Jean Paul Sartre, Orfeo Negro. A cura di Elisa Scirocchi

“La libertà è del color della notte”

Un fotogramma del film "Black Orpheus" (1959) del regista Marcel Camus

1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
(Articolo n°2, Dichiarazione universale dei diritti umani)

Se ci si addentra nel mondo dei miti lontani, dedicati alla creazione dell’uomo, si potrà notare come tra le differenti culture ci siano dei punti comuni. Che sia fatto di fango con l’aggiunta della saliva del dio creatore, o di un semplice impasto di farina e acqua, la tradizione vuole che l’uomo sia stato impastato e plasmato dalle mani stesse del dio e poi cotto, o sotto il sole cocente, o all’interno di un forno. Sprovvisto però di timer il Dio/Demiurgo/Creatore/Apprendista cuoco fu costretto a cuocere più volte la sua creatura ricavando ogni volta un risultato differente. Poco cotto, quasi bruciato, o di media cottura. Interessante è notare come ognuna delle etnie personalizzi il mito considerando come perfettamente riuscita solo la cottura dell’uomo cui appartiene. L’uomo, dunque, appare da sempre artefice di una palese e dichiarata forma di apologia del proprio colore della pelle. In passato, e inspiegabilmente ancora oggi, proprio quel diverso colore di pelle ci ha reso dimentichi di appartenere allo stesso grande insieme, l’umanità, e di essere uomini di diversi colori, idiomi, culture, e tradizioni, ma pur sempre uomini allo stesso modo (finito) di essere al mondo.

 Nel 1948, anno in cui fu firmata a Parigi la Dichiarazione universale dei diritti umani, Jean Paul Sartre pubblica un interessante testo dal titolo “Che cos’è la letteratura?” all’interno del quale inserisce un capitolo, quasi a sé stante, intitolato “Orfeo Negro”. Queste pagine sono state scritte e pensate come prefazione a una raccolta di poesie africane, scritte da poeti come Aimé Cesaire e Léopold Sédar Senghor. Come in ogni poesia il messaggio trapassa le parole in modo rapido e violento e raggiunge l’anima di chi ascolta, e il significato si trasmette direttamente per via emotiva dall’autore al lettore, così la voce dell’uomo nero passa attraverso la sua poesia che rappresenta quella forza immediata in grado di rivoluzionare il senso delle parole, l’immagine stessa del mondo.

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Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, una recensione

Pitture rupestri nella Cueva de las Manos, Argentina

L’antropologo André Leroi-Gourhan, nel suo studio intitolato “Il gesto e la parola” (Vol. I, ed. originale 1964), affronta la complessa e delicata tematica dell’ominizzazione e dei suoi legami con la tecnica e con il linguaggio, argomento sviluppato e trattato per interessantissimi e stimolanti quindici capitoli. Il suo studio è diventato col passare del tempo un classico irrinunciabile dell’antropologia, da cui sono partiti nuovi studi e nuove tendenze scientifiche che tutt’ora sono dominanti e hanno svecchiato discipline quali la linguistica, la sociologia e l’antropologia fisica e culturale, la paleoantropologia. Indubbie le ripercussioni sull’attuale dibattito dell’antropologia filosofica. Per affrontare e introdurre il tema dell’opera, è opportuno citare una straordinaria intuizione di Gregorio di Nissa [1], ripresa per l’appunto dal nostro autore:

 Così, grazie a questa organizzazione, la mente, come un musico, produce in noi il linguaggio e noi diventiamo capaci di parlare. Non avremmo certo mai goduto di questo privilegio, se le nostre labbra avessero dovuto assolvere, per i bisogni del corpo, il compito pesante e faticoso del nutrimento. Ma le mani si sono assunte questo compito e hanno lasciata libera la bocca perché provvedesse alla parola.

Parola chiave dei primi capitoli dell’opera di Gourhan è il termine “liberazione”. L’autore confuta dapprincipio la credenza nell’antenato mitico scimmiesco e riconduce il progenitore umano ad un “arcantropo” la cui prerogativa principale è la statura eretta. Tale caratteristica “libera” per l’appunto gli arti anteriori, nella fattispecie le mani, che diventano il principale strumento di ibridazione tecnica umana. Inoltre: l’autore critica la convinzione della paleoantropologia classica, anteriore agli anni cinquanta, secondo la quale la causa primaria dell’ominizzazione sia il volume cranico. Gourhan mostra invece che è la stazione eretta a modificare, mediante un complicato legame fisiologico e funzionale con la faccia (sbarramento frontale, mandibola e mascella) e con l’arto inferiore, il volume cranico. E’ dunque questo complesso a condizionare il volume cranico, e non il contrario. Le condizioni dell’uomo nella statura verticale provocano conseguenze di sviluppo neuropsichico che fanno dello sviluppo del cervello umano qualcosa di diverso dall’aumento del volume. Il rapporto tra viso e mano (visto dall’autore nella sua graduale trasformazione dalla forma di pinna) continua a rimanere stretto: utensile per la mano e linguaggio per la faccia sono i due poli di uno stesso dispositivo evolutivo. La tecnica, da un certo punto di vista, si è incarnata nella nostra ereditarietà genetica.

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Da Gezi Park ad Ankara: diario di una protesta

Ankara, moschea di Kocatepe: rondini ed elicotteri

 

Questo articolo è appena stato scritto da una nostra collega in Turchia, che ha scelto di rimanere anonima. A. è da almeno dieci anni in viaggio fra i paesi di cultura islamica mediorientali sia per studio che per lavoro. Nel suo attuale contratto di lavoro, A. ha perfino dovuto firmare che non parteciperà a manifestazioni e che non scriverà niente contro il Governo turco, pena l’espulsione. Sembra che le proteste continueranno, A. ci terrà aggiornati su quello che succede. La foto allegata, altamente eloquente, è stata scattata da A.
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Tutto ha avuto inizio il 28 maggio a Gezi Park, nei pressi di piazza Taksim nella parte europea di Istanbul. Circa 50 ambientalisti si erano accampati nel parco per opporsi all’abbattimento di 600 alberi per dar luogo alla costruzione di un centro commerciale e il restauro di una antica caserma ottomana. Il sit-in pacifico degli ambientalisti ha dato luogo a manifestazioni anti-governative in seguito al brutale intervento della polizia per sgomberare il parco e dare il via ai lavori. Nelle giornate successive sempre più manifestanti sono scesi in piazza Taksim, piazza simbolo della Turchia moderna e laica, sede del Monumento alla Repubblica. La polizia ha risposto con un uso spropositato di lacrimogeni, cannoni ad acqua e sostanze urticanti. Il Premier Erdoğan aveva dichiarato che non avrebbe fatto marcia indietro. A sostenere i manifestanti sono scesi in piazza Süreyya Önder, deputato del partito filocurdo BDP, rimasto ferito dal lancio dei lacrimogeni, e membri del CHP, principale partito di opposizione.

Sabato 1 giugno le proteste si sono diffuse anche nella capitale Ankara. Spesso ho assistito ad Ankara a manifestazioni in cui contro un numero esiguo di manifestanti interveniva un numero esagerato di poliziotti. Da subito era evidente che non mi trovavo davanti ad una manifestazione ordinaria. La polizia ha fatto abbondante uso di gas al peperoncino e lacrimogeni. In centro l’aria era irrespirabile, gli occhi lacrimavano e bruciavano. Alcuni manifestanti indossavano mascherine, altri cercavano di proteggersi con sciarpe. Quello che mi ha colpito durante le proteste è stato il forte senso di solidarietà. Alcuni alberghi offrivano rifugio alla gente, c’erano camerieri che distribuivano fette di limone per alleviare il bruciore dovuto al gas. Tra i manifestanti c’erano studenti degli ultimi anni di medicina, medici, pronti a prestare assistenza in caso di bisogno. Nel tardo pomeriggio in piazza c’erano solo i manifestanti, gli scontri con la polizia sono proseguiti in tarda serata.

La sera in diversi quartieri della città la gente si è riversata in strada, armata di pentole e cucchiai, sventolando la bandiera turca, innalzando cartelli del fondatore della patria Atatürk, gridando: “Tayip istifa“, “Tayip, dimettiti”. Gli automobilisti, i dolmuş, i taxi, suonavano i clacson. Le proteste sono proseguite anche domenica 2 giugno. Lo scenario era lo stesso: scontri in piazza Kızılay – che ormai ironicamente chiamano piazza Gazılay – e la sera per la strada il concerto delle pentole.

Lunedì 3 giugno la mattina il centro di Ankara era silenzioso, poco animato, insolito. Per strada si potevano vedere i vetri infranti dei cartelli pubblicitari, delle transenne e delle fermate degli autobus. Passeggiando per il centro della città si possono vedere crepe sulle vetrate di alcune banche , sportelli bancomat e le vetrine di alcuni negozi . Le proteste sono riprese verso il tardo pomeriggio, quando la gente usciva dal lavoro. La sera la gente si riversava per le starde dando il via all’ormai consueto concerto delle pentole e dei clacson.

Mercoledì 5 giugno è stato convocato uno sciopero da parte dei sindacati KESK e DISK . I manifestanti hanno cominciato a radunarsi in tarda mattinata. Piazza KIzIlay era un trionfo di colori, di bandiere, di slogan. Lo manifestazione si è svolta per buona parte della giornata in maniera pacifica. In piazza KizIlay c’era un clima di festa. I manifestanti cantavano e ballavano. Tra la folla non mancavano i venditori ambulanti di mascherine e occhialini per proteggersi dal gas. C’erano anche banctahetti di generi alimentari. Tra i manifestanti c’erano giovani, adulti, anziani cresciuti seguendo il modello del laicismo proposto da Atatürk. I manifestanti rappresentano la parte della popolazione turca che si oppone alle sempre maggiori restrizioni di quello che molti ironicamente e dispregiativamente chiamano il “Sultano”.

Uno dei provvedimenti approvati dal Parlamento di Ankara impone il divieto della vendita di alcolici nei negozi dopo le 10 di sera. Per sfidare le restrizioni imposte dal “”Sultano” non mancavano venditori di birra. Il clima di festa è stato interroto alle 18 dall’intervento della polizia. Il premier intanto si trovava in viaggio attraverso i paesi arabi. Secondo fonti turche il “Sultano” non sarebbe stato ricevuto dal re del Marocco. Al suo ritorno in Turchia migliaia di sostenitori lo hanno accolto in aereoporto. Le manifestazioni sono proseguite il fine settimana. Se ad Istanbul in piazza Taksim si respirava un clima di festa e a tratti la piazza sembrava quasi un’attrazione turistica, ad Ankara gli scontri tra polizia e manifestanti sono stati violenti. Il Sultano aveva dichiarato che la pazienza ha un limite e quel limite è stato oltrepassato. Mentre ieri sera a KIzIlay c’erano solo pochi manifestanti contro un esercito di poliziotti, Istanbul è tornata ad essere la protagonista delle proteste. La polizia è tornata a caricare i manifestanti. Piazza Taksim la notte scorsa è stata teatro di scontri violenti tra polizia e manifestanti che si sono conclusi con lo sgombero della piazza. Oggi il quartiere simbolo della Turchia moderna e laica sembra tornato alla normalità. Anche a KIzIlay la vita sembra essere tornata alla normalità. Poche persone si sono riversate in strada con pentole e cucchiai.

Quello che è successo in Turchia negli ultimi giorni non è paragonabile alla Primavera Araba. Le proteste erano circoscritte in alcune zone delle principali città turche, bastava allontanarsi dal centro e la vita procedeva normalmente, come se nulla stesse accadendo. C’erano persone sedute al bar a bere il te, ragazze intente a fare shopping, gente che normalmente lavorava. La TV turca mostrava documentari, mentre tv private- vicine all’opposizione- mostravano le proteste e per questo sono state multate. Il popolo sceso in piazza rivendicava libertà e democrazia, quella vera, non la democrazia che il premier turco ha spesso paragonato a un treno dal quale prima o poi si scende.

La fallacia del gambler

Il leggendario Joe Di Maggio

 L’esempio classico è il lancio della moneta. Esempio: dopo aver ottenuto testa per diverse volte, diciamo, per cinque volte consecutive, la nostra tendenza è quella di prevedere un aumento della probabilità che il prossimo lancio sarà croce. In realtà però, le probabilità sono ancora 50/50.

Il brano seguente è tratto da “La straordinaria serie positiva di Joe di Maggio“, di Stephen Jay Gould, in “Risplendi grande lucciola

“La probabilità pervade l’universo, e in questo senso il vecchio detto del baseball che imita la vita reale ha la sua validità. Le statistiche delle serie positive e negative, intese in modo appropriato, ci insegnano una lezione importante sull’epistemologia, e sulla vita in generale. La storia di una specie vivente, o di qualsiasi fenomeno naturale che richieda una continuità ininterrotta in un mondo dominato da eventi casuali, funziona come una sequenza positiva di battute. In ogni caso vale il modello di un giocatore d’azzardo che gioca disponendo di una somma limitata contro un banco dalle risorse infinite. Alla fine il giocatore ci lascerà inevitabilmente le penne. Il suo unico obiettivo può essere quello di restare in gioco il più a lungo possibile, di prendersi qualche soddisfazione finché c’è […] Vediamo regolarità, poiché abbiamo bisogno di risposte confortanti. Vediamo regolarità perché esistono sicuramente, persino in un mondo puramente casuale. Il nostro errore risiede non nella percezione di una struttura ma nel fatto di attribuire automaticamente un significato a una struttura da noi percepita, specialmente quanto il significato può apportarci conforto, o dissolvere la confusione.

Il mio collega Ed Purcell, premio Nobel per la fisica, che però ai fini del tema che sto trattando è un altro tifoso del baseball, ha fatto un ampio studio di tutta la documentazione delle serie positive e negative del baseball. La sua sicura conclusione può essere riassunta in modo semplice e rapido. Nel baseball non è mai accaduto nulla al di sopra e al di sotto della frequenza predetta dei modelli di lancio di monete. Le serie più lunghe negative o positive, o più corte, sono lunghe quanto dovrebbero esserlo. […] Le regola di Purcell ha una sola eccezione importante, una sequenza lontana di un così gran numero di deviazioni standard dalla distribuzione attesa che non avrebbe mai dovuto verificarsi: la serie di 56 partite di Joe Di Maggio nel 1941. La serie di Joe Di Maggio è la cosa più straordinaria che sia mai accaduta negli sport americani. Di Maggio siede sulle spalle della mitologia e della scienza”.

Jan Patočka, Il mondo naturale come problema filosofico. Una recensione

a cura di Guelfo Carbone *

Pubblicato a Praga nel 1936, Le monde naturel comme problème philosophique (Nijhoff, La Haye 1976) è lo scritto di abilitazione del giovane Jan Patočka, che fu, come è noto, allievo diretto sia di Husserl che di Heidegger. Del primo assistette nel 1929 a quei Discorsi parigini che formano il nucleo delle Meditazioni Cartesiane, del secondo nel 1933 seguì a Friburgo i corsi universitari posteriori a Essere e Tempo, non rinunciando però a proseguire gli studi privatamente con Husserl e Fink. Decisive, in particolare per il Mondo naturale, furono le conferenze di Vienna e Praga del 1935, quest’ultime confluite nella I e II parte della Krisis, le uniche pubblicate da Husserl, l’anno successivo, proprio nel 1936, contemporaneamente a una recensione dello stesso Patočka. Patočka dunque visse in prima persona il conflitto aperto tra il padre della fenomenologia e il suo «miglior allievo» eretico, e quel suo primo significativo contributo alla filosofia fenomenologica ne porta tutti i segni evidenti. Ma non è questo il merito del suo libro. O perlomeno non è questo il motivo dell’interesse per uno studio che per forma e contenuti si presenta, a prima vista, con intenti principalmente divulgativi e riepilogativi della fenomenologia. È l’intuizione che sta al fondo, o a monte, del lavoro di Patočka che risveglia l’interesse – fenomenologico, in primo luogo, ma non solo – per il tema di cui si fa portatore, quello appunto della costituzione del mondo in cui ognuno di noi vive e può vivere, quel mondo «unico e comune» di cui parlava Eraclito (fr. 89, Diels-Kranz), al centro delle riflessioni husserliane nella Krisis.

Il problema del mondo, che secondo Fink era la questione «centrale» della fenomenologia, ha – nell’opinione di chi scrive – provocato in maniera determinante l’esigenza della «nuova fenomenologia» che mosse le Meditazioni Cartesiane di Husserl e ciò che ne seguì. Ed è un filo rosso del pensiero del suo allievo eretico, che si dipana dall’inizio (i primi corsi pubblici a Friburgo) alla fine (il Mondo-Quadro del dominio tecnologico), oltre che un compito del pensiero odierno. Sta dunque qui la ragione principale dell’interesse per il libro di Patočka: averne sospettato l’importanza al punto da farne un polo di gravitazione dei temi fondamentali della fenomenologia e del suo metodo (l’intenzionalità, la riduzione, l’empatia, la costituzione intersoggettiva), che vengono qui discussi in relazione alla riabilitazione del mondo naturale operata dalla fenomenologia husserliana in aperto contrasto con le altre filosofie sue contemporanee, e pure, in particolare, con le scienze.
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Platone e Derrida discutono di padri, figli e figliastri

a cura di Elisa Scirocchi

Platone parla, Socrate scrive. Forse è realmente un sogno...

Sto facendo un sogno.
Platone e Jacques Derrida seduti sotto l’ombra di un albero che sfuggono alla calura del cocente sole ateniese. Passato e futuro sono coesi in un dialogo che continua nei secoli. Platone decide di sottoporre a Jacques alcune questioni cui si è dedicato durante la scrittura di un nuovo dialogo che sta per pubblicare: Fedro. Numerosi sono i temi sui quali Platone e Jacques potrebbero discorrere a lungo. L’inesauribile densità di significati del mito della biga alata, la forza dell’esaltante mania amorosa, il viaggio prenatale nella pianura della Verità e la folle caduta delle anime nella tomba del corpo, la teoria della conoscenza come reminescenza, e il soave rapporto degli uomini con la musica espresso nel mito delle cicale. Ma una questione in particolare li colpisce: che sia meglio il discorso parlato o quello scritto? Platone, figlio intellettuale di Padre Socrate e Madre Oralità, si mostra sicuro nel dire che il solo discorso che ci conduce alla Verità è quello parlato. A tal proposito racconta una storia che viene da terre lontane: “Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi, e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’alto Egitto che i greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone”. Platone continua poi il suo racconto con lo scopo di capire insieme a Jacques se sia opportuno scrivere, e se sì, quando è giusto farlo. Il mito, infatti, racconta che il dio Theuth giunse al cospetto del re e gli mostrò tutto ciò che aveva inventato. Arrivato al momento di illustrare la scrittura disse al re Thamus che questa avrebbe reso gli egiziani più sapienti, poiché avrebbe arricchito la loro memoria. “Dunque”, dice Platone, “tale invenzione sarebbe stata un rimedio sicuro!” (O forse disse un veleno?).
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Introduzione al pensiero di Michael Polanyi

a cura di Elisa Radaelli

Michael Polanyi (1891-1976), chimico e filosofo ungherese vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ha elaborato un’originale riflessione filosofica in difesa della società libera. I suoi scritti, che spaziano dall’economia all’etica, dalla chimica alle scienze sociali e dalla fisica alla filosofia, costituiscono un’eredità importante a cui sarebbe doveroso dedicare le giuste attenzioni. Tuttavia, sebbene negli Stati Uniti sia sorta, all’inizio degli anni Settanta, un’associazione che raggruppa studiosi di tutto il mondo allo scopo di approfondirne il pensiero[1], egli rimane, ancora oggi, largamente ignorato. Il cognome Polanyi è noto, semmai, perché associato al nome del fratello Karl, uno dei maggiori storici dell’economia del secolo scorso. Dalle opere principali di M. Polanyi affiora con chiarezza l’esigenza, fortemente sentita dall’autore, di individuare le ragioni profonde di alcuni cambiamenti storico-politici, accanto al rifiuto per le spiegazioni più scontate. L’interesse con cui segue le vicende del suo tempo è di estrema importanza per comprendere il suo pensiero nella misura in cui, proprio nel tentativo di spiegare l’attualità, egli elabora originali schemi interpretativi che si riveleranno fondamentali nella formulazione dei capisaldi della sua filosofia politica. In particolare, l’avvento dei regimi totalitari, tedesco e sovietico, assieme alla rivoluzione ungherese del 1956, sono stati per Polanyi uno spunto decisivo. Infatti, la riflessione sviluppata in merito a questi avvenimenti lo condurrà ad esaminare i fondamenti che reggono una società libera e ad interpretarli in termini di credenze.

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Il problema del “grillismo”

Filosofia e voto, un binomio importante. Asor Rosa parla di “riformismo impossibile” del pd/Sel. Cacciari, suo ex amico ex operaista (ma tutti sbagliano quando sono giovani) chiama la dirigenza del Pd “teste di cazzo” e ammicca a Renzi, esattamente come l’economista liberista Zingales sulle pagine del Wall Street Journal (“Like Italian goods markets, Italian democracy suffers from a lack of competition“). Chi più ne ha più ne metta. Sul vero fenomeno di queste elezioni, il “grillismo”, gli intellettuali dicono tante cose. Ma il problema non è l’ “expertise“. Leggo di sfiducia nei nuovi deputati e senatori grillini. Si dice: non sono esperti, non capiscono niente, non sanno cos’è l’economia, l’ideologia, l’euro, la scuola, la sanità, non sanno cos’è la politica, non hanno conoscenza di “tecnica” politica. E credete che Lupi (pdl) sappia che cos’è l’euro? Credete che se fate una domanda tecnica alla Finocchiaro (pd) su come funziona l’equilibrio bancario internazionale vi sappia rispondere? O se chiedete a Vendola (sel) quali siano le imposte e le tasse che cadono su un’ attività imprenditoriale, sappia rispondervi sufficientemente? Lasciamo stare poi l’equiparazione tra fascismo e grillismo creata da alcuni, solo strumentale e molto superficiale. L’antipolitica e le relative tecniche demagogiche di consenso sono un retaggio che appartiene non solo al fascismo, ma a tantissime altre realtà della nostra storia repubblicana. Vogliamo ricordare che la “questione morale” divenne anche la strategia del PCI di Berlinguer? (“I partiti sono diventati macchine di potere“). Il “né destra” “né sinistra” del movimento poi, lo inquadrerei non in un nebuloso “fascismo”, ma in un fenomeno (del resto criptoideologico e spiacevolissimo) di “tecnicità” delle nuove governance neoliberali, del resto simili al montismo. Su questo punto ha scritto bene Costanzo Preve:

“L’ideologia, o più esattamente la produzione ideologica, è una dimensione strutturale permanente, e quindi antropologicamente e socialmente ineliminabile, dell’attività umana.Non esiste, ed ovviamente non può esistere, nessuna presunta “fine delle ideologie”. Quelle che finiscono, o quasi sempre si indeboliscono, sono solo delle formazioni ideologiche storicamente determinate e congiunturali. La cosiddetta “fine delle ideologie” è a sua volta una ideologia, e per di più particolarmente povera.  Parlare di fine dell’ideologia è come sentir dire da un medico, a proposito del corpo umano, che c’è la fine del sudore, dell’adrenalina, dello sperma e degli escrementi. Si tratta di idiozia pura. Filosoficamente parlando, la fine dell’ideologia intesa come  fine di ogni falsa coscienza e di ogni rappresentazione antropomorfizzata del destino dell’uomo equivarebbe ad una impossibile divinizzazione dell’uomo stesso, trasformatosi integralmente in sostanza spinoziana o in Pensiero del Pensiero aristotelico. Una prospettiva da abbandonare esplicitamente.”

Si potrebbero aggiungere anche le parole stesse di Casaleggio riguardo l’ingenua componente a-ideologica del Movimento “In Gaia, partiti politici, ideologie e religioni spariscono, l’uomo è il solo proprietario del suo destino. La conoscenza collettiva è la nuova politica” (video youtube casaleggio srl). L’interpetazione, in questo caso, è più sbilanciata verso il transumanesimo e un certo stile idealistico aziendalista. Ma questa è solo una delle letture possibili, che va sommata alle altre. Cerchiamo, per una volta, di paragonare l’ignoto all’ignoto, anzichè sempre al noto. Paragonare il grillismo al fascismo significa proferire emerite castronerie, precludersi analisi più approfondite e significative, utili a trovare il bandolo della matassa. Quello che vediamo è qualcosa di nuovo, radicalmente nuovo.  Il problema più serio dei novelli parlamentari grillini e dei senatori grillini è invece quello di uscire da una più o meno legittima visione critica della politica partitica ad una visione pratica e programmatica, e da programmi di rabbia, marketing elettorale, spesso troppo generici, irrealizzabili e demagogici (esempio: “il referendum per l’euro”, “aboliamo i sindacati”, “aboliamo le scuole paritarie”, “Abolizione dei contributi pubblici ai partiti”, “Abolizione dell’Imu sulla prima casa”, “Referendum propositivo e senza quorum”, “reddito di cittadinanza”) a quello che si può effettivamente fare, bilancio alla mano, maggioranze alla mano, benessere nazionale alla mano. Il problema è uscire dalla semplicistica visione “via dal sistema!” per capire l’effettiva strada da percorrere, per rispondere allora alla domanda pregnante “quale sistema, allora?“.

Significa perciò sottoporre il movimento, finalmente, ad un clima di contraddittorio (del resto Grillo, simbolo e reclutarore del movimento, si è sempre sottratto ai contraddittori). Per il movimento, significa anche strutturarsi, ed in maniera più democratica, rinunciando al mito e alla pericolosa velleità tecnognostica (in stile casaleggio s.rl.) che la tecnologia “rete” risolva tutti i problemi di organizzazione e democraticità.

Ora sono dall’altra parte della barricata, hanno la responsabilità anche di costruire, il che è molto più complicato. Ora non c’è più quello spazio per fare i “puri”. Certo, possono strutturarsi, anche alle camere, come opposizione “pura” al Pd e Pdl, un po’ quello che furbescamente ha fatto la Lega e Dipietro nel governo Monti (senza peraltro risultati elettorali diversi dallo zero) ma così perderebbero un’occasione importante per far passare qualche loro progetto interessante. Maturità significa, finalmente, passare dall’eterna opposizione ad una fase di costruzione pratica (e, detto fra noi, potrebbero costringere Bersani, finalmente, a fare qualcosa di “sinistra”). In parlamento, costruire significa anche scendere a compromesso sulla loro stessa immagine mediatica. Sul territorio fino ad adesso hanno lavorato  bene, vedremo ora, pressati da spread, borse che colano a picco, maggioranze, minoranze, voti, proposte e commissioni, se andrà altrettanto bene. Queste elezioni possono significare la nascita o la fine del Movimento.
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Aggiornamento al 01/03/2013: consigliamo la lettura di questo articolo dei Wu Ming

Ceci n’est pas un pope

 

Iconografie vecchie e nuove, ibridi postmoderni

Il mito dell’Abbé Pierre dispone di una carta preziosa: è la sua testa.  E’ una bella testa, che presenta chiaramente tutti i segni dell’apostolato: lo sguardo buono, il taglio francescano, la barba missionaria, tutto ciò completato dal giubbotto prete-operaio e dalla canna del pellegrino. In tal modo si uniscono le cifre della leggenda e quelle della modernità” (Roland Barthes, Iconografia dell’Abbé Pierre in Miti d’Oggi)

Novità, gesto rivoluzionario? Un ulteriore gesto titanico? Ritorno al passato?  Parliamone. Della filosofia e teologia dell’ultimo binomio di papi della Chiesa Cattolica ci siamo già occupati qui e qui. Tutto cambia, tutto resta uguale. Ma ora si tratta di un inaspettato colpo di coda del pastore tedesco. Qualcuno ha paragonato queste quasi laiche “dimissioni” (quasi fosse un lavoro “profano”, tanto il linguaggio stesso è rimasto spiazzato) al gesto di Celestino V, l’ingenuo monaco eremita contemporaneo di Dante  costretto al “rifiuto” dall’animale politico Bonifacio VIII, che di lì a poco divenne uno dei principali burattinai d’Europa. Forse, Celestino V fu addirittura assassinato da Bonifacio VIII nella sua reclusione coatta di Fumone. Se vogliamo riferirci alla storia, essa è piena di figure che rompono l’iconografia moderna pontificia. Piena di papi atipici: anti papi, papi guerrieri,  papi con figli, papi avvelenati, papi avvelenatori, papi cospiratori, papi eretici, papi astrologi,  papi rapiti, catturati e detenuti, e morti in cattività lontani da Roma. Papi scomunicati da imperatori, umiliati da generali, da eserciti e re, papi scomunicati da anti papi. Papi, al contrario, che umiliano i potenti. Specie prima del concilio di Trento. Nel caso di Ratzinger, non è possibile fare paragoni storici, e ogni paragone storico è funzionale a costruire modelli più o meno impropri, mitologici o, al contrario, irriverenti. Quel che però si può dire da laici del gesto di Ratzinger è in realtà un ricorso storico più generale: un tornare a  quella umanità sempre maledetta e sempre esorcizzata, individuale certo, ma anche funzionale, politica e machiavellica del ruolo papale, così adombrata (almeno al grande pubblico popolare) negli ultimi secoli dell’era tridentina della Chiesa Cattolica, quando seguendo un certo storico trend si è addirittura arrivati a proclamare dogmaticamente, in chiave antimoderna, antidemocratica e antilluminista, contro il demone del liberalismo, l’infallibilità ex cattedra del papa.

Lo stesso  Giovanni Paolo II, l’ultimo grande comunicatore della Chiesa, da buon polacco aveva esaltato, e non diminuito, l’iconografia eroica e mistico-passionale del papato, anche grazie al suo tristissimo fine-vita, per giungere alla sua morte cristica trasmessa come un Death-Reality nelle case del mondo cristiano e non. Concetti e miti intramontabili per gruppi considerevoli di cattolici, rappresentati pienamente da dinosauri fossili e passionisti come Stanislaw Dziwisz, che ora dichiara: “Wojtyla restò, riteneva che dalla croce non si scende”. Il teologo e filosofo Ratzinger, l’accademico (di curia) e l’uomo che ha vissuto tutta la vita nei suoi libri, e diciamolo, almeno quelli, i “suoi libri”, li conosceva abbastanza bene (probabilmente più di quanto conoscesse gli squali della sua curia), ha ritenuto che decomporsi in pubblico seguendo il Cristo martire volontario raccontato nei Vangeli, nonché il suo padrino Karol, non è poi così dignitoso né eroico. E pure se fosse eroico, non gli interessava una beneamata. Specie quando non poteva nemmeno difendersi dai suoi maggiordomi e vescovi spioni. Ora di lui si dirà di tutto: letture cospirazioniste o storico-hegeliane, alleandosi, racconteranno che la funzione-Ratzinger (non l’individuo) è stata costretta dalla politica, dalla curia, dalle banche (che ora vanno così di moda) e dal Nanni Moretti nazionale al suo gesto. Altri diranno, al contrario, che è il gesto di un individuo che ha scelto liberamente la sua vita e il suo fine-vita. Mediando fra le due note posizioni (e fra i due stili di pensiero), quel che è certo: è un piccolo passo verso la normalità, un piccolo passo  di una Chiesa ancora modellata su miti archetipi e mediatici come il padre-re-pastore, l’eroe martire,  espiazioni didattiche, sangue, croci e qualche chiodo. Ancora fisso. In estrema sintesi, le sue dimissioni sono uno “straordinario” gesto laico (straordinario perché raro) e antimitico da parte di un teologo-papa-di-biblioteca che da frequentare utilissimi compagni di merenda come Karl Rahner si convertì purtroppo alle paludi del tomismo,  ma che probabilmente è sempre rimasto fedele (e le sue “dimissioni” lo confermano) ad una visione molto umanistica e pratica, decisamente poco mistica, della sua vita e del suo ruolo. Si direbbe uno stile da basso profilo, da anti epopea, da anti santino, senza Valchirie, senza Anelli da gettare nel monte Fato e  Nibelunghi. Tipicamente tedesco, visto che ai cliché siamo abituati. “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”: era la beatitudine laica di un altro noto tedesco del Novecento.

 

L’ Animal Laborans in Hannah Arendt

Hannah Arendt e Richard Sennett

UNA RIVISITAZIONE DEL CONCETTO DI ANIMAL LABORANS IN HANNAH ARENDT. A cura di Alessio Perigli

Introduzione

I L’animal laborans nella storia

I.1 Strumentalità e animal laborans

I.2 La vittoria dell’animal laborans

II L’animal laborans nei regimi totalitari

II.1 L’animal laborans nel regime nazista

II.2 L’animal laborans nel regime stalinista

III L’animal laborans e l’homo sacer

III.1 L’ambivalenza del sacro

IV L’animal laborans e l’uomo artigiano

IV.1 L’uomo creatore di sé stesso

IV.2 L’esperienza come mestiere

 Conclusioni

 Bibliografia
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Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Una recensione di Francesca Borsari

I moti del 1848 in tutta Europa. Anche questa volta, l'inizio fu in Francia

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Il lavoro che viene qui ristampato, fu il primo tentativo di spiegare attraverso la concezione materialistica un frammento di storia contemporanea partendo dalla situazione economica corrispondente. (Friedrich Engels, p. 39)

Credo che la succitata frase riassuma in sé la motivazione principale per la quale leggere questo libro. Ulteriori motivazioni risiedono nella scorrevolezza del testo e, dal mio punto di vista, nella dimostrazione di quanto peso può avere un’idea nell’interpretazione storica. L’opera di MarxLe lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” fu pubblicata sulla Neue Rheinische Zeitung come serie di articoli. Nel 1895 Engels pubblicò una nuova edizione dell’opera di Marx intitolandola “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” dando titoli nuovi ai tre capitoli già apparsi. Come quarto capitolo aggiunse le parti dedicate alla Francia della Rassegna maggio-ottobre 1850 con il titolo “La soppressione del suffragio universale nel 1850“.

Il contesto filosofico dal quale Marx prende le mosse e dal quale è possibile spiegare quest’opera, è quello della messa in crisi della filosofia hegeliana perpetrata da Feuerbach, da Kierkegaard e da egli stesso tra gli anni ’40 e ’50 dell’800. Si era criticata l’idea di un idealismo assoluto che inseriva la ragione in un processo dialettico che rivelava la struttura stessa della realtà: l’accento è posto di nuovo sull’uomo. Marx rifiuta di Hegel l’identità della storia con la realizzazione di un principio assoluto, ma riprende la struttura dialettica del processo storico. Anche per Marx la storia è importante, ma perché terreno di trasformazione delle relazioni degli uomini. Nella produzione delle proprie condizioni materiali di vita gli uomini costruiscono un insieme di relazioni che sono la vera struttura della società; la storia non è che l’evoluzione di queste strutture economiche. Tutto il resto (diritto, religione, cultura, arte ecc.) non è che sovrastruttura e dunque, in quanto tale, dipendente dalla struttura e senza vera autonomia.
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M. De Certeau, La scrittura della storia. La vertigine dell’uomo storico

a cura di Elisa Scirocchi

“[…]Così è la storia. Un gioco della vita e della morte prosegue nel calmo dispiegarsi di un racconto, ricomparsa e denegazione dell’origine, svelamento di un passato morto e risultato di una pratica presente[ …]”.

Michel De Certeau: Filosofo, letterato, storico, teologo, studioso di psicoanalisi. Dal profondo interesse per la psicologia, e per le scienze sociali in generale, nasce, nel 1975, La scrittura della storia. Come la stella polare brilla chiara nel cielo di navigatori, l’operato di Freud emerge in questo testo come punto di riferimento assoluto. De Certeau tende a designare Freud come colui che riuscì a far emergere quelle dimensioni inquietanti dell’essere umano, le quali possono essere comprese solo se trascritte o raccontate in una storia attraverso il mondo retorico della scrittura. L’analista, infatti, scava il nostro inconscio attraverso delle figure di stile che si ripetono e che sono applicabili a molteplici situazioni. Se ci pensiamo bene il disaccordo con il padre che porta al complesso di Edipo, o l’associazione attraverso il transfert di una persona a un’altra, sono, come afferma lo stesso De Certeau, dei fenomeni polivalenti. Attraverso queste figure possiamo dare voce al nostro inconscio, allo stesso modo in cui solo attraverso delle lenti scure siamo in grado di guardare la luce accecante del sole. Queste strutture formali non colmano le nostre lacune, non portano a una piena trasformazione della nostra parte inconscia in conscia, non ci consegnano noi stessi, ma ci avvicinano soltanto a noi stessi. Scrive De Certeau che questi formali e retorici espedienti “circoscrivono l’inesplicato, non lo spiegano”. Attraverso la scrittura della storia, l’uomo mostra tutta la sua debolezza, e il suo lato lacunoso, così come attraverso un’analisi di tipo psicoanalitico egli mette a nudo il suo lato più debole. La storia esprime l’estraneità che proviamo verso di noi, estraneità tutta propria dell’uomo contemporaneo in continua lotta con se stesso e con la sua voglia connaturata di evadere da sé, che lo mette in condizione di fare continuamente progetti.

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