL PIATTO STA SOPRA ALLA BOTTIGLIA come originato da una porzione di mondo di questo tipo:

Possiamo immaginare che per passare dalla porzione di mondo all’enunciato sia necessario.
1) cancellare tutto ciò che non è né vaso né bottiglia

2) Introdurre un sistema di riferimento e proiettare su di esso gli oggetti.

E scrivere seguendo la freccia

IL VASO STA SOPRA LA BOTTIGLIA

E’ evidente che in tutti questi passaggi si è operato una cancellazione (tutti gli oggetti ad eccezione di piatto e bottiglia) e una deformazione di posizione. Ma non solo; se si pensa che il primo disegno non rappresenta certo la porzione di mondo: sono assenti le ombre, le luci, i colori, l’ambiente ecc. Cancellazioni e deformazioni sono operazioni violente (produttrici di perdite) funzionali allo scopo del modello linguistico (Enunciato) e in quanto alla raffigurazione o immagine logica, tutto sta in cosa s’intende per “logica” A prima vista il modello enunciato sembra una’immagine logica’ non della porzione di mondo ma, al massimo di quanto mostrato in fig. 4. Ma se il Wittgenstein del Tractatus intendeva proprio tutto ciò che dalla porzione di mondo permette di arrivare all’enunciato modello, nulla da eccepire, perché si tratterebbe, comunque, solo di una questione linguistica su cui accordarci. E’ tuttavia evidente come il modello enunciato presuppone oggetti e fatti digitali in corrispondenza di nomi e proposizioni digitali, quando invece la porzione di mondo appare analogica, ma dell’opposizione analogico/digitale si parlerà presto.

Non sembra, però, che proposizioni predicative del tipo:

SOCRATE E’ GRECO

funzionino in questo modo ma Wittgenstein non ha dubbi: l’uso ha così alterato la vera forma logica delle proposizioni da renderla irriconoscibile: la struttura profonda, logica di ogni proposizione deve essere ed è raffigurativa; si tratta soltanto di farla emergere, con l’analisi.
Wittgenstein non descrive un metodo per condurre quest’analisi perché non lo conosce. Eppure ritiene di poter dimostrare che 1) questo metodo esiste, 2) che è unico, 3) che deve approdare a proposizioni elementari in cui i simboli dei nomi si riferiscono a oggetti semplici, eterni e indecomponibili.
Il punto focale della teoria raffigurativa del Tractatus sta proprio in quest’analisi delle proposizioni dove al termine del processo il linguaggio tocca il mondo. Ma come lo tocca? Non ci possono essere che due possibilità: 1) l’analisi ad un certo punto si ferma perché si trova impigliata nei limiti del linguaggio, 2) questi limiti non ci sono; l’articolazione del pensiero rispecchia l’articolazione dell’essere.
Il Tractatus ritiene che la seconda via sia l’unica possibile per far sì che le proposizioni abbiano un senso e che con il linguaggio ci si possa intendere[1].
Dunque linguaggio da una parte e mondo dall’altra; il primo raffigurazione del secondo, una raffigurazione in cui la struttura “si mostra” e non può essere descritta.
Questa distinzione fra “dire” e “mostrare” è centrale nel Tractatus: una proposizione mostra, ma non dice la sua forma logica. Ora è ovvio che la proposizione “Paolo ama Maria” non dica nulla della sua grammatica perché dice che Paolo ama Maria e null’altro, ma ciò che intende Wittgenstein non è solo che una proposizione non può dire nulla sulla sua forma logica, ma che nessuna proposizione può dire qualcosa sulla forma logica di una qualsiasi proposizione. Nulla di sensato può essere detto circa la forma logica: è la proposizione a mostrare la sua forma logica.
Per approfondire l’opposizione dire/mostrare è ora opportuno analizzare quella fra il rappresentare analogico e il rappresentare digitale.

Rappresentazioni analogiche

Le fotografie, i solchi dei dischi musicali[2], gli strumenti a indice, le trascrizioni proporzionali sono rappresentazioni analogiche delle porzioni di mondo che rappresentano. Un pennino scrivente che segua l’andamento di un qualsiasi fenomeno fisico (Livello di un liquido, velocità di un’automobile ecc.) e lo riporti su un diagramma cartesiano è un esempio di cosa sia una rappresentazione analogica (Di essa non fanno parte naturalmente né gli assi cartesiani né le eventuali tacche sul quadrante). Intuitivamente si può dire che le rappresentazioni analogiche seguono con continuità e proporzionalità le porzioni di mondo che rappresentano.
Per sua natura una rappresentazione analogica non ha zeri, non ha sistemi di riferimento, non ha numeri né rappresenta mancanze, negazioni o oggetti. Sentiamo suonare un disco e all’improvviso la musica cessa. Vien naturale pensare che questa mancanza di suono sia uno zero e che i solchi non incisi rappresentino analogicamente questo zero. In realtà, questa è effettivamente una mancanza di suono, ma non è uno zero: il solco del disco segue il suono anche nell’interruzione del suono, ossia nel silenzio; qui il silenzio non è uno zero della musica, ma è parte integrante di quel brano musicale che prevede proprio il silenzio come evento musicale.
Nella riproduzione sonora sono suoi “zeri” i solchi non incisi (e quindi silenziosi) all’inizio e alla fine del brano e lo sono proprio in virtù della funzione che svolgono. Non rappresentano nulla; non fanno parte della rappresentazione, ma la circondano, la delimitano e ci dicono qualcosa della rappresentazione che isolano (ad esempio, ci dicono che la sinfonia è finita) proprio perché non ne fanno parte. Nulla che appartenga a una rappresentazione analogica può dare informazioni su se stessa o sul rapporto che intrattiene sul rappresentato. Nessuna porzione di fotografia o di dipinto potrà mai informarci, non solo sulla propria o altrui natura di fotografia o dipinto, ma anche sul proprio essere fotografia o dipinto. Al contrario sono le cornici, i silenzi, i contorni delle rappresentazioni quegli zeri che danno compiutezza, definizione e, quindi, possibilità di denominazione alle rappresentazioni, consentendoci di considerarle unità di significato. Queste unità di significato sono “oggetti”[3] che possono essere contrassegnati linguisticamente con “nomi”.
Quando si parla di una fotografia o di un dipinto, si parla di “oggetti” che hanno una delimitazione (in questo caso spaziale). Questo “essere oggetto” è già al di fuori di quel rappresentare fotografico, pittorico o sonoro che è, di per sé, un rappresentare illimitato. E’ il contorno, o il confine o la cornice di un quadro a definire come oggetto il quadro, mentre nulla all’interno di esso potrebbe dircelo. Le rappresentazioni analogiche diventano oggetti al di fuori del loro essere analogiche e ovviamente non contengono oggetti. Non vi può essere in alcun quadro uno zero se non nella cornice, né vi può essere rappresentato alcun oggetto positivo o negativo; quindi non una “casa”, né, tantomeno, una “non casa”; non uno stato di cose e non un “non stato di cose”. Siamo noi a oggettivare quell’insieme di colori, segmentando e ponendo confini che permettono così di leggere le case e le non-case. Questi oggetti non nascono senza gli zeri ( nel senso sopra indicato ) così come Democrito non avrebbe potuto parlare dei suoi atomi senza un “nulla” che li circondasse e li isolasse nello spazio.

Rappresentazioni digitali

Consideriamo una rappresentazione analogica ( l’andamento nel tempo del livello di un bacino) come quella di Fig. A1.

A questo punto immaginiamo una situazione reale in cui si debba segnalare un livello di 3mt come livello di pericolo. Per realizzare questo dispositivo è sufficiente disporre di un galleggiante[4] che trasmetta un segnale accendendo, ad esempio, una lampada di segnalazione quando il livello di pericolo viene raggiunto. Matematicamente ciò equivale ad applicare alla funzione rappresentata dalla curva A1 una funzione F1 che assuma:

1) il valore 0 al disotto del livello dei tre metri (situazione normale di non pericolo);

2) il valore 1 al di sopra del livello dei tre metri (situazione di pericolo.)

La funzione F1 avrà quindi l’andamento di fig. A2 dove compaiono la funzione F e la retta di pericolo (3 Mt.).
In figura A3, ottenuta dalla due per conversione A=>D, compaiono livelli fra loro non ambigui, differenziati e disgiunti che, proprio in virtù di queste proprietà, possono essere accoppiati biunivocamente con simboli, non ambigui, differenziati e disgiunti. Si sono ottenuti degli “oggetti” nel più’ ampio significato di questo termine; oggetti a cui possiamo, senza equivoci, accoppiare biunivocamente “nomi”. Questo è il salto, l’operazione, che, permettendo di codificare, consente di passare da una rappresentazione a un linguaggio.
Volendo introdurre una sorta di analogia fra il linguaggio e il processo di digitalizzazione, si può verificare come la rappresentazione della fig. A3 rappresenti rispetto a quello di figura A1 una conversione per segmentazione, così come i termini del linguaggio descrivono la realtà segmentandola, mentre la rappresentazione di figura A4 realizza l’assegnazione di un nome agli “oggetti” di fig. A3 mediante codici diversi per oggetti diversi. L’assegnazione dei singoli codici compatibilmente con la grammatica del codice è assolutamente arbitraria. In un certo senso la successione di conversioni da fig. A2 a fig. A3 e a fig. A4 realizza con operazioni successive ciò che, in riferimento al linguaggio, viene indicato come segmentazione dei significati e arbitrarietà dei segni.
Le rappresentazioni A1, A2, A3, A4 rappresentano la realtà? Si può sensatamente parlare di “verità”? E’ difficile dare una risposta positiva. La “porzione di realtà” rappresentata, quella del bacino, è tutt’altra cosa da una lampada che si accende e si spegne. Ma, se la risposta è negativa qual è l’uso e il significato del termine “verità” in relazione alle rappresentazioni di questo tipo?
Riprendiamo in esame i rapporti fra le funzioni A1 e A2, con particolare attenzione a ciò che in proposito ci dice il Tractatus. A2 ci dice, istante per istante, se il livello in questione è superiore o inferiore ai 3 Mt. per cui in ogni istante noi possiamo acquisire le informazioni proposizionali:

1) il livello è inferiore a 3 Mt.

2) il livello è superiore a 3 Mt

3) il livello è uguale a tre metri

Queste proposizioni trasmettono informazioni che potrebbero essere date altrimenti; ad esempio mediante l’accensione di una lampada. In questo caso ad 1), 2), 3) corrispondono rispettivamente le situazioni di:

a) lampada spenta

b) lampada accesa

c) lampada in accensione.

che ci danno le stesse informazioni delle proposizione sopra indicate.
Tutti quelli elencati (le due serie 1, 2, 3- a, b, c, ) rappresentano, secondo il Tractatus, “stati di cose” che, condividendo la forma logica, sono in grado di essere usati per significarsi gli uni con gli altri. Non stupisce quindi che Wittgenstein vedesse in questa “condivisione di forma logica” la ragione per cui si possono trasmettere informazioni utilizzando quei “fatti” particolari che sono le proposizioni.

L’operazione di conversione è funzionale all’informazione richiesta. Il fine proposto (l’identificazione del momento “pericolo”) è stato effettivamente raggiunto. Si è passati da una raffigurazione a una serie di informazioni. Ma cosa si è effettivamente ottenuto? Non avevamo già queste informazioni nella curva A1? Non solo le avevamo, ma passando da A1 ad A4 si sono perse tutte le informazioni con l’eccezione di quella per cui l’operazione è stata condotta. Ma tutto ciò cosa vuol dire? Il punto focale sta proprio nel concetto di fine collegato a quello di informazione. C’è informazione solo quando ci sono differenze discrete[5]. Queste vengono prodotte per realizzare un fine informativo e generano oggetti. Nel senso di questi oggetti entrano la storia della loro generazione, il fine e il loro utilizzo.
Come si è visto per il Tractatus le proposizioni non condizionano il mondo e il mondo rappresentato dalle proposizioni non contiene residui linguistici. Dunque proposizioni da una parte e mondo dall’altra. Comunque la si teorizzi, una concezione raffigurativa deve funzionare come uno specchio, deformante quanto si vuole, della realtà. La raffigurazione di Wittgenstein nel suo mostrare, nel suo essere disinteressata e contemplativa, nella sua impossibilità di dire è straordinariamente simile alla rappresentazione analogica, mentre non si parla di quel rappresentare digitale che sicuramente è in grado di “dire”. Una funzione, quella del “dire” che non può essere ottenuta se non avendo con il mondo, che rappresenta già informato, un rapporto di manipolazione violenta.
Siamo quindi di fronte a due metodi di rappresentare quello analogico-raffigurativo e quello digitale-informativo che sono in grado di illustrare il senso di quell’opposizione DIRE/ MOSTRARE che Wittgenstein introduce nel Tractatus .
Tutte le rappresentazioni analogiche, raffigurando, MOSTRANO e non sono in grado di DIRE: nessuna rappresentazione analogica può dire nulla non solo circa la propria struttura, ma neppure circa quella di una qualsiasi altra rappresentazione analogica o digitale. Le rappresentazioni digitali, informando, possono, al contrario, solo DIRE. E’ bensì vero che qualsiasi rappresentazione digitale o analogica può essere non solo letta, ma anche riprodotta come rappresentazione analogica di se stessa[6], ma ciò non cambia nulla; dipende, infatti, da come la si guarda, poiché nell’attimo stesso in cui la consideriamo come analogica, l’informazione scompare e la notazione perde il suo valore di segno e di simbolo.

Raffiguratività delle proposizioni.

Wittgenstein non fornisce, nel Tractatus una definizione del termine “proposizione” ma le “cose” che considera proposizioni e a cui, conseguentemente, applica la sua analisi sono troppe, troppo diverse e troppo disomogenee fra loro: per il Tractatus sono proposizioni, non solo quelle linguistiche, ma anche gli spartiti, i solchi dei dischi, le fotografie, i quadri e le disposizioni spaziali di tavoli e sedie. Questa disomogeneità è la possibile fonte di fraintendimento fra le proprietà del “dire” e del “mostrare”.
La notazione di uno spartito di un brano musicale avviene con simboli discreti, mentre i solchi di un disco che di quel brano rappresentano la registrazione di una sua esecuzione, costituiscono una rappresentazione analogica; i solchi seguono con continuità, e quindi analogicamente, l’esecuzione che hanno memorizzato, non così le pagine dello spartito. Questa diversità, che non viene registrata nel Tractatus, è chiaramente da addebitarsi a una non riconosciuta distinzione tra il rappresentare ANALOGICO e il rappresentare DIGITALE. Mancando questo riconoscimento Wittgenstein viene indotto a compiere quel madornale errore che consiste nel trasferire al secondo le proprietà del primo.
Le motivazioni che spinsero Wittgenstein verso il modello raffigurativo sono complesse. Wittgenstein detestava non solo la teoria dei tipi, ma in generale tutta la filosofia espressa dai Principia, sovraccarichi di teoria e, nonostante tutta la loro teoria, incapaci di evitare il ricorso al linguaggio comune per puntualizzare, definire e spiegare quella stessa teoria. Lo scopo del Tractatus si definisce anche e soprattutto in funzione di una revisione della Logica che non abbia bisogno che un’altra teoria che la spieghi e di ulteriori teorie che giustifichino quella teoria. Per ottenere questo risultato è necessario che la logica “mostri se stessa” Quando Wittgenstein scoprì le proprietà analogiche della raffigurazione, la sua capacità di “mostrare” e di non “dire”, dovette pensare di aver scovato il suo uovo di Colombo, perfettamente funzionale ai suoi scopi; non solo, come per incanto, spariva la necessità di ogni teoria di ordini e di tipi, ma anche tutto quell’assurdo proliferare, in orizzontale e in verticale, di teorie, di teorie sulle teorie ecc. Disgraziatamente questa proprietà di poter “mostrare “ e di non poter “dire” può essere sensatamente affermata solo in riferimento alle rappresentazioni analogiche o a quanto di analogico vi sia in quelle ibride, ma non in riferimento ad altri tipi di rappresentazioni. Sfugge a Wittgenstein la differenza tra linguaggio e rappresentazione e, in particolare, sfugge quel concetto di differenza informativa discriminante tra una rappresentazione analogica e un sistema informativo.

Oggetti e fatti

Il concetto di differenza discreta è connaturato al processo di conversione A=>D poiché nasce da un qualche tipo di conversione A=>D e dal processo di codifica.
I “fatti”, gli “oggetti” di cui parla Wittgenstein non sono “realtà”, ma costruzioni digitali, manipolazioni di realtà. Il problema del rapporto di verità diviene non un problema di relazione fra linguaggio e mondo ma quello fra il linguaggio e l’insieme dei “fatti” di un mondo che è già digitalizzato, che è già un linguaggio. In sostanza il Tractatus confonde non solo fra rappresentazione analogica e rappresentazione digitale, ma anche fra verità e informazione.
Wittgenstein aveva certamente ragione nel dichiarare che la proposizione “La lampada rossa si è accesa” può significare il fatto che il livello ha superato i tre Mt. e aveva pure ragione nell’individuare nell’identità delle “forme logiche” la condizione per cui ciò può accadere, ma questo non vuol dire che avesse centrato il problema. L’errore di Wittgenstein sta nel trarre conclusioni da forme già manipolate, quando i giochi sono già fatti. Modella il mondo sul linguaggio e con ciò lo dota di oggetti e relazioni di oggetti, per poi scoprire che il linguaggio ha la stessa struttura del mondo. Il mondo di Wittgenstein, quello del Tractatus, nel suo essere un mondo” di oggetti “e di “fatti”, è un linguaggio.
Proposizioni come quelle che esprimono l’essere del livello sopra i tre metri, l’essere accesa della lampada o le corrispettive proposizioni linguistiche sono già digitalizzate e hanno una ugual struttura solo perché ottenute mediante le stesse procedure; sono, in sostanza, valori della stessa funzione calcolate in corrispondenza di uguali valori delle variabili indipendenti. Non stupisce il fatto che abbiano la stessa forma logica, stupirebbe casomai il contrario.
Il problema non sta nel rapporto di queste proposizioni fra loro, ma nel rapporto ben più problematico fra queste e la rappresentazione di fig. A1 o, meglio, fra queste e la porzione di mondo di cui A1 è già il valore di una funzione. In nessun modo si può dire che A1 è l’accensione e lo spegnimento di una lampada hanno la stessa forma logica nel senso inteso dal Tractatus, semplicemente perché A1, come rappresentazione analogica, non possiede nessuna forma logica. Wittgenstein partiva già da “cose” in connessione con “cose” rappresentabili da “nomi di cose” in connessione con “nomi di cose”. Saltava, per così dire, il primo passaggio. Il suo mondo metafisicamente nasce già digitale (almeno per quanto riguarda gli oggetti) ed è ovvio che le condizioni di rappresentazione siano digitali. Il “mondo” del Tractatus è già un modello di mondo, un modello di mondo di oggetti predisposto per essere rappresentato in un linguaggio di nomi, ma il mondo delle cose, degli oggetti e degli stati di cose non è altro che il nostro mondo assimilato al linguaggio, ossia un linguaggio.

Oggetti

Se si è compreso l’esempio fatto in precedenza, non può essere sfuggito come la genesi dell’oggetto avvenga nel suo essere oggetto in generale e quell’oggetto in particolare, anche nelle sue connessioni con altri oggetti, sotto delle condizioni imposte dal fine, dallo scopo, dall’utilizzabilità dell’oggetto stesso. Questo fatto, come si vedrà, è del tutto generale. Il mondo degli oggetti e dei fatti, che tanto spontaneamente consideriamo il mondo “oggettivo” e reale è in realtà già una funzione di mondo. Non è un mondo falso, ma è un mondo generato attraverso una procedura, una chiave attraverso cui utilizziamo il mondo o, meglio, “viviamo” il mondo.
Gli oggetti sono chiavi (non le uniche) di accesso al mondo. Lo si comprende chiaramente dalla genesi degli oggetti e da quelle finalità che condizionano il loro nascere, il loro “come-nascere” e il loro significato. Le finalità, gli utilizzi degli oggetti non sono cose che si ritrovano osservando come vengono utilizzati, ma sono essenziali significazioni che hanno condizionato e condizionano il loro essere come sono. In effetti, noi produciamo valori di funzioni secondo procedure che nello stesso tempo sono chiavi che producono il mondo e forniscono queste chiavi.
Quando parliamo del concetto di “verità'” come “corrispondenza” in realtà o riconfermiamo uno schema di produzione o affermiamo questo schema nel senso che affermiamo che ciò che dichiariamo “vero” è stato ottenuto con una corretta applicazione di quello schema. Non è falso, in se stesso, parlare di verità come corrispondenza, ma è falso parlarne in assoluto come unico accesso al mondo. E’ come se, per esplorare il mondo, noi lo adeguassimo ai nostri strumenti di misura e nello stesso tempo, da quel lavoro uscissero quegli strumenti che si rivelano poi adatti al nostro lavoro. Il concetto di “verità” come “corrispondenza” non è dunque di per se erroneo, ma è parte di una procedura; ci da non “l’accesso al mondo”, ma un accesso a un mondo. Lo dà in maniera tale che il mondo, a cui si perviene e che ci viene aperto, non è il mondo ma una funzione di quel mondo. Conquistiamo le informazioni, ma perdiamo il mondo. [7]
Si ritorna, in sostanza, al problema dei rapporti tra verità e informazione su cui possiamo già esprimere qualche considerazione. Intanto si può affermare che rappresentazioni come A1 e A2 possono essere codificare mentre con A questa operazione non è possibile. Il presupposto di questa possibilità è l’esistenza di “oggetti” dove questo termine ha un significato tecnico e procedurale. La nascita di questi enti chiamati “oggetti” è dovuta alla creazione di differenze discrete. Una possibile costruzione di queste differenze, come si è visto, non comporta il ritrovamento di entità ontologiche, ma è il risultato di procedure operative e di decisioni. La conversione A=>D inizia proprio con questo atto di violenza sul mondo; violenza con la quale si interviene sul mondo mappandolo, piegandolo a essere un mondo d’informazione e di differenze che si ottengono decidendo, nella segmentazione funzionale, di CONSIDERARE UGUALE CIO’ CHE E’ DIVERSO. A tutti gli effetti questa è un’operazione di assimilazione che rende simile il dissimile e uguale il diverso. La formazione dei termini universali, quali “uomini”, “bianchi”, “neri”, il cui radunare sotto un unico simbolo individui profondamente diversi, ha spesso scandalizzato i filosofi, trova origine proprio in questa operazione di assimilazione violenta, il cui presupposto e’ la formazione stesse di quelle differenze che sono le basi strutturali del linguaggio informativo. Senza di questa “assimilazione” violenta che è una vera digestione in senso aristotelico, non nasce né informazione né linguaggio inteso come linguaggio di verità e corrispondenza.

Le operazioni di produzione del mondo degli oggetti e dei fatti (che non sono solo del tipo A=>D) non sono descrizioni di un mondo che ci sta dinanzi, ma operazioni e decisioni di trasformazione del mondo in un mondo assimilato e utilizzabile. Su questi progetti di vita, che, come si vedrà, sono volontari solo in apparenza[8], si determinano le formazioni delle differenze che ci danno le informazioni possibili e, con esse, la semantica di quel simulacro di mondo che, solo così, si presenta adeguato alle sue descrizioni. Il mondo delle informazioni che si lascia descrivere dal linguaggio informativo è proprio quello già segmentato e violentato in “oggetti” e “fatti”. Non l’essere o l’analogon, ma il complesso dei valori delle funzioni tutto-niente che forzano il diverso a presentarsi uguale.

Una rappresentazione puramente analogica non esiste. In precedenza si è detto che una rappresentazione come quella della fig. A1 sotto riprodotta, purché depurata di ogni riferimento metrico, poteva essere considerata analogica, ma ciò è solo parzialmente vero.

In effetti, essa è tale come esito dell’azione di un trasduttore che, galleggiando, pilota un pennino scrivente su un rullo in rotazione uniforme.[9]
Ciononostante una simile traccia non può essere considerata una rappresentazione analogica di quel fenomeno reale e complesso per cui “in un certo, definito e reale bacino entra e defluisce un liquido”: è qualcosa in più e qualcosa in meno del fenomeno che rappresenta.

Il fenomeno “Bacino che viene alimentato e da cui fuoriesce liquido” è un fenomeno complesso che comprende il tipo di liquido, le impurità, la temperatura, il clima, i pesci, le sponde ecc. Quando noi riduciamo la globalità del fenomeno al più ristretto “Andamento nel tempo del livello del fluido nel bacino” è come se chiudessimo gli occhi di fronte a tutto il fenomeno e lo osservassimo riducendo i nostri sensi al solo “occhio” del misuratore di livello.
Questo “chiudere gli occhi” è in realtà un’operazione di conversione A=> D; in particolare è quel tipo di operazione tutto-niente che agisce come un interruttore la cui funzione è bloccare (assegnare il valore 0) a tutto ciò che non è livello. Il trasduttore che converte il livello in spostamento del pennino. È cieco, sordo, e insensibile a tutto eccetto che al livello del liquido. La curva A1 è dunque già il prodotto di una conversione A=>D. [10]
La conclusione è che non si riesce a rappresentare se non funzionalizzando in senso digitale e che, in contrapposizione, radicandosi il senso dell’oggetto nella storia della sua genesi, questo in qualche maniera non può non comprendere un residuo analogico.
Il mondo degli oggetti e dei fatti e il linguaggio dei nomi e delle proposizioni si assimilano nel convergere in una struttura di “linguaggio-mondo” che è già preteoria. Il mondo, così come si presenta, strutturato per essere descritto dal nostro linguaggio, è già contaminato, assimilato a quel complesso d’usi e di utilizzi che ci consentono di vivere in esso.
Dire che il mondo degli oggetti e dei fatti è preteoria significa che esso già ci orienta verso teorie e credenze entro le quali esprimiamo le teorie. La differenza fra teoria e preteoria è a questo punto di comodo, ma anche se difficile da definire, corrisponde a differenti livelli di assestamento e d’equilibrio; ma questa è solo un’anticipazione indebita. Essa trova una sua giustificazione nella differenza di consolidamento, nel numero e tipo di vincoli che vengono imposti e, correlativamente, nell’entità dei tipi di gradi di libertà. Il complesso delle anticipazioni teoriche, delle loro correlazioni, dei vincoli e dei gradi di libertà costituiscono una rete di concettualità largamente sovradimensionata rispetto alla “realtà” a cui si richiamano.

Con questa constatazione siamo già di fronte al problema della determinazione della concettualità organizzata nel nostro sapere linguistico e preteorico, termini, questi, da tenere distinti e da intendere come una pluralità: non è assolutamente detto che ciò che intendiamo come sapere primitivo, teorico costituisca un unico paradigma e che questo unico paradigma sia depositato nel linguaggio. In ogni caso i linguaggi sono già preteorie in cui trovano posto, sintatticamente e semanticamente, alcune possibilità di codifica di differenze finite e alcune correlazioni fra queste differenze, mentre altre non possono essere correttamente espresse. Di fatto questa preteoria funge da schema per informare su mondi possibili e nello stesso tempo vieta la possibilità di esprimerne altri poiché se il linguaggio è preteoria deve porre dei vincoli alle teorie che con essa possono essere espresse o dichiarate, limitando il campo del teorizzabile.
Il fatto che il linguaggio sia sovra determinato rispetto al mondo è perfettamente compatibile con il suo essere preteoria. Già fin dal 1929[11] Ramsey giunse alla conclusione che la sovra determinazione delle teorie è condizione necessaria alle stesse teorie per essere “utili” come teorie, capaci di espressione, di evoluzione e di crescita. Le stesse conclusioni a maggior ragione valgono per quella preteoria che è il linguaggio in rapporto alla sua capacità di esprimere teorie.

IL LINGUAGGIO COME MODELLO

Enunciati predicativi

Se il linguaggio è preteoria, in esso e nella sua organizzazione si dovranno ritrovare le proprietà già individuate nelle teorie. Questo dovrà valere anche per le singole proposizioni linguistiche che sono unità organizzate di senso. Lo scopo è ora l’individuazione di queste caratteristiche a cominciare dagli enunciati predicativi.
Se teorie e modelli sono interpretabili secondo una forma F(A)= b dove F è un segno di funzione e A un segno di oggetto e, se gli enunciati sono modelli, essi devono dimostrarsi modelli informativi.
L’analisi dovrà evidenziare questa forma, ma anche il suo carattere informativo; dovrà, in altre parole, rispondere alle domande: come comprendiamo un enunciato? Come comprendiamo l’informazione?

Se ci chiediamo come avvenga l’informazione nell’enunciato predicativo non possiamo che rispondere che essa avviene mediante l’attribuzione di un predicato (fra i vari possibili) a un individuo. Se, poi, ci chiediamo come avvenga questa attribuzione, dobbiamo rispondere che il veicolo logico attraverso cui avviene è, sì, il verbo ESSERE, ma nel suo significato speciale di ESSERE predicativo. Ossia abbiamo bisogno del verbo ESSERE per definire la predicazione, ma dobbiamo subito aggiungere che è un ESSERE speciale usato unicamente per la predicazione.
Tutto ciò è un circolo vizioso. Non lo sarebbe unicamente nel caso in cui il verbo ESSERE avesse un significato univoco nei vari contesti ma pare che non sia così; pare, proprio che non si possa evitare che questo verbo compaia nell’enunciato predicativo con quel suo significato peculiare, che assolve, appunto, la funzione predicativa.
Del resto Frege, Russell e, sulle loro orme, il Wittgenstein del Tractatus distinguono fra:

1) ESSERE come identità,

2) ESSERE come predicazione,

3) ESSERE come esistenza (usato normalmente in maniera erronea.)

mettendoci in guardia contro gli errori di analisi in cui si incorre confondendo i diversi significati.
Stando così le cose si avrà un’operazione logica primitiva (la predicazione) e un senso specifico e logicamente distinto del verbo ESSERE (quello predicativo) senza che con questo si possa comprendere le modalità con cui un simile enunciato possa dare informazione.
Una possibile via d’uscita da questo vicolo potrebbe essere quella di interpretare il segno “E’“ predicativo come un segno di uguaglianza; se, infatti, l’enunciato predicativo potesse essere interpretato come un’asserzione d’uguaglianza non avremmo bisogno di un significato speciale del verbo “essere” per la predicazione, poiché nell’enunciato predicativo si verrebbe a asserire l’identità tra due termini. Ma come è possibile l’identità tra individui e predicati che sono termini categorialmente disomogenei?

Precedenti storici.

Gli enunciati sia relazionali che predicativi sconcertavano il filosofo Bradley tanto che, dalla loro analisi riuscì a trarre forti argomenti per affermare l’intrinseca contraddittorietà delle conoscenze particolari. Bradley giudicava inesplicabile la predicazione; da una parte, se la si considera un’asserzione d’identità, essa diviene fonte di contraddizioni, perché dichiara che sono uguali cose diverse e dall’altra, ancor più incredibilmente, si afferma che la predicazione si riduce all’incollaggio di un predicato a un soggetto. Insomma, secondo Bradley, tutto questo rigirarsi fra ciò che è differente per ridurlo all’unità o è banale asserzione tautologica, oppure è solo un arbitrario tentativo di mettere insieme ciò che col linguaggio abbiamo diviso.
In fondo Bradley non asseriva nulla di nuovo. In un diverso contesto (metafisica dell’essere) lo stesso problema compare già in Parmenide. Successivamente filosofi Cinici e filosofi Megarici misero in evidenza le difficoltà di un’interpretazione dell’enunciato predicativo come asserzione d’identità, dandone versioni paradossali.

La proposizione:

“IL CAVALLO CORRE VELOCEMENTE” ossia IL CAVALLO E’ CORRIDORE,

è uno degli esempi proposti dal megarico Stilpone per illustrare il paradosso. Se, infatti, interpretiamo quell’“E’“ come un “uguale” allora l’enunciato diviene:

CAVALLO = CORRIDORE,

ma, poiché anche il cane è corridore, si ha:

CANE = CORRIDORE

da cui transitivamente:

CANE = CAVALLO.

Quello di Stilpone non è l’unico paradosso. La scuola cinica ce ne ha tramandato altri. Siamo ancora in presenza di un enunciato predicativo qualsiasi del tipo:

L’UOMO E’ BUONO

da cui si ricava che l’uomo è uno perché è uomo, ma è anche due perché è contemporaneamente sia uomo che buono.
Una teoria che interpreta la predicazione come asserzione d’identità deve ovviamente superare paradossi di questo tipo.
Aristotele nella sua metafisica distingue fra un significato forte dell’essere (della sostanza) e un significato debole (dell’accidente). Anche se questa distinzione non coincide con quella tra predicato ed individuo, introduce, di fatto, l’impossibilità d’identità fra essi. Se l’identità fra predicato e individuo è categorialmente impossibile, l’enunciato predicativo non può essere un’asserzione d’identità.
Duns Scoto sostenne l’univocità dell’essere e non sorprende che, accanto ad altri argomenti, proponga a sostegno della tesi l’analisi dell’enunciato predicativo, i cui componenti (soggetto e predicato) devono essere, secondo Duns Scoto, omogenei (come essere) per poter esprimere un senso. E’ chiaro che, sostenendo questa tesi, Duns Scoto presupponeva un’interpretazione della predicazione come identità.
Dal punto di vista grammaticale entrambe le tesi paiono esprimere esigenze reali, ma, in realtà, il problema non sta nell’univocità assoluta dell’essere o nella sua pluralità assoluta. Se consideriamo i due enunciati:

1) SOCRATE (A) E’ GRECO (B)

2) L’AUTORE DI X (C) E’ L’AUTORE DI Y (D)

Duns Scoto avrebbe affermato l’univocità dell’essere di A, B, C, D, mentre Aristotele avrebbe negato quella fra A e B.
In sostanza Aristotele nega l’univocità dell’essere anche all’interno dello stesso enunciato, Duns Scoto, al contrario, l’afferma in riferimento a ogni enunciato. E’ però evidente che fra queste posizioni estreme possa esserci la posizione intermedia che afferma l’univocità all’interno del singolo enunciato e la pluralità fra enunciati diversi ed è proprio questa la via che consente di uscire dai paradossi.

Usciamo dal linguaggio corrente e consideriamo il linguaggio delle proiezioni ortogonali. In questo linguaggio (che non un linguaggio ma solo un sistema informativo perché non riesce a parlare di se stesso) noi eseguiamo operazioni di proiezione con le quali, per esempio, riusciamo a trasferire su più piani bidimensionali e mediante figure bidimensionali le stesse informazioni a noi accessibili in uno spazio tridimensionale.

Anche chi ha minime cognizioni del disegno tecnico, non ignora che è possibile rappresentare un parallelepipedo mediante due proiezioni su due piani (preferibilmente ortogonali); due proiezioni ortogonali individuano un cubo mediante due quadrati e, da questi due quadrati, possiamo ottenere tutte le informazioni geometrico-dimensionali riguardanti il cubo originario.

Quando vogliamo tradurre in lingua italiana le informazioni relative a una di queste operazioni e leggere una delle proiezioni, non diciamo:

IL CUBO E’ UN QUADRATO

anche se, effettivamente, siamo proprio di fronte a un quadrato che sta per un cubo, perché sarebbe come affermare che una figura a tre dimensioni è uguale a una figura a due dimensioni. Diciamo invece:

LA PROIEZIONE DI UN CUBO E’ UN QUADRATO

Dove il termine LA PROIEZIONE non è un abbellimento stilistico o un’inutile precisazione, ma è un segno di funzione; più precisamente di una funzione che riassume tutte le operazioni codificate e normalizzate che consentono di ottenere da un cubo nello spazio a tre dimensioni un quadrato in uno spazio a due dimensioni.
L’espressione LA PROIEZIONE DI UN CUBO è l’applicazione della funzione PROIEZIONE all’oggetto CUBO, applicazione che genera come valore la figura piana: LA PROIEZIONE DI UN CUBO; è in quest’ottica che possiamo interpretare quell’“è” come un segno d’identità e considerare l’enunciato come un’asserzione d’identità del tipo:

PROIEZIONE DEL CUBO = QUADRATO

Nello stesso senso si può analizzare l’enunciato SOCRATE È GRECO. GRECO sarebbe, così, interpretabile come il valore di una funzione applicata all’individuo SOCRATE; una metaforica “proiezione” dell’individuo SOCRATE sul piano della NAZIONALITA’. In tal caso LA NAZIONALITA’ diverrebbe la funzione che applicata all’individuo SOCRATE genera il predicato GRECO.
Con questa interpretazione LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE apparterrebbe alla categoria logico-grammaticale del predicato e diventerebbe sensato asserire l’identità:

LA NAZIONALITA’ di SOCRATE = GRECA

senza incorrere nei paradossi cinici e megarici e evitando la necessità di un significato speciale del verbo “essere” come predicazione.
Il paradosso di Stilpone sparisce se esso viene riscritto come:

F(CAVALLO) = CORRIDORE

dove F è difficilmente esprimibile con un termine in lingua italiana, perché non esiste un termine che indichi la capacità di percorrere terreno più o meno velocemente. Quasi adatta sarebbe la funzione “L’andatura da”, ma il trovare o il non trovare questo termine non pregiudica l’interpretazione. Anche:

SOCRATE E’ GRECO e PLATONE E’ GRECO

se interpretati come asserzioni d’identità avrebbero generato l’enunciato paradossale:

SOCRATE E’ PLATONE

Nessun paradosso genera invece l’enunciato:

LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE = GRECA

con:

LA NAZIONALITA’ DI PLATONE = GRECA

se non l’ovvia conseguenza che:

LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE = LA NAZIONALITA’ DI PLATONE

Quanto al secondo paradosso anche se SOCRATE e GRECO sono

uno e due, non così LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE e GRECO.

6. Questa interpretazione permette di evidenziare meglio gli aspetti dell’enunciato come calcolo semantico. Quando noi applichiamo la funzione NAZIONALITA’ all’individuo SOCRATE, in effetti, applichiamo una procedura di calcolo. Non interessa se questo calcolo sia aritmetico o consista nella consultazione di un’enciclopedia, o in un accertamento empirico o in qualcos’altro ancora; l’importante è che si possa eseguire una procedura che permette di decidere. Non abbiamo bisogno di tutto l’enunciato LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE E’ GRECA per decidere; in effetti, ci basta LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE per eseguire il calcolo è concludere, ottenendo il valore GRECO come risultato. Quando decidiamo sulla verità o sulla falsità dell’enunciato, in effetti, l’individuo Socrate non compare più; l’enunciato si riduce a una delle possibili uguaglianze di tipo a) o di tipo b):

a) GRECO = GRECO ,

b) GRECO = TURCO

A fronte delle quali si effettuare una constatazione, che non può essere che di verità per il primo e di falsità per il secondo considerando poi che dati a) e b) non può essere che sintattica e formale, essendo già stato definito, l’accertamento semantico.

Se indichiamo gli individui con lettere maiuscole A, B, C, i predicati con le lettere minuscole a, b, c, i termini astratti con segni di funzione F, G, H, avremo i possibili enunciati non relazionali:

1) F(A)= b

2) A = B

che ben mettono in evidenza:

a) come sia necessaria l’univocità dell’essere all’interno di ogni enunciato (Duns Scoto),

b) come questa univocità non possa essere estesa a tutti gli enunciati (Aristotele)

c) come con questa interpretazione l’enunciato predicativo sia un’asserzione d’identità e come, non rendendo necessario un uso speciale del verbo essere e dando un ben preciso significato ai termini astratti (di collocazione sempre difficile), quali la NAZIONALITA’, il COLORE, ecc. si abbia una teoria che funziona.
Alcune delle conseguenze di questa teoria verranno esaminate in seguito, ma almeno si evidenzia immediatamente e si riconferma che il linguaggio non è passivo rispecchiamento ma attività sul mondo. Noi c’impadroniamo mediante funzioni degli oggetti e ne ricaviamo predicati, assimilando così fra loro due diverse categorie semantiche e grammaticali.

5 pensieri su “Paradigma gerarchico – prima parte

  1. devo dire che questo articolo è molto stimolante ed infatti l’ho linkato sul mio sito. Noto tuttavia che manca di riferimenti bibliografici e che il minimo indispensabile potrebbe essere Ludovico Geymonat e la sua critica alla fenomenologia di Husserl in quanto pre-categoriale. Se mancano questi riferimenti, sembra che il pensiero dell’autore sorga dal nulla o sia il risultato di una “illuminazione” 🙂

    • Il mio pensiero non nasce dal nulla ma da una preparazione inconsueta; non ho, infatti, frequentato la facoltà di Filosofia ma il Politecnico da cui ho stimoli molto diversi rispetto a quelli che avrei ricevuto con un corso di studi regolarmente filosofico. Concettualità analogico-digitale, opposizione calcolo/simulazione, macchine a retroazione, transitori, logica analogica, logica digitale, infinitesimi, analisi, logica combinatoria, logica sequenziale, memorie elementari, antinomie sono solo alcuni fra i molti temi che, trattatati e approfonditi al Politecnico, risultano per così dire tangenti a temi e problemi tipicamente filosofici.
      Il testo pubblicato su Filosofi precari è la prima parte di un saggio composto di tre parti. La prima tratta il paradigma gerarchico, la seconda il paradigma circolare la terza quella di destinale.
      Il primo è trattato avendo come base le opposizioni raffigurare/ agire di un soggetto su un oggetto e quella analogico/digitale. Il secondo è essenzialmente uno studio della logica delle macchine a retroazione digitali e analogiche per cercare di comprendere dove e come il paradigma circolare riesca a sostituire quello gerarchico quando questo fallisce o si dimostra impotente. Il terzo studia il paradigma destinale orientandosi soprattutto sugli studi di Maturana e Varela.
      I filosofi su cui più ho meditato sono Cassirer, Russell, Frege, Wittgenstein. Ma anche Ramsey, Maturana, Varela. Meno quei filosofi oggi classificati come continentali che conosco soprattutto come volontari argomenti di studio quando, con calma, mi sono laureato in Lettere e filosofia alla tenera età di quasi 50 anni nel 1995. Prima, durante e dopo quella data mi sono sempre dedicato con passione alla letteratura e alla filosofia, rubando tempo al lavoro, studiando e scrivendo più di tremila pagine (metà filosofia e metà romanzi) senza mai assolutamente copiare nulla da alcunO.

      Non conosco Geymonat se non come autore del manuale di filosofia per licei e, in parte, della più ampia Storia Della Filosofia pubblicata con Laterza e da me acquistata usata in bancherella.
      Il mio pensiero si basa soprattutto sia per quanto riguarda la filosofia teoretica, che quella estetica che quella politica sul concetto di frattalità dell’assimilazione. Un concetto lontanissimo da quel razionalismo marxista non solo storico ma anche dialettico che caratterizza la sua Storia della Filosofia. Di filosofi italiani ho letto tre annate di Filosofia a cura di Gianni Vattimo, Tempo e relazione di Enzo Paci e L’analogia di Melandri.
      Chiudo qua perché vado di fretta. La ringrazio sia per la lettura che per il commento. Sarò felice se vorrà continuare la reciproca conoscenza.
      Distinti saluti.
      Ezio Saia

  2. Qualche problema per accettare una simile analisi fra identità e predicazione c’è. OTTIMA l’analisi della teoria raffiguratava. Ottima e assolutamente nuova. Tutto dipende da come prosegue la trattazione. se NON SBAGLIO TUTTO è IMPOSTATO SUL PARADIGMA DELL’ASSIMILAZIONE. Hai intenzione di continuare?
    Laura Vinci

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